Azioni civiche collettive e amministrazione condivisa Un quadro interpretativo verso la ricerca empirica.
7. Dimensione pubblica, capabilities e beni comuni Un primo tentativo di lettura verso la ricerca empirica
Abbiamo già a volte in modo esplicito a volte implicito accennato ad alcune dimensioni chiave nel corso di questi quattro capitoli. Sono dimensioni che la nostra ricerca ha messo a fuoco e che quindi riprenderemo, in diretta connessione con le pratiche indagate, nella seconda parte. Tuttavia a conclusione in questo capitolo vogliamo qui cominciare a ricomporre uno sguardo ed una traiettoria di analisi attraverso alcuni contributi che nel corso
dell'indagine abbiamo ricostruito. Sono in realtà concetti complessi, leggibili da diverse angolazioni, che richiederebbero certamente trattazioni ampie. Quello che ci siamo qui riproposti è mettere tra loro in dialogo alcuni aspetti nello speci fico della loro relazione con la partecipazione. Nell'affrontarli, quindi, richiameremo di volta volta elementi emersi nei diversi capitoli. Si vuole quindi da un parte tirare le fila di un discorso e fornire una cornice di senso e lettura, e dall'altra essere una “provvisoria conclusione” che apre delle domande, mette in evidenza nodi critici, cui non daremo qui risposta e che verranno invece ripresi nella seconda parte.
7.1. Costruzione del «pubblico» e beni comuni
Abbiamo accennato variamente in questi capitoli al tema della dimensione pubblica. È necessario ora fare alcune distinzioni di fondo rispetto a questo concetto e chiarire poi in che termini questa dimensione rientra e può essere tematizzata in questo lavoro.
Seguendo Bifulco (2005, 2005 b) e de Leonardis (1998) va in primo luogo evidenziato, dandolo quindi poi per acquisito, il superamento dell'equivalenza tra pubblico e statuale.
Proprio ciò che abbiamo evidenziato nel capitoli precedenti- in particolare il secondo e il terzo- rende comprensibile questo superamento, ossia, come evidenzia Bifulco (2005b) « la presenza crescente di arene miste, pubblico- private, nelle politiche è uno dei fattori che più distintamente dà evidenza a questo superamento» (in Pellizzoni, 2005 p.143). Inoltre il rischio di emersione di «culture privatistiche» e di opacità delle scelte sui problemi collettivi, in un contesto di privatizzazione e di ritiro dello stato, mette a rischio e in discussione lo statuto pubblico di questi assetti. Questa situazione si rende ancora più complessa proprio alla luce del fatto che ormai «gli attori privati sono pubblicamente legittimati a intervenire su questioni di rilevanza collettiva; e le amministrazioni pubbliche dal canto loro, sono sollecitate a lasciare le funzioni di comando e del controllo per assumere quelle della catalizzazione e della regolazione dei potenziali auto-organizzativi dei privati cittadini» (ibidem, p.144).60
In questo contesto, in cui diviene incerto che cosa è pubblico, diviene cruciale chiedersi « in che modo nelle realizzazioni attuali della partecipazione emergono attori, materie e arene pubbliche? Attraverso quali processi e a quali condizioni»? (ibidem, p.143). A tal fine è necessario fare uno spostamento di attenzione dalle caratteristiche degli attori e organizzazioni o sulle precondizioni delle azioni verso i processi, «attraverso i quali arene, attori, materie, diventano, se lo diventano, pubbliche», e quindi poi, da una prospettiva processuale, declinare i requisiti che quali ficano ciò che è pubblico.
Bifulco, propone un'articolazione di questi requisiti facendo af fidamento a tre principali autori che, notoriamente, hanno trattato il tema della dimensione pubblica, ossia Dewey
60 Si veda quanto qui già trattato sul tema della sussidiarietà e dell'amministrazione condivisa, nonché sulle arene deliberative nel capitolo terzo.
(1938), che abbiamo già richiamato nel terzo capitolo rispetto all'idea di «indagine pubblica», Habermas (1962) cui abbiamo fatto riferimento nell'ambito delle teorie deliberative, e certamente, la Arendt (1958), alla quale ora vogliamo dedicare qualche passaggio per noi fondamentale.
Il termine pubblico per la Arendt fa riferimento in primo luogo al fatto che «ogni cosa che appare in pubblico può essere vista e udita da tutti e ha la più ampia pubblicità possibile» (p.37), in secondo luogo signi fica «il mondo stesso, in quanto è comune a tutti e distinto dallo spazio che ognuno di noi occupa privatamente [... ]vivere insieme nel mondo signi fica essenzialmente che esiste un mondo di cose tra coloro che lo hanno in comune [...] la sfera pubblica in quanto mondo comune, ci riunisce insieme» (p. 39).
La realtà della sfera pubblica, evidenzia l'autrice «si fonda nella presenza simultanea di innumerevoli prospettive61», e infatti «sebbene il mondo comune sia il comune terreno
d'incontro, quelli che vi sono presenti hanno in esso diverse posizioni, e la posizione di uno non può coincidere con quella di un altro […] L'essere visto e l'essere udito dagli altri derivano la loro importanza dal fatto che ciascuno vede e ode da una diversa posizione. Questo è il signi ficato della vita pubblica [...]» (ibid.).
La Arendt quindi pone in evidenza che «nelle condizioni di un mondo comune, la realtà non è garantita principalmente dalla «natura comune» di tutti gli uomini che lo costituiscono, ma piuttosto dal fatto che, nonostante le differenze di posizione e la risultante varietà di prospettive ciascuno si occupa sempre dello stesso oggetto». È per l'autrice (ibidem, p. 43) la distruzione della «molteplicità prospettica» che porta e precede la distruzione del mondo comune. Tale distruzione può accadere tanto nelle situazioni di «radicale isolamento» in cui «nessuno più si intende con gli altri» come avviene nelle tirannie, ma anche in una società di massa:
in entrambi i casi, gli uomini sono divenuti totalmente privati, cioè sono stati privati della facoltà di vedere e di udire gli altri, dell'essere visti e dell'essere uditi da loro. Sono tutti imprigionati nella soggettività della loro singola esperienza, che non cessa di essere singolare, anche se la stessa esperienza viene moltiplicata innumerevoli volte. La fine del mondo comune è destinata a prodursi quando esso viene visto sotto un unico aspetto e può mostrarsi in un sola prospettiva. (ibid.)
Seguendo i lavori di Bi ficulo e de Leonardis (Bifulco, de Leonardis 2005 pp. 197-201)62 possono essere individuate quattro dimensioni chiavi che possono servire a identi ficare ciò che è pubblico.
La prima è la messa in visibilità, che riguarda cioè
61 Nostro corsivo.
i processi attraverso cui certe materie sociali escono dalla sfera privata, sottratta alla sguardo di estranei, per esporsi invece a questo sguardo e diventare oggetto di discussioni, di elaborazioni che trasformano i modi di de finirle e trattarle, i loro signi ficati sociali, e poi di decisioni pubbliche, esse stesse come tali visibili.
Ciò che quindi si apre come possibilità è il fatto che diversi attori possono, nella concezione della Arendt, essere visti ed uditi, e le materie e le questioni, attraverso diverse prospettive, possono essere messe a confronto, discusse, anche tramite il con flitto, diventando a loro volta visibili, contestabili, ma anche creando la generazione di nuovi signi ficati e conoscenze (Dewey 1938), creando allo stesso tempo altri «pubblici» (Habermas 1962, 1992). È quindi nella molteplicità e nella pluralità, esposte in pubblico, che la deliberazione che ne risulta diventa come tale legittima.
Quello che abbiamo messo in evidenza nel trattare in termini complessivi i principi di fondo di molte pratiche partecipative-deliberative, va quindi messo in connessione con questa prospettiva di «pubblico». Ci pare invece da esplorare come, tramite un processo orientato più che alla deliberazione al «fare collaborativo», si possa generare questa messa in visibilità.
La seconda dimensione è quella della generalizzazione, quale passaggio dal particolare al generale. Alla luce di quanto abbiamo qui analizzato nella prospettiva della sussidiarietà e dell'amministrazione condivisa riteniamo di particolare importanza questa dimensione. Si tratta di «un processo di risalita in generalità», di un processo «che spinge gli attori a confrontarsi su argomenti generalizzabili, giusti ficabili in generalità, come tali riconoscibili e condivisibili». In tal modo «l'azione diventa pubblica in quanto ne emerge e ne diventa riconoscibile il suo rapporto con interessi generali e beni comuni».63 Questo processo può esser compreso ulteriormente se messo in connessione con alcuni aspetti cruciali che abbiamo trattato nel capitolo terzo in relazione a quel processo esplorativo e di ascolto attivo che può essere e dovrebbe esser curato nei percorsi partecipativi e deliberativi. L'interesse generale cioè emerge non tramite una semplice aggregazione di proposte, ma tramite una loro trasformazione in proposte condivisibili perché appartenenti ad un terreno comune via via messo a fuoco tramite la discussione, la messa in visibilità di temi, diversi posizioni, interessi, identità e bisogni. È questo un processo ovviamente non lineare, che a volte può invece basarsi su prove di forza, dove cioè si polarizzano e cristallizzano posizioni fino ad escalation non più gestibili. Nel caso di modelli di amministrazione condivisa e nel caso in cui, si riconosce ai cittadini che si auto-organizzano la possibilità di curare un interesse generale come può prendere forma questo processo di risalita in generalità? Se l'interesse generale non è tale solo perché garantito dalla pubblica amministrazione, ma è frutto di un processo in cui entrano in gioco diversi attori, allora diviene interessante mettere a fuoco questo processo, in
63 Le autrici fanno qui riferimenti ed attingono, come loro stesse chiariscono, ai lavori di Boltanski Thévenot (1991) e Boltanski, Chiappello (1999)
diversi contesti partecipativi e collaborativi.
Arriviamo così alla terza dimensione, che è quella del riconoscimento di beni in comune. Nella prospettiva di questa dimensione il processo del diventare pubblico
riguarda il passaggio dallo statuto privato dei beni, de finito da un regime di appropriazione- il cardine è la proprietà privata- a una condizione nella quale essi sono de finiti e riconosciuti come comuni a una collettività, relativi a interessi generali, e trattati, curati e fruiti in comune. Diversamente dai beni privati, la loro fruizione non esclude nessuno ed è congiunta.
Il processo quindi in cui i beni comuni prendono forma ha diverse valenze. In primo luogo, proprio perché emergono e vengono identi ficati attraverso la messa in visibilità di diverse posizioni, messe a confronto in vista di una elaborazione di una de finizione condivisa, i beni comuni assumono una «consistenza cognitiva». Inoltre assumono un valore riconosciuto, proprio perché, attraverso l'individuazione di interesse generale, se ne giusti fica il valore, si de finiscono le competenze e i poteri per la loro trattazione e cura, in ciò hanno quindi anche «una consistenza normativa», ossia di tipo valoriale.
Come bene evidenziano le autrici essi richiedono però che «i processi che li costruiscono restino aperti e continuino a riprodurli e curarli», questi processi vanno quindi mantenuti attivi e le condizioni af finché ciò accada vanno curate nel tempo. Emerge qui, riteniamo, una interessante prospettiva del ruolo possibile delle istituzioni nell'ottica dell'amministrazione condivisa, prospettiva che indagheremo nella seconda parte, ma possiamo intanto qui anticipare, seguendo Arena, che l'introduzione del Regolamento sulla collaborazione tra cittadini ed amministrazione, per la cura condivisa di beni comuni urbani, consente di fare emergere l'essere in comune di questi bene attraverso al creazione di «un legame duraturo e strutturato fra la comunita composta dai cittadini attivi ed i beni comuni materiali e immateriali oggetto del loro intervento. Per cui in secondo Arena (2015)64
Diventa un bene comune nel momento in cui la comunita lo «riconosce», per cosi dire, come bene comune, dandogli una nuova identita come bene di tutti, non piu come bene pubblico, cioe del comune o dello Stato. E questa nuova identita non e un fatto meramente nominalistico, non e una classi ficazione in un registro, bensi deriva da un’azione, da un intervento molto concreto e reale che, oltretutto, deve durare nel tempo, af finche il bene rimanga un bene comune.
Questo ultimi passaggi chiamano in causa però una quarta ed ultima dimensione, quella dell'istitution building, che riguarda il «nesso fra azione e istituzione, come sostantivo del verbo istituire». Il tema qui è la «generazione di un tessuto normativo relativamente comune e condiviso», che fa si che si renda riconoscibile, nella sua terzietà, un'istituzione. Tale terzietà non è tale perché basata su un ruolo autoritativo, ma invece è frutto di un processo di
confronto di diversi punti di vista, tramite un processo di apprendimento tanto delle istituzioni « ad ascoltare, a connettere e a tradurre», tanto dei cittadini « a partecipare alla cosa pubblica» (Bifulco 2005, p. 206).
Dimensione pubblica e beni comuni nella prospettiva che abbiamo qui seguito emergono tra loro profondamente connessi. Abbiamo anche evidenziato in che termini essi assumono diverse valenze in questo processo di «costruzione di pubblico».
Ci preme però fare qualche passo ulteriore di chiarimento semantico che ci consente di tracciare alcune coordinate di lettura, nella consapevolezza che il tema e il dibattito sui beni comuni è davvero ampio65, e che le lenti che abbiamo deciso di adottare sono parziali, o meglio dovremmo dire «situate» e quindi parziali, cioè connesse con lo speci fico caso da noi analizzato (capitolo VI,VII) e che, vedremo, mette al centro il tema dei beni comuni nella prospettiva della collaborazione tra amministrazioni pubbliche e cittadini e di applicazione di una sussidiarietà orizzontale e circolare. 66
Se, abbiamo visto la sfera pubblica e la dimensione pubblica si genera quando soggetti, materie, azioni assumono uno statuto pubblico, non in virtù di una loro coincidenza con la sfera statuale, ma di un processo che li rendi tali, è quindi chiaro che « non ci puo essere sfera pubblica senza soggetti, azioni e comunicazione», ma è altrettanto vero, come sottolinea Donolo (1997, p.) che « questi sarebbero solo fantasmi senza la materia dei beni comuni, che essi continuamente riproducono». Per cui ne deriva una «equazione tra sfera pubblica e spazio di riproduzione dei beni comuni». In questo modo, si evita «il rischio di una dematerializzazione della sfera pubblica come puro gioco di razionalita discorsive, o di un suo svuotamento».
Sancito questo nesso quindi importante tra sfera pubblica e beni comuni67, come possono essere de finiti?
Continuando a seguire Donolo ( 2010)68 una prima de finizione che emerge è la seguente:
65 Oltre alle opere agli autori cui faremo qui di seguito riferimento, si veda ancheBellanca N., L’economia del noi. Dall’azione collettiva alla partecipazione politica, Milano, Egea; Carlini R., L’economia del noi. L’Italia che condivide, Bari, Laterza; Innerarity D., Il nuovo spazio pubblico, Roma, Meltemi, 28; Mattei U., Beni comuni. Un manifesto, Bari, Laterza, 211; Negri A., Hardt M., Comune. Oltre il privato e il pubblico, Milano, Rizzoli; Ostrom E., Governare i beni collettivi, Marsilio, Venezia; Sennett R., L’uomo artigiano, Milano, Feltrinelli, 29; Sennett R., Insieme. Rituali, piaceri, politiche della collaborazione, Milano, Feltrinelli.
66 Dobbiamo cioè specificare che ci rifaremo qui a quei contributi che appartengono ad un insieme di elaborazioni emerse nell'ambito degli studi dell'amministrazione condivisa e la collaborazione civica, e che è stato coinvolto nella stesura del nuovo Regolamento sulla collaborazione per la rigenerazione e cura di beni comuni urbani del Comune di Bologna, ossia Labsus, e che fa parte del Comitato scientifico di Labsus, o che risulta essere un riferimento teorico per tali elaborazioni. Nella prossima parte del lavoro tratteremo in profondità il regolamento, ma qui cominciamo da un punto di vista più teorico a tracciare quella che emerge come interpretazione dei beni comuni ad esso connessa.
67 Donolo a questo proposito usa come espressione beni pubblici, in quanto creati all'interno di una sfera pubblica.
68 Inwww.labsus.org, 31 maggio 2010. Sul tema della sfera pubblica e dei beni comuni, sempre ad opera dello stesso autore, si veda anche Donolo (2007) “Il ruolo dei beni comuni nell'azione collettiva, in Sociologica; (1997)Affari pubblici. Sull’incontro tra capacità e beni comuni nello spazio pubblico”, in Rassegna Italiana
i beni comuni sono un insieme di beni necessariamente condivisi. Sono beni in quanto permettono il dispiegarsi della vita sociale, la soluzione di problemi collettivi, la sussistenza dell’uomo nel suo rapporto con gli ecosistemi di cui e parte. Sono condivisi in quanto, sebbene l’esclusione di qualcuno o di qualche gruppo dalla loro agibilita sia spesso possibile ed anche una realta fin troppo frequente, essi stanno meglio e forniscono le loro migliori qualita quando siano trattati e quindi anche governati e regolati come beni «in comune», a tutti accessibili almeno in via di principio. Sono condivisi anche in un senso piu forte, in quanto solo la loro condivisione ne garantisce la riproduzione allargata nel tempo, e almeno per un nucleo piu duro di beni comuni «essenziali» se non condivisi (il che propone sempre problemi di contratto sociale, di governance e di buongoverno) la vita sociale diventa insostenibile fino a un punto di catastrofe. La rilevanza dell’aggettivo «comune» viene enfatizzata dal dato di fatto che i processi dominanti oggi a livello locale e globale sono invece centrati su appropriazione, privatizzazione e sottrazione alla fruizione condivisa di tantissimi di questi beni. Da qui l’inevitabile con flitto sullo statuto dei beni comuni, un tema questo che – tanto per capirci – ha oggi lo stesso rilievo che potevano avere a meta ottocento la lotta di classe e il socialismo.
Da questa de finizione emerge innanzitutto una centralità dei beni comuni e del loro statuto, nel discorso politico attuale, ma anche nel necessario rifondare delle basi di un vivere sociale fuori dal privatismo ( de Leonardis 1996) e centrato su ciò che non è nè privato né pubblico (inteso come statuale) bensì appunto comune e in comune (Bifulco, de Leorianrdis, op cit.).
Arena (2015b) in linea di continuità con questa de finizione evidenzia che «i beni comuni sono quei beni che se arricchiti arricchiscono tutti, se impoveriti impoveriscono tutti»69. Quello che viene messo al centro in tutte queste de finizione è il «passaggio dal possesso all'uso» (Arena 2015, p. 29), quest'ultimo, chiaramente, condiviso.
Ma cosa è ricompreso nell'universo dei beni comuni?si tratta cioè di beni comuni materiali e quindi in primis naturali o immateriali e anche virtuali?
Una de finizione che certamente si orienta maggiormente verso una de finizione «materiale» è quella elaborata dalla Commissione presieduta da Stefano Rodota e nominata dal Ministro della giustizia nel 2007 per riformare le norme del Codice Civile relative ai beni pubblici. Secondo la Commissione, sono beni comuni «quei beni a consumo non rivale, ma esauribile, come i fiumi, i laghi, l’aria, i lidi, i parchi naturali, le foreste, i beni ambientali, la fauna selvatica, i beni culturali, etc., i quali, a prescindere dalla loro appartenenza pubblica o privata (in realta quasi sempre pubblica, a parte i beni culturali), esprimono utilita funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali e al libero sviluppo delle persone e dei quali, percio, la legge deve garantire in ogni caso la fruizione collettiva, anche in favore delle generazioni
di Sociologia / a. XXXVIII, n. 2, aprile-giugno 1997; “Dalle politiche pubbliche alle pratiche sociali nella produzione di beni pubblici? Osservazioni su una nuova generazione di policies”, in Stato e Mercato / n. 73, aprile 2005.
69 Arena (2015 b) in Www.labsus.org 7 ottobre 2015. Vedi anche Arena, Iaione (a cura di ) L'italia dei beni comuni, Carocci, Roma; Arena, Iaione, (a cura di) (2015) L'età della condivisione, Carocci, Roma.
future» (in Arena 2015b, op cit. p. 1).
Donolo (2010, p. 2) a questo proposito evidenzia invece come vadano ricompresi sia «i beni comuni «naturali» intesi come l’insieme delle risorse naturali e dei servizi che gli ecosistemi forniscono al genere umano», sia, «i beni che l’intelligenza umana ha progressivamente creato, in termini di conoscenza, saper fare, istituzioni, norme, visioni», e che sono beni che esistono grazie a una « complessa interfaccia che rende possibile e produttivo lo scambio uomo-natura, e che oggi potremo sintetizzare nella parola tecnologia. Questa componente la chiameremo dei «beni comuni virtuali e arti ficiali»». Questi ultimi «si «aggiungono» a quelli naturali come uno strato ulteriore sia funzionale che di senso. Lo si puo capire pensando a un paesaggio che e insieme ecosistema (bene comune naturale), arti ficio (come effetto per esempio di pratiche culturali) e bene simbolico (valore culturale interpretato ed istituito)».
Il regolamento del Comune di Bologna, come vedremo fa rifermento ai beni comuni «materiali e immateriali» e come già evidenziato in precedenza sancisce un legame tra comunità e beni comuni, legame che si sostanzia nella cura e rigenerazione da parte dei cittadini di quei beni.
A conclusione di queste ri flessioni possiamo evidenziare che il tema di fondo relativo alla comprensione dello statuto di questi beni, al come si generano, si mantengono e si riproducono- che si pre figura come un tema altamente dibattuto e che traccia una linea di con fine sostanziale nelle semantiche dei beni comuni- è che i beni comuni non sono qualcosa di già dato, ma sono frutto di un'azione processuale, che si gioca in una dimensione pubblica, e tramite pratiche orientate alla condivisione70.
7.1.1. Spazi pubblici urbani e sfera pubblica
Nella analisi fin qui svolta circa il tema della dimensiona pubblica, abbiamo posto l'attenzione su un'accezione che richiama la sfera pubblica e il processo per cui temi, questioni, assumono uno statuto di pubblico. Siamo nel solco, come abbiamo visto del