La partecipazione: teorie, idee e pratiche nel tempo e nello spazio.
4. La sperimentazione di processi partecipativi in Italia: assunti e pratiche
Nel capitolo precedente- al quale quindi rimandiamo- nel quadro dei più ampi processi di governance e di ridefinizione dell'approccio alla pianificazione, abbiamo ripercorso le tappe e gli strumenti più significativi che dall'Europa all'Italia hanno permesso di giungere, dicevamo, a considerare i quartieri come luogo della partecipazione, ma anche ad una sempre maggiore attenzione al sapere e alle capacità «locali» nell'ambito di diversi ambiti delle politiche, soprattutto in quelle urbane.
Quello che ora vogliamo affrontare e mettere a fuoco è la traduzione in pratica di questi processi partecipativi.
Sono davvero ormai numerosi le esperienze partecipative realizzate in Italia e che sono state anche già oggetto di analisi. Grazie a questa esperienza si è consolidato nel tempo un sapere teorico-pratico che possiamo ricostruire e che fornisce un quadro delle sfide che sono in gioco quando si avvia un percorso di questo tipo, così come la varietà di possibilità metodologiche
che possono essere utilizzate. Precisiamo che in merito la produzione scientifica è davvero ormai ampia e presenta una ricca di strumenti e diverse analisi di casi.26
Non è nostro intento soffermarci nel dettaglio delle metodologie27, ma fornire una visione di insieme che consenta di andare oltre ad una lettura puramente «tecnica». Inoltre dobbiamo ricordare che la nostra ricerca non si è focalizzata sulla valutazione di percorsi di partecipazione, rispetto a setting metodologici, organizzazione del singolo percorso, ma si interessa delle pratiche messe in campo da istituzioni e cittadini, dei significati che emergono e di come la partecipazione a livello anche istituzionale di policy viene tematizzata, definita, promossa. È su questo ultimo piano quindi che la trattazione degli approcci, che certamente prevedono l'uso di determinate metodologie, è rilevante.
Prima di presentare quelle che sono le questioni critiche che sul terreno si aprono per le amministrazioni, e quindi i principi di fondo che spesso guidano i percorso partecipativi e le famiglie di tecniche e pratiche che possono darne sostanza, vogliamo, come sorta di incipit, soffermarci su quello che possiamo definire un cambio di prospettiva fondamentale che è alla base di queste sperimentazioni. Ne abbiamo già dato conto trattando della governance delle sue diverse forme, ma ora vogliamo porre in connessione quei cambiamenti con ciò che in concreto implicano per le amministrazioni e per chi svolge un ruolo facilitativo in questi processi.
4.1 Incipit: «qui non si può fare, non siamo in Inghilterra!»
Siamo agli inizi degli anni novanta quando una neolaureata in architettura rientra in Italia, dopo un'esperienza a Londra, con l'intento di promuovere l'utilizzo di uno strumento di progettazione partecipata del territorio assieme agli abitanti, che ha visto utilizzare in Inghilterra. Si trattava del Planning for real, un metodo sviluppato a partire dagli Sessanta- Settanta dalla Education for Neighborhood Change dell'Università di Nottingham e poi registrato dalla Neighborhood Initiatives Foundation (NIF), organizzazione non- profit fondata nel 1988 da Tony Gibson a Telford in Inghilterra. Obiettivo di questo metodo è quello di individuare bisogni e opzioni di intervento rispetto ad un contesto territoriale, a partire dall'esperienza della comunità locale, ritenuta un soggetto portatore di conoscenza dei problemi del territorio. È una tecnica tesa a favorire la partecipazione anche di chi è meno abituato a prendere parola, e sopratutto nasce non come un'esperienza e una tecnica fine a sé stessa, come «evento partecipativo», al contrario si situa invece all'interno di un processo dal basso, inclusivo e condotto assieme alla comunità locale (Scalvi, 2002, pp. 229-230).
È questo l'incipit del libro in cui Marianella Sclavi (ibidem) ripercorre alcune tappe
26 Tra i tanti contributi segnaliamo: Pellizzoni (2005, 2007); Floridia (2012); Bobbio (2004, 2006, 2007, 2008); Della Porta (2008); Paba et al (2009), Sclavi (2002), Sclavi e Susskind (2011).
significative della storia di una delle prime esperienze di progettazione partecipata in ambito urbanistico in Italia, portata avanti da quella che di lì a poco si sarebbe costituita come un associazione- Avventura urbana. Da qui vogliamo partire, non tanto per stabile maternità o paternità al diffondersi di queste pratiche28, ma poiché ritentiamo utile tentare di comprendere che cosa ha comportato in termini di mutamento di prospettiva nella progettazione, nella ridefinizioni di ruoli e competenze, di rapporto con la Pubblica Amministrazione e tra questa e cittadini, dal punto di vista dei primi professionisti che hanno applicato diverse tecniche di progettazione partecipata quando ancora esse non erano ancora (così) diffuse.
La proposta di provare a sperimentare quegli strumenti in Italia, a Torino nello specifico, trovò delle resistenze iniziali - del tipo « qui non si può fare, non siamo in Inghilterra»- che vanno secondo l'autrice lette e ricondotte alla tradizione culturale e politica italiana e più in generale alla tradizione giuridica dell'Europa continentale, estranea all'idea di una PA che coinvolge gli abitanti nella progettazione degli spazi urbani.
È infatti un'idea di matrice anglosassone, che presuppone «una concezione dei rapporti fra società civile, potere politico e ruolo della amministrazione pubblica praticamente rovesciata rispetto a quella che è stata vigente e dominante nel nostro Paese e nell'Europa continentale nel secolo scorso»29 (ibid. p.8)
Le differenze tra le due tradizioni sono sintetizzate nella seguente tabella:
I RAPPORTI FRA POTERE LEGISLATIVO, POTERE ESECUTIVO E SOCIETÀ CIVILE Tradizione giuridica romanistica Tradizione giuridica anglosassone
Il potere legislativo sovrasta e imbriglia quello esecutivo.
Il potere legislativo fissa la cornice entro la quale l'esecutivo opera autonomamente. Lo Stato si fonda sulla netta separazione fra
pubblici poteri e società, e sulla unilateralità e autoritatività del potere pubblico.
Lo Stato si fonda sul pluralismo istituzionale, organizzativo, sociale. Non esiste un diritto amministrativo distinto da quello privato La PA deve essere «imparziale», il suo modo
di operare è fondato sulla impersonalità e su controlli procedurali.
La PA è garante di «equità», il suo modo di operare è fondato sul contraddittorio, la ponderazione e la mediazione degli interessi.
Gli accordi fra attori sociali e PA sono esclusi
Gli accordi sono indispensabili per stabilire i reciproci interessi e per il buon
funzionamento della PA.
Gli attori più deboli della società civile possono avere voce unicamente tramite la rappresentanza politica e la partecipazione alle attività politiche.
La PA è responsabile di garantire uguale accesso a tutti gli interessi anche a quelli degli attori più deboli.
Ciò che va sottolineato qui è la differenza centrale tra un'idea di «interesse generale» che
28 Abbiamo peraltro già nel precedente capitolo rimandato ad alcuni contributi che danno conto di diverse esperienze realizzate in Italia in quegli anni.
29 Come chiarisce la stessa autrice, i riferimenti teorici di queste considerazioni sono da rintracciare nel lavoro di Max Weber, Economia e Società, mentre quelli empirici nei lavori precedenti di ricerche etnografiche svolte dall'autrice negli Stati Uniti. In particolare, A una spanna da terra (1994) e Ma noi siamo cinesi? In Aprire le menti, Gardner H. 1991.
viene stabilito a prescindere dal coinvolgimento diretto della società civile nel procedimento amministrativo e un concetto invece di «interesse generale» che
se è astratto dalle situazioni contingenti è privo di senso», infatti «l'operare della PA è costitutivo di un «interesse concreto» che può riguardare aree più o meno vaste e un numero più o meno ampio di attori che hanno interessi in gioco, e opera in linea di principio nel senso dell'equità, la quale implica dei giudizi di merito e non meramente procedurali. I concetti chiave sono: public inquiry, the right to a
fair hearing, the duty to act fairly, responsiveness, accountability» (ibid. pp. 9-10). Il carattere saliente
dell'approccio anglosassone è proprio quello del coinvolgere gli attori «che hanno interesse in gioco»30.
Se all'epoca, osserva ancora l'autrice, già dalla fine degli anni Sessanta nella Germania Federale, e poi dagli anni ottanta anche in Francia e Spagna – così come in Svezia, Norvegia, Danimarca, e in generale in tutta l'Europa continentale– soprattutto nell'ambito dell'urbanistica, stava già cominciando a rompersi quella dicotomia tra matrice anglosassone ed europea, in Italia in realtà dobbiamo aspettare gli anni '90 e oltre. Si è trattato quindi di un progressivo sedimentarsi attraverso sperimentazioni che hanno ampiamente coinvolto il modo di pensare ed di agire delle amministrazioni.31
Se in una versione, potremmo dire più limitata, di uno «Stato-rete», «Stato relazionale» (capitolo II), gli strumenti che vengono intrapresi sono quelli propri dei partenariati pubico- privati, e all'interno della PA le conferenze dei servizi o gli accodi di programma, così come i Patti territoriali e piani strategici (capitolo II), in un versione più estesa e sostanziale essa diviene pratica di uno modello di governance che apre spazio ai processi deliberativi, rimodellando le forme del rapporto cittadini- istituzioni (cfr. capitolo II).
L'insieme di questi processi, dal punto di vista delle razionalità amministrative, che sottendono gli stessi processi di governance- che nel tempo, abbiamo visto, ha assunto forme differenti- vengono da Bobbio (1996, p.62) sintetizzati, con particolare riguardo al l'Italia, nel seguente modo: Logiche d'azione Criteri di valutazione Destinatari Attività tipiche Ambito Figure professionali Legale- formale Conformità alla legge Titolari di diritti Provvedimento unilaterali Stato regolatore Funzionario- giurista Tecnico - professionale Ef ficacia Titolari di bisogni Organizzazione di servizi
Stato sociale Tecnocrate
Negoziale Consenso Partners Accordi Stato-rete ?
(diplomatico)
30 Si tratta di ciò che abbiamo già descritto rispetto in precedenza rispetto all''inchiesta pubblica di Dewey. 31 Quello che cioè è in gioco è un complesso insieme di processi che gli studi organizzativi ampiamente
All'epoca in cui Bobbio descriveva questi processi, come lo stesso autore evidenzia, e come indica quel punto interrogativo nell'ultima colonna in basso a destra, le logiche negoziali avevano uno status incerto: «Non dispongono di routine consolidate, di expertise collaudate o di figure professionali specifiche (se si eccettua il caso dei diplomatici)» (ibidem, p. 62). Nel corso degli anni '90 infatti siamo, possiamo dire, all'inizio di ciò che è stato definito uno «sperimentalismo democratico» (Sabel 1998, 2010, 2011), quale tentativo di superare il «paradigma post- democratico» (Mastropaolo, 2001) che può essere colto nell'intreccio della tradizione liberale- che si sostanzia nella concezione negativa dello Stato e positiva dell'individuo, il quale, se libero di perseguire il proprio interesse privato può contribuire alla realizzazione dell'equilibro sociale- e la concezione elitista e tecnocratica, che insiste sul ruolo chiave degli esperti, dei tecnici, della burocrazia e del mercato a discapito del coinvolgimento dei cittadini nei processi decisionali (Borghi 2006). Lo stato di incertezza di questa nuova forma di governance la si può cogliere proprio nel breve racconto che abbiamo fatto attraverso le parole della Sclavi (2002).
Dai primi anni 2000 hanno progressivamente cominciato a sedimentarsi esperienze, è cominciato a nascere un vero e proprio ambito formativo, nonché professionale che ricomprende la facilitazione dei processi partecipativi, la mediazione dei conflitti e l'ascolto attivo, quindi l'applicazione di numerose e diverse metodologie di progettazione partecipata che consentono di lavorare sia con piccoli che con gradi numeri di persone, il tutto inquadrato in nuovi strumenti normativi ed amministrativi, di cui daremo conto nella seconda parte del lavoro più avanti (capitolo VI).
Alla luce di queste sperimentazioni, diversi contributi di analisi permettono di definire approcci, principi, criticità con cui i processi partecipativi devono confrontarsi e che ormai sono diventati sapere condiviso nella «comunità di pratica» (Gherardi 2008) di questo ambito.
4.2 I processi partecipativi in pratica: approcci e principi di fondo.
Possiamo innanzi tutto chiarire quelle che possono essere alcuni dilemmi e sfide di fondo che un'amministrazione si appresta a dover fronteggiare quando decide di «aprire» un processo decisionale inclusivo.
Un primo aspetti è relativo al quando. A questo proposito Bobbio (2004) richiama i più classici rischi che si aprono per un'amministrazione quando decise di aprire un percorso «il più tardi possibile»: la dif ficoltà di tornare indietro; i costi; la dif ficoltà ad andare avanti, nella realizzazione di una nuova attività o di un servizio innovativo integrato; il rischio di mettere gli interlocutori di fronte a una speci fica soluzione per cui si rischia di indurre il pubblico ad atteggiamenti puramente rivendicativi, la così detta sindrome di DAD, ossia Decisione,
Annuncio, Difesa che blocca l'Amministrazione.
La prospettiva auspicata è certamente invece quella per cui alcune alternative sono ancora disponibili:
La principale dif ficoltà consiste nel fatto che i possibili interlocutori sono facilmente disposti a mobilitarsi contro un progetto ben de finito (una discarica, un parcheggio, la riquali ficazione di una piazza), ma più dif ficilmente sono disposti a partecipare per ragionare attorno a un problema (che cosa fare del traf fico? come smaltire i ri fiuti? Come immaginare il futuro del proprio quartiere?). Però questa è la scommessa veramente interessante: non aspettare che il pubblico si muova contro e dare al pubblico la possibilità di muoversi per.
Un secondo aspetto cruciale è chiaramente legato al chi, cioè ai criteri di coinvolgimento dei cittadini. È qui in gioco il grande tema rappresentatività. Ma anche degli obiettivi che un processo si pone.
Chi, dunque, partecipa nelle esperienze di partecipazione? tutti o qualcuno? La partecipazione, per definizione, e rivolta indistintamente a tutti i cittadini che si trovano a condividere una data situazione o che hanno un qualche interesse sul tema in discussione. Ma coloro che poi prendono effettivamente parte al processo sono inevitabilmente una minuscola frazione dell'universo. Il paradosso della partecipazione consiste esattamente in questo: si ambisce a includere tutti, ma di fatto si riesce a concretamente a coinvolgere solo qualcuno. (Bobbio, Pomatto 2007, p.9)
Non ci interessa qui dibattere le diverse questioni legate alla rappresentatività, non perché non siano ovviamente importanti, ma perché ci porterebbero su un terreno che non abbiamo qui la possibilità di indagare in modo approfondito32, così come non entriamo nel merito dei diversi metodi di selezione che procedure deliberative possono prevedere – dall'auto-selezione alla selezione casuale- poiché esula dagli obbeditivi del nostro lavoro. Invece possiamo evidenziare quello che è un approccio di fondo che riteniamo sia importante adottare in qualsiasi tipo di processo partecipativo e che è ben sintetizzato da Bobbio: «L’importante e che l’obiettivo di fondo resti ben chiaro: qui si tratta di compiere ogni sforzo perche tutte le opinioni e gli interessi rilevanti siano effettivamente coinvolti e che nessuno di essi sia escluso a priori.» Ciò che qui va sottolineato è quel «a priori». È in fatto lì che si gioca di fatto quella disponibilità ad assumere fin dall'inizio una approccio di ascolto attivo (Sclavi, 2003) , inteso come capacità di uscire dalle cornici di cui siamo parte ed essere in ciò consapevoli non tanto di cosa stiamo vedendo ma di come stiamo guardando. La definizione dei problemi, così come la ricognizione iniziale in cui si cerca di capire chi coinvolgere si giocano in quella capacità.
32 Nel dibattere comunque dei due ideali partecipativi e deliberativi abbiamo già in parte dato conto di questo tema. Inoltre rimandiamo ai contributi già segnalati nella precedente nota.
La domanda di fondo, nota ancora Bobbio (2004) è piuttosto come può contribuire più che chi rappresenta: «interessa di piu che questo gruppo o questa persona abbia la volonta di cooperare a un progetto comune, sia disponibile ad apportarvi le sue idee e le sue esperienze. Non dovremmo chiederci: chi rappresenta? Ma piuttosto: puo contribuire?».
Entrando sul piano della gestione e facilitazione di un processo partecipativo Bobbio distingue tra tra famiglie di pratiche33.
La prima ricomprende quelle relative all’ascolto, nel tentativo di comprendere come i problemi sono percepiti dai di versi soggetti coinvolti o da coinvolgere. Si tratta cioè di riuscire a creare un'immagine rispondente a più punti di vista. Sono un'insieme di tecniche che solitamente vengono impiegate nella fase iniziale di esplorazione, per capire non solo in in caso di con fitto quali sono gli schemi interpretativi in gioco, ma anche capire chi possono essere i possibili interlocutori. Si tratta in sostanza di fare una mappatura ed analisi socio- territoriale e dei così detti stakeholders.34
La seconda ricomprende tecniche per l’interazione costruttiva, centrate cioè sul creare delle occasioni confronto, e rientrano ne vivo di un processo partecipato. Posso essere distinte tra metdologie che facilitano l'emersione di proposte e quello più centrate sullo sviluppo di visioni 35. Le prime mirano a creare contesti e dinamiche di gruppo tese ad un apprendimento reciproco, non gerarchico, e una leadership in tal senso diffusa e dove ciascuno possa attivarsi e responsabilizzarsi rispetto a ciò che ha a cuore. Nelle seconde l'elemento centrale, la visione, è teso a far emergere ciò che accomuna un gruppo di stakeholders per facilitare in tal modo un'idea possibile di cambiamento desiderato. Alla base tutte lavorano sul suscitare, nei partecipanti un protagonismo rispetto ad un cambiamento.
La terza riguarda le tecniche per la risoluzione dei con flitti e di fatto è trasversale ad un processo partecipativo36.
33 Come già detto non entreremo nel merito di una descrizione e rimandiamo al contributo di Bobbio, così come a Sclavi (2002), Sclavi e Susskind (2011). Inoltre ricordiamo il sito già segnalatowww.loci.it. Si veda anche come guida pratica quella elaborata dalla regione Emilia Romagna « Decidere e partecipare meglio», quaderni della partecipazione (2009)
34 Rientrano le interviste, i focus group, ma anche le camminate di quartiere, l'outreach. Quest'ultima in particolare sintetizza un approccio complessivo: vuol dire andare a consultare le persone piuttosto che aspettare che vengano da noi. La camminata di quartiere in questa prospettiva permette un riconoscimento e valorizzazione delle competenze e di un sapere dei soggetti che vogliamo attivare e coinvolgere. Si dà così spazio a come i diversi soggetti coinvolti vedono i problemi, le risorse secondo loro disponibili, che cosa è per loro importante nell’ambiente in cui vivono. Si mettono in grado gli «outsiders» di iniziare a vedere le «comunità» attraverso gli occhi di soggetti/protagonisti di una data situazione/problema.
35 Rientrano qui tra le tante L'open Space Technology, il World cafè, ma anche quelle per lo sviluppo di visioni quali l'European Awarness Scenario Workshop e la Future Search conference.
36 Il tema della gestione dei conflitti così quello dell'ascolto attiva necessiterebbe un'ampia disamina che qui non è possibile. In generale va evidenziato che l'approccio prevalente in questo tipo di processi è quello della negoziazione integrativa, che a differenza di quella posizionale, mira a fare emergere soluzioni basate non su una gioco a somma zero, ma di tipo cooperativo e del tipo win-win. In questo approccio ciò che viene messo a fuoco sono gli interessi e non le posizioni, per lo più rigide e non modificabili. Gli interessi al contrario sono negoziabili e possono essere anche convergenti e soprattuto prevale una modalità esplorativa, in cui invece che argomentare contro una posizione o contro una persona, si cerca di inventare nuove e diverse
Pur nella varietà delle metodologie disponibili si possono enucleare alcuni principi di fondo che dovrebbero guidare un processo partecipativo (Bobbio 2004, pp. 56-61): favorire la comprensione del tema oggetto del percorso, facendo un buon lavoro di «traduzione»; strutturare il processo secondo regole (fasi, tempi, spazi) condivisi; impegnarsi nella trasparenza, poiché dare le informazioni cruciali a chi normalmente non ne dispone è un modo per dotarlo di un potere analogo; includere e mettere al fianco a fianco sia gli «addetti» che i «non addetti» ai lavori e dare spazio all'informalità, quidi alle «relazioni faccia a faccia» (Crozier 2000).
Un altro contributo che riteniamo utile ai fini del nostro lavoro qui ripercorrere è quello di Mela e Ciaffi (2011) che propongono un modello «spazio-partecipazione» per la lettura di processi partecipati e anche un possibile strumento di analisi e di interpretazione delle pratiche. Il modello incrocia il tipo di azioni sociali partecipate con i luoghi fisici in cui trovano spazio e contesto.
Le prime sono: comunicare, animare, consultare, e potenziare i poteri di rappresentanza e la capacità di fare dei cittadini (empowerment). Le famiglie di pratiche cui abbiamo fatto prima riferimento entrano qui in vario modo in questi tipi di azione.
Rispetto agli spazi viene invece evidenziato come essi possono essere rappresentati come nicchie ecologiche, concentriche: il cerchio più interno racchiude lo spazio privato, e intimo della casa, il successivo il locale, ossia gli spazi pubblici che l'individuo percepisce come propri, quello più esterno rappresenta invece il sovra-locale (quartieri limitrofi, città, fino al resto del mondo)37.
In ultimo risalendo su un piano più alto e ritornando quindi al come può essere definito una