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Partecipazione, governance e sperimentazione democratica Un quadro teorico.

2. Partecipazione, governance collaborativa e sperimentazione democratica

2.1 Governance collaborativa e partecipativa

Nella letteratura da noi presa in esame (Fischer 2010, Newman et al. 2004, Ansell e Gash 2007, Fung e Wright 2003, Fung 2004) emerge un elemento centrale, da cui riteniamo si debba partire, per poter poi proseguire in una riflessione circa le implicazioni che il concetto di governance collaborativa può avere. Ossia, lo stretto legame tra governance collaborativa e processi deliberativi (capitolo III), quindi processi decisionali inclusivi e partecipazione.

A questo proposito, tra i vari contributi, vogliamo tornarne ancora una volta a quello di Ansell e Gash (2007), poiché, come già osservato, hanno cercato di demarcare i confini non solo della governance in generale, ma anche nello specifico della governance collaborativa, rispetto alla quale, notano gli autori, troviamo un'ampia letteratura che di volta in volta si è focalizzata su diversi aspetti. È tuttavia una letteratura « disordinata» che è specchio proprio del suo prendere forma in seguito a sperimentazioni locali, spesso in reazione a fallimenti di governance precedenti, in particolare: «has emerged as a response to the failures of downstream implementation and to the high cost and politicization of regulation. It has developed as an alternative to the adversarialism of interest group pluralism, and to the accountability failures of managerialism» (p.544).

Accanto alla ricerca di nuove modalità va evidenziato poi l'aumento della conoscenza e della capacità istituzionale, che genera la necessità stessa della collaborazione: la conoscenza diventa sempre più specializzata e al contempo disseminata, mentre le infrastrutture istituzionali diventano più complesse ed interdipendenti, cosicché la domanda di collaborazione cresce (ibidem, p.544). La governance collaborativa diviene quindi una «new strategy of governing», un «modo» della governance che «brings multiple stakeholders together in common forums with public agencies to engage in consensus–oriented decision making» (ibidem, p.543).

Gli autori propongono una precisa definizione di governance collaborativa:

A governing arrangement where one or more public agencies directly engage non– state stakeholders in a collective decision–making process that is formal, consensus–orientated, and deliberative and that aims to make or implement public policy or manage public programs or assets

Come evidenziano gli autori tale definizione ingloba sei importanti elementi definitori: i forum in cui i diversi stakeholders avviano un processo decision– making collettivo è promosso da agenzie o istituzioni pubbliche; i partecipanti includono «nonstate actors»; i partecipanti sono coinvolti direttamente in un processo di decision– making e non sono meramente «consultati» dalle agenzie pubbliche; il forum è formalmente organizzato e diffuso; l'obiettivo è il raggiungimento di decisioni attraverso il consenso; il focus della collaborazione è sulla public policy e sul public management (ibidem, pp. 544–545). È questa evidentemente una definizione molto restrittiva, che tuttavia aiuta a porre alcuni distinzioni a fronte di un utilizzo del termine governance collaborativa per indicare diversi fenomeni, allo stesso tempo aiuta quindi a focalizzare aree contigue e potenzialmente complementari. Vediamo quindi di comprendere meglio questi criteri ed enucleare cosa di questa definizione risulta interessante e utile ai fini del nostro lavoro.

In primo luogo si può evidenziare che, sebbene ci possano essere diverse forme di collaborazione che coinvolgono «non– state actors», la definizione proposta da Ansell Gash affida un ruolo specifico alle agenzie ed enti pubblici a vari livelli di governo e che hanno il compito di promuovere spazi di collaborazione. Al contempo è essenziale la presenza di attori non statali perché si possa parlare di governance collaborativa. In ciò quindi rilevano gli autori si distingue da altre forme di coordinamento tra agenzie pubbliche. Gli autori quindi optano per definire in senso stretto la governance collaborativa come una «reletionship between public agencies and nonstate stakeholders» (ibidem, p. 546), dove per stakehodlers, chiariscono, indicano sia la partecipazione di cittadini come individui sia gruppi organizzati, sia le stesse agenzie pubbliche, le quali mantengono tuttavia un ruolo di leadership.

Nello specifico della partecipazione chiariscono inoltre che questa non può essere confusa o coincidere con la consultazione, in quanto implica una «two way communication and influence between agencies and stakeholders to talk with each other» (ibid.), che si sostanzia in un « deliberative and multilateral process», ossia come evidenziano, «the process must be collective». Essenziale quindi per poter parlare di collaborazione è la pratica di una comunicazione bidirezionale e di un deliberazione multilaterale.

Inoltre, sottolineano, che la collaborazione implica che partecipazione e responsabilità vadano assieme: il coinvolgimento diretto dei «nonstate stakeholder» nel processo di decision making vuole dire «real responsibility of polices outocomes» (ibid.). Rispetto invece al criterio relativo alla formalità si collega alla necessità di distinguere la governance

collaborativa da più casuali interazioni tra agenzie e gruppi di interesse: «the term collaborative governance might be tought to describe the informal relationships that agencies and interest groups have always cultivated». Mentre invece essa implica una « explict and public strategy» (ibid.) nell'organizzare l'interazione e il reciproco influenzamento.

Infine, il criterio relativo alla dimensione pubblica, mira a distinguere la governance collaborativa da altre forme di decision making basato sul consenso. Definiscono quindi la governance collaborativa come governance di affari pubblici.

Torneremo più avanti su questo ultimo aspetto, che riteniamo, alla luce della nostra ricerca, vada riletto ancorandolo al tema dell'interesse generale, che è al centro degli strumenti normativi e dispositivi amministrativi messi in essere di recente a Bologna e che la nostra ricerca ha indagato. Per ora, vogliamo evidenziare come questa definizione tracci un confine utile rispetto a forme di governance di tipo «avversariale» o di tipo « manageriale». La prima, come notano gli autori, presuppone un approccio del tipo «il «chi vince piglia tutto», mentre nella governance collaborativa, anche in presenza di conflitti, l'obiettivo rimane la trasformazione delle relazioni conflittuali in relazioni cooperative. La seconda prevede un ruolo centrale di esperti, tecnici che prendono decisioni e non prevede il coinvolgimento diretti di vari stakeholders, come invece accade nella governance collaborativa.

Il lavoro di Ansell e Gash (2007) risulta essere, anche se basata su analisi di un elevato numero di casi e di varia letteratura, di tipo prescrittivo, sul come deve o dovrebbe essere la governance collaborativa, più vicina quindi alla definizione di ideali e modelli normativi e in questo senso si allontana dalla prospettava che invece stiamo adottando, attenta a contestualizzare, storicizzare e cogliere l'intreccio tra processi economi, sociali e politici, come abbiamo già specificato e che, con un sguardo più sociologico, cerca se mai di individuare idealtipi utili per leggere i fenomeni. Tuttavia riteniamo che aiuti a mettere a fuoco alcune utili criticità e processi che ci riportano sul piano dell'analisi dei fenomeni e delle pratiche.

In primo luogo va rilevata proprio la necessità di definire e porre confini tra governance collaborativa e altre forme, quale sintomo di quella pervasività dell'uso del termine governance e di collaborazione, che riteniamo sia spesso collocabile in retoriche discorsive utili a legittimare politiche che in realtà rientrano nell'ambito di quel mangeralismo citato poc'anzi e dove proprio la dimensione pubblica viene meno.

Inoltre, emerge con chiarezza l'importanza data alle istituzioni, allo stato, nel farsi promotore, regia, garante di spazi e modalità di partecipazione attiva e diretta finalizzata ad un processo decisionale collettivo e non per interventi ad hoc, ma nel quadro di un processo di un «institutionalization of a collective decision–making process» (ibid. p. 448, corsivo nostro) ed infine nel distinguere tra partecipazione e consultazione tematizzano il nesso partecipazione e governance: quale spazio, ruolo e significato la partecipazione assume nei processi di

governance? È ciò che è necessario analizzare criticamente e sui ritorneremo più avanti. La definizione di governance collaborativa qui proposta si iscrive a pieno in quel processo di transizione tra governament e governance prima descritto e, rinsaldando il nesso partecipazione e governance, si ricollega a quanto le teorie deliberative evidenziano circa l'inclusione di tutti coloro che risultano essere interessati dal problema come garanzia di efficacia delle decisioni emerse nel corso del processo di confronto, e la legittimità e l'accountability delle decisioni come esito del ruolo affidato alle istituzioni pubbliche che hanno un ruolo di «garante» (capitolo III). Proprio sull'accountability nell'ambito della governance collaborativa, o meglio della «empowered participatory governance (Fung e Wright 2003), Archong Fung (2004;) definisce la possibilità di una «autonomy accountability».

Nel libro Deepening democracy Fung e Wright (2003) esplorando, diversi casi, parlano di esperimenti di «empowered participatory governance», nell'ottica di quella che definiscono essere una «strategia di riforma istituzionale progressiva», esplorazione che permette una comprensione sia concettuale che empirica della «pratica della democrazia». L'ispirazione comune di questi esperimenti, evidenziano, è dato dal loro orientamento che viene così descritto:

to deepen the ways in which ordinary people can effectively participate in and influence policies which directly affect their lives. From their common features, we call this reform family Empowered

Participatory Governance (EPG). They are participatory because they rely upon the commitment and

capacities of ordinary people to make sensible decisions through reasoned deliberation and empowered because they attempt to tie action to discussion. (p.5)

Gli autori arrivano, sulla base delle ricerche svolte su diversi casi, ad individuare alcuni principi di fondo che guidano queste pratiche, dal punto di vista degli approcci, dei setting istituzionali e del ruolo che la società civile assume in questa forma di governance. Permettono infatti in ultimo, sostengono gli autori, di comprendere l'importanza «of civic life and non–governmental organizations to vigorous democracy», attraverso l'esplorazione di come e se la riorganizzazione delle istituzioni statali formali possono stimolare un «democratic engagement in civil society, and so form a virtuous circle of reciprocal reinforcement»5. Inoltre questo modello di governance partecipativa e allo stesso tempo tesa all'empowerment permette di focalizzare, «scoprire» ed «immaginare» istituzioni democratiche «that are at once more participatory and effective than the familiar con figuration of political representation and bureaucratic administration.» In questo, evidenziano gli autori, permette una comprensione delle istituzioni, delle pratiche e degli effetti della partecipazione dei cittadini (ibidem, p.16).

In sintesi individuano tre principi generali che sono fondamentali per tutti questi esperimenti: un focus su problemi specifici e tangibili; il coinvolgimento di persone «ordinarie» che sono colpite da questi problemi e degli operatori e referenti istituzionali a loro vicini; lo sviluppo deliberativo di soluzioni a queste problemi.

A livello di riforma di contesti istituzionali individuano poi tre aspetti e caratteristiche che aiutano a rendere più radicata e stabile la pratica di questi principi: (1) il devolvere la decisione pubblica a delle «empowered local units»; (2) la creazione di connessioni tra responsabilità, distribuzione delle risorse e comunicazione che possa connettere queste unità locali e il livello superiore centrale anche per diffondere conoscenza ed innovazione; (3) la generazione di nuove istituzioni che siano di supporto e guida a questi sforzi di risoluzione dei problemi a livello decentrato.

Questo insieme di cambiamenti a livello istituzionale, evidenzia Fung (2004, p.6) si rende possibile «by moving toward an institutional design of administrative and democratic organization that is appropriately called accountable autonomy». Autonomia sia nei termini di uso di potere a livello locale rispetto ai livelli centrale, ma anche e soprattutto, evidenzia l'autore, in termini di capacità degli attori locali di portare avanti e realizzare autonomamente i loro obiettivi:

Accountable autonomy stresses the latter sense, which requires retreating from autarky to a conception of centralized action that counterintuitively bolsters local capability without improperly and destructively encroaching upon it. Support and accountability are two pillars of a reconstructed relationship between central power and neighborhood action that can reinforce local autonomy [...]This model emphasizes the positive and constructive face of autonomy—the capacity, indeed responsibility, of groups to achieve public ends that they set for themselves—as much as the emancipatory aspect of shedding centrally imposed constraints and demands. (ibidem, pp.6–8).

Troviamo nel lavoro di Fung e di Fung e Wright alcuni rimandi e connessioni con aspetti e dimensioni che attraversano il nostro lavoro. In primo luogo, ed in particolare, rispetto alla categoria di «autonomia responsabile». Il tema della responsabilità e dell'autonomia delle scelte si è già affacciato nel primo capitolo, ora qui prende forma sul piano della governance, ma tornerà nuovamente in gioco quando tratteremo la cittadinanza attiva e il complesso equilibrio che il modello di amministrazione condivisa pone tra autonomia civica e interesse generale, e vedremo poi come l'idea di una responsabilità sociale condivisa, (Paltrinieri 2012) posa essere una forma di responsabilità rispetto a pratiche che mettono al centro dimensione individuale e collettiva assieme. In secondo luogo chiama in causa il tema delle capacità e della capacitazione (empowerment), che affronteremo meglio nel quarto capitolo, inoltre, propongono un frame generale di lettura di queste «pratiche di democrazia», quello della sperimentazione e della generazione di nuove istituzioni in grado di promuovere forme di

governance partecipativa e basata sullo sviluppo di capacità. Infine, uno degli ingredienti centrali che richiamano nel mettere in pratica un modello di governance di questo tipo è il ruolo– che qui abbiamo solo accennato, ma viene ampiamente approfondito nei vari contribuiti sui casi da loro trattati e ai quali quindi rimandiamo– giocato da operatori, referenti delle istituzioni a livello locale, nel creare connessioni, diffondere conoscenza, sostenere le persone coinvolte nel processo. Anche questo elemento emergere dalla presentazione dei risultati nella nostra ricerca in relazione agli operatori di cittadinanza attiva a livello di Quartiere, ma anche di altri referenti che quotidianamente si ritrovano investiti in un processo complesso di composizione di supporto ed autonomia.

Il lavoro di Fung (2004) trova come orizzonte applicativo e di indagine quello del policy making e di quella che possiamo chiamare neighborhood governance, su cui torneremo più avanti.

Un autore, che ha ampiamente trattato il tema della sperimentazione nell'ambito della governance, spesso richiamato nel dibattito sulla democrazia deliberativa, è Charles Sabel (Dorf e Sabel 1998, Sabel 2004, Sabel e Zeitlin 2011), il contributo può essere collocato più sul piano delle analisi della progettazione di servizi e del welfare.

Pur non essendo il nostro lavoro relativo a questo ambito di studio —servizi e welfare— ci pare utile fare dei rimandi rispetto ad alcuni tratti salienti del pensiero di Sabel sul tema della sperimentazione, pensiero che a tratti si intreccia con con ciò che Fung e Wright evidenziano rispetto in particolare alla connessione tra unità centrali e unità locali e la necessità di un reciproco influenzamento tra queste.

2.2 Governance sperimentalista

Come evidenzia Prandini (2013) l'esito delle elaborazioni di Sabel sono dovute ad una «doppia cittadinanza intellettuale», quella giuridica che riporta il pensiero sul piano normativo–costituzionale, e quella invece relativa alle politiche sociali. In questa prospettiva evidenzia Pradini il lavoro di Sabel risulta rilevante, poiché riconduce i due campi di ricerca ad una più ampia problematica comune che è propriamente quella della governance: «il problema che da sempre affascina Sabel, è quello di come affrontare, sia nel campo della produzione di beni e servizi sia quello del policy making, la governance di una società sempre più complessa, caratterizzata da strutture e processi sempre più contingenti» (p. 8). Il riferimento di fondo del pensiero di Sabel è il pragmatismo americano orientato al problem solving. Come ben chiarisce Prandini

L'ideale pragmatista è quello di una serie di abitudini /habits) utili che vengono messe all prova/sperimentate costantemente, mediante l'azione e la riflessione, per costruire nuovi «abiti» più adatti al contesto (che, a loro volta, verrano cambiati in futuro). La ricerca pragmatica è sempre

collettiva e mai individualistica perché le abitudini sono tali soltanto se praticate socialmente, riconosciute e criticate da altri. La democrazia è il metodo per riflettere insieme sulla relazione tra mezzi e fini comuni». (ibid.).

Il punto di partenza, l'input, alla ricerca di queste sperimentazioni è, come lo stesso Sabel afferma (2011, p.2), il dubbio e l'incertezza. Nelle stesse parole di Sabel:

A secular rise in volatility and uncertainty is overwhelming the capacities of conventional hierarchical governance and ‘command–and–control’ regulation in many settings. One significant response is the emergence of a novel, ‘experimentalist’ form of governance that establishes deliberately provisional frameworks for action and elaborates and revises these in light of recursive review of efforts to implement them in various contexts.

In sostanza, siamo in un mondo in cui non è più possibile precisare e determinare «ex ante», a priori, obiettivi di policy e metodi per raggiungerli, ma sottolinea Sabel, devono essere «scoperti» nel corso del problem solving, attraverso un processo che Sabel definisce «ricorsivo» e che non può che basarsi su un architettura di governance «multilivello»: «experimentalist governance is a recursive process of provisional goal-setting and revision based on learning from the comparison of alternative approaches to advancing them in different contexts […] Experimentalist governance in its most developed form involves a multi-level architecture».

Come chiarisce Sabel (2011, p. 4), la governance è «sperimentalista» nel senso filosofico che il pragmatista americano Jhon Dewey dà a questo concetto:

[…] systematically provoke doubt about their own assumptions and practices; treat all solutions as incomplete and corrigible; and produce an ongoing, reciprocal readjustment of ends and means through comparison of different approaches to advancing common general aims.

Un altro modo per indicare una governance di questo tipo è per Sabel il termine «Poliarchia Diretta e Deliberativa»– Directly Deliberative Polyarchy (DDP)– per indicare che le modalità di decisioni si basano non solo tipicamente sull'argomentazione deliberativa (capitolo III) per rivedere le pratiche e ridefinire interessi, ma anche sulle concrete esperienze degli attori coinvolti e delle loro reazioni di fronte ai problemi, che psossono generare nuove possibilità, infine è policentrica nella presa delle decisioni.

Tra gli elementi che Sabel individua come centrali, in particolare nella prestazione di servizi, è il ruolo giocato in questo processo dai «frontline workers»:

center and frontline. The center’s role is no longer merely to monitor frontline compliance with promulgated standards. It is responsible for providing the infrastructure and services that support frontline efforts. (ibidem, p.8)

L'autore va a fondo e in dettaglio nello spiegare le modalità con cui, da un punto di vista organizzativo, e di gestione tra livello centrale e locale, questo ruolo degli operatori a livello locale prende forma. Quello che a noi qui interessa è evidenziare è che un aspetto cruciale nella ridefinizione tra «centro e frontline» è per Sabel il fatto che la complessità e l'ambiguità con cui i «street level bureaucrat» devono fare i conti è presa in considerazione, potremmo dire, «strutturalmente» nel modello della governance sperimentalista, non è affidata alla «tacita discrezionalità», che in modo solitario, come nota l'autore, era applicata da operatori negli interstizi che si aprono tra le regole e che ha prevalso nella letteratura sulle organizzazioni dagli anni '70 in avanti. La governance sperimentalista di Sabel quindi, rifiuta e sfida la concezione secondo cui l'unica via di uscita da una rigidità meccanica delle regole sia quella di una discrezionalità ad hoc e poco visibile degli operatori (ibidem, p.10), mentre invece la chiave di volta è quella di una «responsabilità dinamica» –«dynamic accountability»– che riconosce la possibilità di giustificare le azioni di chi lavora nei servizi «frontline», se possono in modo plausibile spiegare gli obiettivi organizzativi, e sono sostenute da una riflessione rispetto a ciò che in una data situazione è ritenuto possibile e necessario fare. Questa idea di responsabilità dinamica secondo Sabel non è solo una risposta per quelle «incertezze strategiche» con cui si deve operare oggi– da cui appunto la necessità di un approccio sperimentalista– ma anche per rispondere alle necessità di legittimità che riguardano oggi gli stati-nazione stessi (ibidem, p.11).

Oltre a questa declinazione e riformulazione della responsabilità, centrale è la dimensione della poliarchia, ossia di una distribuzione del potere per cui nessuno singolo attore può avere la capacità di imporre una propria soluzione senza aver preso in considerazione i punti di vista degli altri» (ibidem p.12), in tal senso per Sabel la governance sperimentalista «can be understood as a machine for learning from diversity»(ibid.).

In ultimo, Sabel afferma che secondo questa concezione e declinazione di governance non vi è né una separazione tra definizione delle politiche ed esecuzione amministrativa come nella governance tradizionale gerarchica e come nel New Public Management, né dall'altra parte quella che Sabel definisce come una fusione– della elaborazione di politiche ed