• Non ci sono risultati.

Capitolo 3. DISASTRO E SOCIETÀ Le percezioni del rischio tra mutamento e

2. L'antropologia culturale e il disastro

2.2 Il disastro sono loro

È evidente sin da ora, a conferma della tesi di Quarantelli e Wenger, che il disastro non corrisponda tanto all'evento fisico, quanto all'impatto sociale, profondo e duraturo provocato dall'interazione, individuata da Oliver-Smith, tra società, ambiente e tecnologia. Ho avuto riprova di ciò nella mia esperienza diretta a Lonigo. Qui, è sorto il primo gruppo di Mamme NoPfas, che ha poi svolto il ruolo di apripista e capofila per gli omonimi gruppi degli altri comuni contaminati della “zona rossa”, aggiuntisi tardivamente, quando gli esiti del biomonitoraggio sono arrivati a coinvolgere anche loro. Sebbene si sia riunito a partire dalla volontà di sole quattro mamme, a più di tre anni dalla comunicazione della presenza di PFAS nelle acque venete, dalla primavera del 2017 è stato in grado di smuovere le coscienze di tanti altri concittadini e non, giungendo ad ottenere il dialogo diretto con le alte cariche istituzionali regionali e nazionali, nonché la massima visibilità mediatica. In altri paesi del Veneto centrale contaminato non si è avuta la medesima risposta alle medesime condizioni. Oltre alla centralità delle analisi mediche, che riprenderò in seguito, come motore del gruppo di genitori NoPfas, questo dato getta luce sul fatto che il disastro non sussiste sino al momento in cui collude con una collettività sociale: senza le mamme, in altre parole, non ci sarebbe stato alcun disastro – in senso antropologico. «[...] un disastro diventa un disastro solo quando

vengono coinvolti uomini o ambienti creati dagli uomini», come scriveva Karl A. Western (Ligi 2009: 3). La vicenda sarebbe stata taciuta o silenziosamente affrontata dalle istituzioni e diffusa dall'associazionismo ambientalista, il cui raggio d'azione ha evidenti limiti. È possibile ricondurre la centralità dei Genitori NoPfas nel determinare l'incedere della questione della contaminazione al fatto che siano proprio organizzazioni come quella che «accendono e conducono pubblicamente la disputa; che sviluppano concezioni sulla natura del rischio [...]; che mettono in dubbio le concrete decisioni e le procedure attraverso le quali esse sono state prese» (Marinelli 1993: 109). Ho avuto modo di confrontarmi su questo con Monica, una mamma molto combattiva di Brendola, al termine dell'incontro con il presidente della Regione Luca Zaia. Mi apparve allora evidente che senza la loro determinazione, incanalata in piccole ma efficaci azioni quotidiane coordinate, il caso non sarebbe sussistito. Paradigmatico di ciò, il progressivo risvegliarsi di comitati informali NoPfas, mano a mano che i propri figli si scoprivano vittime dei PFAS, come i genitori di Legnago, nel veronese. Il 30 agosto si svolse un incontro a Lonigo tra il gruppo locale e quello nascente della vicina provincia (v. fig. 19): i nuovi arrivati erano molto concitati e un signore che assunse ben presto il ruolo di portavoce giustificò le loro innumerevoli domande tecniche dicendo: «sono solo un paio di giorni che ci siamo avvicinati al problema». Fino a quei fatidici due giorni precedenti, per loro il disastro non esisteva, non era entrato nell'orbita delle loro esistenze. Eppure il fattore di contaminazione ambientale era sempre quello: inquinamento storico pluridecennale, responsabile la ditta Miteni spa di Trissino (VI), ventuno i comuni della “zona rossa”, Lonigo e Legnago compresi.

Questo breve accenno vuole avere l'effetto di chiarire come, soprattutto in casi di dispersioni di sostanze tossiche nell'ambiente, tardivamente scoperte o annunciate pubblicamente, il disastro si realizzi in quest'ultima fase, poiché l'elemento mancante per definirlo tale, in antropologia, è la società: ambiente e tecnologia si possono intersecare in un dato momento – nel nostro caso negli anni Settanta – che costituisce l'impatto, ma è solo quando esso viene ad interagire con una popolazione a vario grado vulnerabile che intervengono eventualmente una forma di disaggregazione sociale e crisi delle abituali strutture di riferimento. Ecco dunque l'espandersi a macchia d'olio del “disastro PFAS”, dal momento che, sebbene oramai diffusamente noto grazie all'intervento dei mezzi

massmediatici, sempre più persone sono state coinvolte in comuni della “zona rossa” e non solo, unicamente quando toccate nel vivo della loro quotidianità.

Fig. 19, Incontro pubblico Mamme NoPfas Lonigo-Genitori Attivi Zona Rossa – cittadini Legnago, Villa San Fermo, Lonigo, 2017 (foto Lara Bettoni).

2.3 “Qui” e “là”, gli spazi del disastro.

Se nell'introduzione si è provveduto ad inquadrare geograficamente l'area di Lonigo, in quanto ambito in cui ho svolto la ricerca di campo, vi è poi la più ampia “zona rossa”, composta, come accennato poco sopra, da ventuno comuni appartenenti alle tre province di Verona, Vicenza e Padova.7 La dimensione spaziale del disastro è un altro punto di

considerevole importanza, maggiormente accentuato nella definizione di Quarantelli e Wenger rispetto a quella di Oliver-Smith. Soprattutto in un caso di contaminazione ambientale, si fa più incerta e sfumata. Dal momento che, nello specifico caso dei PFAS, il veicolo di diffusione è la matrice idrica, risulta evidente l'impossibilità di circoscrivere una zona, distinguendone una “rossa” da una “grigia”. Non a caso, è di pochi giorni fa la notizia che anche in alcuni comuni dell'est veronese, limitrofi a Lonigo ma estranei alla “zona rossa”, siano state riscontrate tracce di PFAS in quantità non irrilevanti, a seguito di analisi svolte per iniziativa di privati cittadini.8 Sempre per tale motivo – l'amplissima e rapida diffusione degli

agenti chimici – non ho percepito nelle parole dei miei interlocutori l'utilizzo di un “qui” zona

7 Per un elenco completo si veda: Regione Veneto – Comunicato n. 598 (data consultazione 1.12.2017). 8 VeronaSera – Cronaca (data consultazione 1.12.2017).

contaminata e un “là” zona sicura: il presupposto di partenza è ormai che ogni luogo sia inquinato e per di più da una varietà di sostanze. Se, infatti, durante le prime settimane di presenza a Lonigo mi sembrava ogni volta di immergermi in un microcosmo “tossico” dal salubre nido familiare da cui partivo, ben presto ho acquisito consapevolezza che effettivamente siamo circondati: ci muoviamo in un continuum velenoso, che ci espone costantemente a fattori di rischio involontari per la nostra salute. Al di là del personale senso di angoscia, che spesso si è reso tanto insopportabile da necessitare di attimi di svago e distrazione, c'è stato un momento in cui l'ipotesi di abbandonare la propria terra, di aprirsi una concreta via di fuga, si è affacciata alle menti di alcuni leoniceni miei interlocutori.

Era da poco passato ferragosto e la situazione versava in una fase di stallo. Silenzio dalle aule della Regione, ancora molte domande riguardo la proposta di utilizzare la plasmaferesi per “pulire” il sangue dai PFAS, solita indifferenza della maggior parte dei concittadini. Ecco allora che Michela sfoga la sua esasperazione:

... a mi me vien voja de 'ndar via, seto setimana scorsa (?) de vender tutto e andar via... perché mi go dito se la gente qua no se sveglia mi ghe lasso che i boja ne so brodo va... vo' via... finché non vien fuora la bomba, metto in vendita la casa, la vendo sta casa qua e vo' in Trentino, da qualche altra parte [...].9

Il Trentino e l'Alto Adige, non solo per Michela, diventano quel “là”, luogo sicuro, sinonimo di salubrità e vita sana. Leonardo, giovane studente dell'Università di Bolzano, lascia trasparire dalle sue parole la “fortuna” di studiare fuori sede, in una città in cui i PFAS sono solo una lontana eco. Da lì, nei suoi cadenzati rientri nel paese natio, porta con sé scorte di latte da lasciare a sua madre, mentre quest'ultima ventila l'idea di farsi portare l'acqua in cisterna da parenti che vivono sempre in quelle zone:

[...] sì ma anche ad esempio il latte, quando vado a Bolzano in macchina, mia mamma mi chiede di comprare quaranta scatole di latte a lunga conservazione [...] perché ovviamente viene dall'Alto Adige quindi è pulito rispetto al latte del vicentino...10

9 Intervista con Michela, 21 agosto 2017. 10 Intervista con Leonardo, 29 settembre 2017.

[...] adesso devo valutare bene perché avevo pensato anche sinceramente di vedere un attimino un approvvigionamento idrico tramite cisterne... però è un... io c'ho un mio conoscente che abitano, che hanno una villa, cioè una casa in zona isolata, non qui, su in Trentino Alto Adige e quindi loro hanno 'ste cisterne [...].11

Anche Loretta mi racconta di un suo giovane alunno che, con la famiglia, si è trasferito in una zona di montagna del Trentino:

[...] hanno proprio cambiato vita, sono andati a... in Trentino e hanno deciso, non avevano... [...] son partiti proprio senza niente, si son presi casa e... hanno deciso proprio di dare un futuro migliore ai figli [...].12

Si tratta di testimonianze importanti e di questioni di non poco conto quando il pensiero di cambiare vita e lasciare quanto costruito sino a quel momento si tramuta in realtà. Lorenzo, un papà NoPfas molto apprensivo – un “massimalista”, per usare una categorizzazione netta – esprime con allarmismo il fatto che Lonigo e l'intera porzione di Veneto inquinata possano

trasformarsi nella «terra dell'esodo».13 Anche in occasione di una serata informativa svoltasi a

Montagnana – al momento l'unico comune padovano colpito – partecipata da quasi quattrocento persone, una giovane mamma chiese ai relatori della serata, in particolare al dottor Fazio dell'Isde, quale zona nelle vicinanze, nell'ottica di un eventuale trasferimento per tutelare la salute dei suoi bambini, fosse «sicura dal rischio che invece qui viviamo come

certezza».14 La risposta iniziale fu quella di prediligere le zone montuose, fermo restando che

l'intera penisola è sottoposta a varie forme di inquinamento dovunque si guardi; in un secondo momento, il dottore si è trovato a dover riformulare la risposta, specificando che la soluzione non risiede nella fuga di massa, ma nell'adeguarsi provvisoriamente ad una serie di precauzioni, pretendendo allo stesso tempo che venga posta fine alla produzione ritenuta responsabile della condizione critica.

La nota tra le più drammatiche, che ho potuto cogliere svolgendo interviste e chiacchierando con le persone nel periodo immediatamente successivo al rientro dalle vacanze, è stata quella emersa dalla loro esperienza temporanea all'esterno della “zona rossa”,

11 Intervista con Anna, 19 agosto 2017. 12 Intervista con Loretta, 17 settembre 2017. 13 Diario di campo 24 agosto 2017.

in concomitanza con le ferie o i resoconti di queste da parte di amici e conoscenti. Così, Antonella e Michela:

[...] era bello farsi il caffè con l'acqua del rubinetto, cucinare, farsi la pastasciutta con l'acqua del rubinetto, sembrava un sogno... anzi stavo sempre lì quando facevo la pastasciutta, “Oddio ma devo prendere la bottiglia!” [...].15

[...] la me testimone de nozze: “Michela – la fa – Michela – la fa – seto qua (l'è su in Trentino) che meraviglia. Michela seto – la fa – che verzevo l'acqua del rubinetto e fazevo la pasta, i primi giorni ghemo fato tuto in bottiglia stesso... parché me pareva imposibile de poder dar l'acqua del rubineto par fare la pastasutta. Michela – fa – me vegnù na voja de vendar tuto e venir via”.16

Da queste ultime parole, ritorna la profondità dell'impatto del nemico invisibile sulle abitudini quotidiane, dal cuocere una pasta al preparare un caffè, così come descritte nel secondo capitolo. Eppure, si può vedere come le precauzioni prese si siano rapidamente trasformate a loro volta in abitudini, tanto che permangono il gesto e la predisposizione mentale all'uso della bottiglia anche in zone “sicure”. L'influenza dunque della contaminazione non è stata banale nei termini dello spazio domestico, quotidiano, costruito nel tempo e strettamente connesso anche ad una dimensione affettiva. Sradicare i propri figli dal tessuto di relazioni ed amicizie create poneva qualche scrupolo ai genitori, così come l'abbandono di una casa costata fatiche e sacrifici e del contesto cittadino di riferimento. Il proprio universo di senso interno – la casa – ed esterno – la città – ha opposto una certa resistenza all'ipotesi di fuga, per lo meno per la generazione adulta, dei genitori. Quello che nessuno di loro ha taciuto è la speranza più o meno esplicita che i propri figli scelgano di costruire la propria vita al di fuori della “zona rossa” o all'estero. Si tratta di un modo sottile per definire un altro “là”, proiettato nel futuro ma attuale e concreto, vivamente sentito, che preannuncia un distacco fisico ed affettivo all'interno della piccola comunità. Concludo con l'esempio delle sofferte parole di Loretta, che, pur contenendo una buona dose di stereotipo ed essenzializzazione di una generica “alterità”, rendono l'idea del clima diffuso:

15 Intervista con Antonella, 8 settembre 2017. 16 Intervista con Michela, 21 agosto 2017.

[...] e avendo una figlia solo, però le continuo a dire, guardati intorno e pensa a dove potresti andare a vivere o a far vivere i tuoi figli... però, non è bello insomma... cioè con quello che abbiamo fatto tutti per avere una casa, per avere... e... non siamo come quelle culture anche abituate a girare, a no? Saremmo molto più tendenti a... a piantare radici qua...17