La partecipazione: teorie, idee e pratiche nel tempo e nello spazio.
3. Partecipazione e democrazia deliberativa: lo sviluppo teorico e pratico
Gli anni novanta, e più precisamente la metà degli anni '90 segnano proprio il culmine delle elaborazioni teoriche legate alla democrazia deliberativa (Floridia, 2012).
È uno sviluppo teorico che presenta un corpus di elaborazioni sostanzioso. Floridia (2012, pp. 24-26) , richiamando il lavoro di Mansbridge et al (2012, pp. 25-26) ripropone una periodizzazione dello sviluppo di questo modello teorico in tre fasi. Una prima che si concentra sul concetto stesso di deliberazione e che «enfatizza ciò che può essere de finito proceduralismo ideale», de finendo quindi ciò che idealmente, da un punto di vista quindi regolativo, dovrebbe esser perseguito. Rientrano qui, tra i principali, autori come J. Cohen (1989) e J. Habermas (1996). Questa fase arriva appunto fino alla metà degli anni Novanta, quando cioè vengono pubblicate raccolte antologiche di saggi, tra cui quelle di Bohman e Regh (1997) e di Elster (1998).
La seconda è invece segnata da studi empirici ed applicazioni pratiche alla teoria, con un focus quindi sull'analisi delle condizioni che facilitano od ostacolano i processi deliberativi.
È questa l'epoca in cui si sperimentano, ma anche si cominciano a sedimentare e per certi versi istituzionalizzare, diversi processi deliberativi, tanto negli Stati Uniti, che in Europa, ed anche nello speci fico, come vedremo in seguito, in Italia.
Un terza fase, auspicata e ancora non del tutto sviluppata, evidenzia Floridia, prevede lo studio dei processi deliberativi, appunto come processi, quindi non limitato all' analisi di singole «arene deliberative» o procedure o tecniche ai fini di «comprendere come ciascuna sede sia in fluenzata dalle interazioni con tutte la varie parti del sistema deliberativo nel suo complesso», in quanto «la democrazia deliberativa è qualcosa di più che una mera somma di momenti deliberativi» (Mansbridge et al 2012, pp. 25-26, in Floridia op cit, p. 26).
A questo proposito Floridia ricorda il lavoro di Pellizzoni (2009), il quale propone una distinzione di quattro stadi, in primi due coincidenti con quelli già esposti poc'anzi, mentre gli altri due di fatto sviluppano questa terza fase suddividendo due traiettorie di analisi: una relativa ai policy outcomes dei processi deliberativi, ossia gli effetti in termini di costruzione di una policy, l'altra riguarda, nelle parole di Pellizzoni (2009, p.3: « properly political, rather then policy, use of deliberative arenas».
Un passo più avanti, sostiene Floridia (ibidem), può essere svolto soffermandosi non solo sull'uso politico delle arene deliberative, ma guardando «al rapporto ben più complesso e variegato che si può cogliere tra deliberazione, costruzione delle policy e sfera della politcs» (p. 27). In questa prospettiva andrebbe quindi proposto un «approccio sistemico alla democrazia deliberativa» (Mansbridge et al., 2012, in Floridia 2012), in grado, possiamo dire, di mettere in relazione processi e contesti.
della varietà di studi e contributi che sul tema si possono rintracciare. È al di là dei nostri obiettivi ripercorrerli, ma possiamo ritnracciare in lavori sul tema, la de finizione di un nucleo teprico e di alcune principali differenze presenti tra alcuni autori.
Nucleo centrale della teoria della democrazia deliberativa è l'importanza data al discorso (Barber, 2004) e ancora più nello specifico alla trasformazione delle preferenze all'interno di un processo discorsivo (Dryzek 2000, Miller 1993). Altro focus di attenzione è il ruolo della ragione e con essa quindi dell'argomentazione (Habermas 1996; 1997), orizzontalmente, organizzata, che può portare alla definizione di decisioni condivise, basate sul consenso dato dalla persuasione dell'argomentazione migliore. In tal modo «si delineano le identità e gli interessi dei cittadini in modo che contribuiscano alla pubblica costruzione del bene pubblico (J. Cohen, 1989, pp. 18-19, in Della Porta, 2012, p. 84).
È nella dimensione pubblica e nella condizione di pluralismo che la deliberazione consente il trascendere degli interessi personali verso un orizzonte di interesse generale (Cohen, 1989, Elster 1998), facilitando la creazione di politiche orientate al bene comune ( Fung e Wright 2001). Al cuore quindi delle teorie di democrazia deliberativa troviamo
la rilevanza della discussione pubblica e organizzata per la formazione di opinioni piu in-formate e per la maturazione di una maggiore consapevolezza delle questioni che sono materia del confronto, da parte dei soggetti partecipanti. Razionalita strategico-negoziale e razionalita dei valori sono entrambe in gioco nelle argomentazioni e sono reputate entrambe essenziali per arrivare ad una buona decisione. La legittimazione della decisione e data dal suo carattere condiviso, ovvero dal raggiungimento di un’intesa, sulle questioni che sono state poste, ad esito del processo deliberativo (Gelli, Morlino 2009, p.59)
Le riflessioni sulla democrazia deliberativa e la diffusione delle sue pratiche sono «un nuovo modello di «buona democrazia», in risposta alla crisi delle forme rappresentative», e alla cui base troviamo la ricerca di «modalità soddisfacenti per combinare le preferenze e aggregarle in contesti di convivenza pluralistica, quali quelli che le società contemporanee presentano», nella convinzione che attraverso «la discussione, la riflessione individuale e l’interazione, opinioni e preferenze maturano, si precisano» (ibidem, p. 63).
Troviamo due caratteri salienti di fondo alla base delle elaborazione teoriche relative alla democrazia deliberativa. Il primo è relativo alla declinazione in termini universalistici del suo corpus di principi, di cui troviamo traccia nell'«interpretazione di democrazia pubblica di Habermas come riscoperta del governo mediante la discussione» (ibidem, p.64). Il secondo è invece riconducibile al piano delle pratiche. A tale proposito notano sempre Gelli e Morlino (ibid.) che
rispetto all’ondata partecipativa degli anni ’60 e ’70, la democrazia deliberativa riconosce poco e nessuno spazio agli spontaneismi, alle forme di protesta o di rivendicazione del movimentismo, come dimensione della partecipazione «dal basso». Anche nella declinazione habermasiana, le reti di organizzazione della societa civile vanno a convergere nella sfera pubblica, in modo strutturato, istituzionalizzando attraverso pratiche di deliberazione pubblica una sorta di comunita comunicativa ideale. Una caratteristica dei processi deliberativi e, infatti, che si tratta di forme proceduralizzate di democrazia, normativamente intese, in cui c’e poco spazio per l’improvvisazione.
Vale la pena qui notare come vi sia apparente contrasto con quanto abbiamo messo in evidenza nel precedente capitolo rispetto al tema della sperimentazione dell'improvvisazione, ambito nel quale si muove spesso invece chi la partecipazione in pratica, nel quotidiano, facilitandola anche all'interno di percorsi ben strutturati e promossi dalle istituzioni, spesso anche inquadrati in politiche urbane che la prevedono. Riteniamo vada qui sottolineato sia lo scarto spesso esistente tra ideali e teorie normative della deliberazione, e la pratica partecipativa della deliberazione, inoltre va fatta una importante differenza tra strutturazione dei processi- quella di cui parlano Gelli e Morlino che certamente caratterizza processi di quel tipo e che escludono in tal senso quello spontaneismo della protesta- ed improvvisazione quale importante capacità di ascolto attivo che può riguardare singoli facilitatori come, si auspica, un'amministrazione che tali percorsi promuove. Su questo torneremo più avanti nel trattare i diversi approcci alla facilitazione di processi partecipativi.
Tornando sul piano più teorico, all'interno di questo nucleo possiamo comunque trovare alcune sostanziali differenze che riconducibili principalmente alla diversa funzione attribuita all'argomentazione e al confronto e all'esito che esse dovrebbero produrre. Diversa è quindi anche la dimensione partecipativa che sostanzia la democrazia deliberativa, sia come principi che come pratiche. La partecipazione infatti può assumere, sulla base della differenza tra «partecipazione strumentale ed espressiva» (ibidem, p.68), la valenza di un fine in sé (Raniolo 2002), per cui «la disposizione cooperativa viene assunta come ideale verso cui tendere, e i processi deliberativi come occasione concreta per farne esperienza» (p.69). Esito quindi di una partecipazione tramite la deliberazione è «la formazione di virtù civiche e la crescita delle competenze democratiche dei cittadini» (ibid.). In altri termini emerge una «finalità educativa della democrazia deliberativa», ma anche la possibilità di produrre conoscenze che sono utilizzabili dai decisore, in modo da produrre decisioni migliori in quanto più informate, partecipate, eque, legittime (Bobbio, 2004). Se per i cittadini accrescono le virtù civiche e le competenze democratiche, per i decisori accresce la «capacità discrezionale» e l'accountabilty (Gelli, Morlino 2009, p.69).Un'accentuazione di questa prospettiva è rintracciabile in un
filone di studi, che si riconnette a Dewey (1927), che pone l'attenzione «sulla la dimensione cognitiva e il valore epistemico della deliberazione pubblica come forma di indagine, con attenzione alle implicazioni di trasformazione, più che aggregazione, delle preferenze. I processi deliberativi sono visti come occasione per l’attivazione di pratiche di indagine pubblica, con un valore aggiunto in termini di conoscenza e di approfondimento dei problemi e delle opportunità di azione» (p.70).
Vi è quindi un nesso implicito tra qualità democratica di questi processi e qualita dell’indagine, «qualita che non si puo misurare soltanto in rapporto all’eventuale soddisfazione o insoddisfazione dei partecipanti, ma veri ficando, rispetto alla situazione di partenza, se l’indagine ha generato un valore cognitivo aggiunto, se ha dato luogo a innovazioni, a nuove rappresentazioni e soluzioni dei problemi» (ibid.).
Ulteriore posizione è rintracciabile, rispetto dicevamo alla diversa attribuzione di funzione ed esito della deliberazione e quindi della stessa dimensione partecipativa in essa ricompresa, è quella rintracciabile in Elster (2009), per cui sia l’educazione dei cittadini sia l’influsso positivo sul carattere dei decisori politici sono da considerarsi esiti eventuali, e comunque sottoprodotto, di processi deliberativi (Gelli, Morlino, p.70). Una posizione di questo tipo può esser compresa alla luce degli studi di Elster (1993) circa l'intreccio tra negoziazione e argomentazione, dove quindi l'accento è posto più sul carattere strategico e strumentale orientato al risultato del confronto.
Questo breve excursus ci ha permesso di evidenziare quindi un nucleo centrale e alcune differenze attorno ad esso. Va però anche evidenziato che rispetto all'originale concezione deliberativa, come nota Della Porta (2012), si è poi sviluppato, un modello teorico- pratico di democrazia che prova a coniugare valori partecipativi e deliberativi, in particolare mettendo in discussione, la natura esclusiva della sfera pubblica, evidenziando che al contrario esistono, nelle parole di Fraser (1997), pubblici borghesi e altri pubblici, tra loro conflittuali. Di conseguenza va anche preso in considerazione che i luoghi deputati alla deliberazione non necessariamente devono essere quelli istituzionali, anzi è proprio nelle arene extra- istituzionali e in sfere pubbliche alternative che dovrebbe avvenire:
La deliberazione si sviluppa in enclavi libere dal potere istituzionale, e la democrazia deliberativa richiede infatti cittadini radicati in reticoli associativi, capaci di costruire abilità democratiche fra loro aderenti. La deliberazione all'interno di contropubblici (o enclavi di resistenza) è centrale per i teorici delle forme partecipative di deliberazione» (Della Porta, ibidem p. 87)
Proprio sul tema delle abilità, questa declinazione partecipativo-deliberativa critica il rischio delle ineguaglianze che la democrazia deliberativa può produrre. Va infatti riconosciuto che le ineguaglianze sociali influiscono sulla capacità stessa dei gruppi svantaggiati, oppressi, di
entrare nelle arene deliberative, di essere poi riconosciuti e ascoltati nella propria argomentazione. Associato a questa dimensione, vi è poi una critica legata al ruolo del conflitto nella democrazia, per cui la democrazia deliberativa, valorizzando sempre e comunque il consenso attraverso il dialogo escluderebbe il riconoscimento di conflitti sostanziali, o meglio, è nell'esistenza delle ineguaglianze strutturali che si gioca la stessa definizione dell'agenda, per cui è inevitabile che sia aprano conflitti nella sfera pubblica (Young 2000).
Il concetto di democrazia deliberativo- partecipativa quindi si sostanzia quando «in condizioni di eguaglianza, inclusività, trasparenza, un processo comunicativo- aperto a tutti coloro che sono potenzialmente interessati e basato sulla ragione (la forza dell'argomento migliore)- trasforma le preferenze individuali, portando a decisioni orientate al bene pubblico» (Della Porta 2011, p. 90).
Il percorso appena tracciato ha provato ad intrecciare teoria, idee e pratiche e ci ha permesso di chiarire i diversi tratti teorici della democrazia partecipativa e deliberativa e soprattuto dei diversi sviluppi storico- teorici di questi modelli, cosa che ritenevamo necessaria alla luce dell'uso spesso confuso di questi termini, che non tiene conto di radici storiche e sociali.
Il passaggio ulteriore che ci preme fare, essendo la nostra ricerca orientata allo studio delle pratiche e anche a come la partecipazione viene promossa, organizzata e tematizzata da lato istituzionale, è quello di mettere a fuoco le sfide, i dilemmi (Bobbio), quello che la pratica partecipativa pone sul terreno, così come le modalità con cui si è sedimentata in Italia, ma anche ricomporre uno sguardo, non tanto attento alle procedure e alle tecniche, quanto ai più ampi processi in gioco.