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Capitolo 3. DISASTRO E SOCIETÀ Le percezioni del rischio tra mutamento e

4. Percezioni e vulnerabilità nella società del rischio

4.1 Saperi a confronto, oltre le opposizioni

Oggetto di questo paragrafo sarà il tema dei saperi, nell'ottica di un'analisi di quanto riscontrato sul campo, nel tentativo di superare la classica duplice declinazione di essi in saperi “esperti” e saperi “comuni” o “sociali”. Secondo la struttura adottata ormai in molti paragrafi, prima di introdurre l'esperienza direttamente osservata, partecipata ed approfondita, vorrei esplicitare i passaggi teorici nel campo delle scienze sociali e specificamente dell'antropologia. In parte sono già stati accennati nelle sezioni precedenti, ma vale la pena riprenderli per cogliere la radicalità del mutamento di prospettiva intervenuto tanto nella società quanto negli ambiti accademici. Fondamentali a quest'ultimo proposito le riflessioni e le intuizioni di Ulrich Beck e di Mary Douglas, cui si è già fatto frequente riferimento. Studi successivi non potranno prescindere dalla rinnovata impostazione data, già a partire dagli stessi anni Novanta: particolarmente significativi i testi del già citato Marinelli (1993) e di Deborah Lupton (1999).

Proprio la centralità attribuita alla dimensione sociale, composta di una molteplicità di individui, dotati di una propria razionalità, porta in scena la rilevanza del rapporto tra differenti forme del sapere, come si legge dal titolo, afferenti a schemi di pensiero diametralmente opposti secondo i termini della teoria classica: sapere “esperto” da un lato, sapere “sociale” dall'altro. Il primo scientifico, oggettivo, certo; il secondo irrazionale, illogico, infondato. Per Beck non ci sono dubbi: nella definizione di rischio «il monopolio di razionalità della scienza viene infranto. [...] non ci possono essere esperti in rischi» (Beck 2015: 38). L’autore parla proprio di un «dialogo tra sordi» tra le due razionalità, «scientifica» e «sociale» (Beck 2015: 39). Nello specifico, il sapere “esperto” è quello afferente al campo delle scienze ingegneristiche, fisico-matematiche, mediche e dei settori industriale e tecnologico. Le istituzioni politiche finiscono per farsi ancelle di questi, portavoce di verità obiettivamente prodotte e inconfutabili fino a prova contraria e, a volte, oltre. La politica, nella sua declinazione democratica che riguarda la nostra società occidentale, è sottoposta ai diktat dell'economia, della scienza appunto e della tecnologia (Beck 2015: 19). Lo scontro avviene allora tra l'irremovibile necessità della prova scientifica di un caso, che ne determini la catena causale, e le credenze irrazionali di una popolazione ignorante, la quale definisce i suoi parametri, le sue paure, le sue risposte a stimoli esterni o ad agenti d'impatto in maniera

fluida, dinamica e mutevole, dovuta al possibile modificarsi delle proprie percezioni. Come accennato nel capitolo introduttivo della tesi e successivamente ripreso, l'intero discorso sin qui svolto si inserisce in un quadro di mutamento sociale profondo, in cui scienza e tecnologia hanno visto vacillare le loro solide fondamenta di saperi incrollabili e coesi, a seguito di gravi eventi disastrosi. Il mondo accademico della ricerca ha mostrato le sue fratture interne, che rispecchiano la molteplicità dei punti di vista e delle prospettive presenti nella società esterna, il suo essere soggetto alla variabilità del contesto culturale in cui è inserito e delle tendenze che si susseguono. «La scienza è diventata umana» (Beck 2015: 234).

Questa è la mia tesi: le origini delle critiche e dello scetticismo nei confronti di scienza e tecnica non sono da ricercare nell'“irrazionalità” dei critici, bensì nel fallimento della razionalità tecnico-scientifica a fronte dei crescenti rischi e pericoli della civiltà. [...] Non è il fallimento di singoli scienziati o di singole discipline, è invece fondato strutturalmente sull'approccio metodico-istituzionale che le scienze hanno rispetto al rischio. [...] le scienze non sono assolutamente in grado di reagire adeguatamente ai rischi della civiltà, poiché sono ampiamente corresponsabili della loro nascita e crescita. Anzi: a volte con la coscienza pulita della “scientificità pura”, a volte con crescenti rimorsi, si vanno trasformando in autorevoli

istanze legittimanti di un inquinamento e di una contaminazione industriale planetaria di aria,

acqua, alimenti ecc. con relativa generale infermità e morte di piante, animali e uomini (Beck 2015: 78).

Per Douglas la pretesa oggettività della scienza corrisponde ad un vero e proprio «trinceramento ideologico» (Douglas 1996: 30), all'interno del quale si chiude in questo caso l'analista del rischio, accentuando la propria superiorità e il proprio pregiudizio, in maniera direttamente proporzionale alla volontà di non sporcarsi le mani uscendo dai paradigmi preimpostati sull'individualità della razionalità agente.

In conclusione di questa sintetica esposizione del cambio di paradigma intervenuto in virtù del contributo delle scienze sociali, a loro volta sospinte dagli inediti risvolti degli eventi calamitosi avvenuti nel decennio 1970-1980, vorrei spendere qualche riga sui concetti di certezza, sicurezza ed i loro opposti. Caduto il velo di intoccabilità dei saperi “esperti”, anche il loro messaggio automaticamente percepito dalla società di essere guidati da certezze scientifiche, univoche ed incontrovertibili, unitamente al conseguente senso di sicurezza prodotta dalle potenti tecnologie, è venuto meno. Da qui, il celebre quesito: how safe is safe

enough? Per un verso, afferma ancora Douglas, «la conoscenza è sempre insufficiente. L'ambiguità è sempre in agguato» (Douglas 1996: 25), proprio perché la tecnologia ha esplicitato i suoi limiti; per un altro, più radicalmente, sostiene Marinelli: «Nella società contemporanea l'incertezza è una condizione universale ed ineliminabile» (Marinelli 1993: 77). Chiarificatrici le parole di Lupton, a commento del testo di Beck:

Ben sapendo, non solo che è la scienza ad aver prodotto molti dei rischi che li inquietano, ma anche che essa non possiede una conoscenza completa e coerente di tali rischi, né è in grado di porre rimedio ai problemi che essa ha creato, le persone comuni guardano oggi ai saperi esperti con scetticismo. Esse vivono di conseguenza in un'insicurezza e incertezza costante [...]. L'effettiva natura dei rischi è materia di continui conflitti, principalmente tra chi elabora le definizioni sul rischio (in primo luogo gli esperti), e chi ne fa uso (il pubblico dei profani). È questo a rendere il concetto di rischio un concetto altamente politico (Lupton 2003: 74-75).

La società del rischio odierna è minacciata dagli esiti talvolta sconosciuti o conoscibili solo per approssimazioni probabilistiche della precedente industrializzazione, che ora, come detto, si trova ad aprire una nuova fase in cui si interroga su se stessa. Industrie e tecnologie applicate vengono sempre più guardate con sospetto, non tanto in chiave di avversione al progresso, quanto più di un sentire interiorizzato, recentemente incorporato, di cautela verso ciò che ha dato prova di poter sfuggire al controllo. È dunque evidente che ogni cultura, in base alla propria dose di conoscenza socialmente condivisa dal gruppo, alimenta una propria definizione di “pericolo”, “rischio”, “sicurezza”, mai data una volta per tutte, ma mutevole, vista l'interazione reciproca tra individui e il confronto con gli altri attori sociali, quali le istituzioni e gli enti medico- scientifici.

Il caso di contaminazione da PFAS che ho studiato nel suo manifestarsi nello specifico contesto della città di Lonigo non è stato esente dalle dinamiche più sopra esposte. Trattandosi di un caso etnografico concreto e vissuto personalmente, uno degli aspetti più rilevanti che vorrei far trasparire è la complessità del rapporto tra saperi, non più così facilmente ascrivibili a due sole categorie, “esperti” e “comuni”, tra loro contrapposte. Per un verso, il divario creatosi tra cittadinanza ed istituzioni ha rispecchiato quello esistente tra saperi “comuni” della prima ed “esperti” delle seconde; è anche vero, però, che la composizione variegata dei membri del gruppo Genitori NoPfas ha lasciato trasparire come al suo interno non fosse

carente la presenza di saperi “esperti” e tecnici. A titolo di esempio, si era unita al gruppo in quanto mamma un perito chimico della zona, che di PFAS non era affatto digiuna, così come le già accennate infermiere e ricercatrici in campo medico. Il divario creatosi ha riguardato il sapere “esperto” istituzionale, quello sfiduciato prima dai comitati ambientalisti, poi dai cittadini “attivi” alla luce delle prove scientifiche. Sono state le stesse prove prodotte dai laboratori delle Ulss a determinare l'aprirsi del profondo divario tra le due entità. Da quel momento in poi, ogni segnale – decisioni, informazioni, annunci – provenienti dall'alto, sono stati recepiti in maniera totalmente diversa: tutto doveva passare al vaglio critico di un altro sapere “esperto”, quello “sociale”, dal basso, frutto di un meccanismo di democratizzazione e condivisione alla pari dei propri saperi. Non si è verificato un rifiuto impulsivo ed “ignorante”, irrazionale, della scienza, quanto più la presa di coscienza effettiva che vi siano più declinazioni di uno stesso sapere. Quello dell'Istituto Superiore di Sanità, dell'assessore regionale alla Sanità, ad esempio, distaccato, tecnico, freddo, che sceglie di attenersi alle sole evidenze scientifiche, parziali e temporanee, senza prendere atto della dimensione reale in cui esse sono calate, che guarda in primo luogo ad un ipotetico profitto. Il carattere di novità della contaminazione, nei termini in cui gli effetti sulla salute necessitano di ulteriori prove, apre la strada alla sperimentazione di tecnologie e farmaci: anche tale aspetto non era sfuggito a Beck, che parla di un vero e proprio «business» del rischio, in cui vengono attuati «interventi cosmetici sul rischio: [...] installazione di filtri lasciando invece immutate le cause dell'inquinamento» (Beck 2015: 73-75). È proprio quanto accaduto in Veneto, dove la fonte della contaminazione da PFAS ha subìto unicamente azioni di tamponamento, operazioni di bonifica di lungo periodo dalla dubbia efficacia e svolte in concomitanza al proseguire della produzione di inquinanti non ancora normati, dunque liberi di essere dispersi, così come l'applicazione di filtri già descritti. «Non sono la soluzione» è stata un'altra espressione ricorrente, segno della consapevolezza diffusa che la priorità delle alte cariche non sia quella di interrompere l'inquinamento, quanto quella di normalizzare una situazione di emergenza, dispensando la temporanea conquista dell'obiettivo “zero PFAS” come vittoria.

Al contrario, il sapere medico scientifico e tecnico dal basso, espresso da singoli individui o componenti di associazioni, come i due medici per l'ambiente (Isde), protagonisti di molteplici incontri informativi pubblici, ha saputo aprire canali di comunicazione con la cittadinanza, ponendo al primo posto la salute dell'essere umano e del territorio e non i

guadagni derivanti da ricerche innovative come la plasmaferesi, «[...] un esperimento che farà storia scientifica» (Pepe 2017: 17), di cui dirò oltre. Due approcci molto diversi nell'ambito di un comune sapere “esperto”: uno minimalista che nega la gravità della contaminazione in mancanza di prove di causalità nell'insorgere di malattie PFAS correlate, l'altro che, all'opposto, richiama a gran voce il principio di precauzione, sulla base dei primi dati di significativo aumento di patologie riconducibili all'interferenza degli inquinanti nell'organismo. Il discorso portato avanti dai medici Isde ha l'ulteriore peculiarità di essere di ampio raggio, ovvero di contestualizzare l'inquinamento e storicizzarlo, tenendo conto dell'interazione dagli effetti ormai globali tra industrializzazione e tecnologia, società e ambiente, la triade cioè nel cui punto di rottura si determinano i disastri.

Per quanto attiene il sapere “esperto” istituzionale il quale ha compromesso per lungo tempo la sua attendibilità – pare che i primi risultati sugli alimenti non siano stati pubblicati perché ritenuti troppo incerti, che il registro tumori regionale relativo ai comuni compresi nella “zona rossa” sia stato ritirato dall'accesso pubblico – il fulcro ruota attorno al credere, derivante a sua volta dalla dose di fiducia riposta in esso. Il sapere “esperto” dal basso, invece, è accettato, respinto o criticato da parte dei cittadini sulla base di una più concreta comprensione effettiva e di una condivisione di priorità. L'approccio tendenzialmente massimalista soprattutto del dottor Fazio dell'Isde non ha risparmiato critiche all'interno dello stesso gruppo Genitori NoPfas. A seguito dell'incontro tenutosi a Montagnana, in provincia di Padova, al cospetto di un pubblico di quasi quattrocento persone, da poco interessatesi al caso, la foga drammatica con cui ha dipinto lo scenario della contaminazione ha suscitato sentimenti di angoscia e panico, come la signora che interrogò il dottore sul luogo più salubre in cui trasferirsi. Il giorno successivo, discutendone con Michela dopo la chiusura della sua mostra di pittura, ebbi conferma della sua disapprovazione ad un'interazione del genere con i cittadini, posti brutalmente innanzi ad un vicolo cieco.53 Per Michela, inoltre, i saperi “esperti”

sono soprattutto quelli dei giovani universitari: «non sono un'esperta come voi giovani che

studiate, sono ignorante io».54 Ripone grandi speranze in una generazione che possa formarsi,

comprendere e spiegare le dinamiche della vicenda scevre da giochi ed interessi di sorta.

53 Diario di campo 11 e 12 settembre 2017. 54 Diario di campo 9 luglio 2017.

Concludendo, in più di un'occasione, soprattutto di confronto pubblico con autorità politiche e sanitarie, ho avvertito con fastidiosa immediatezza l'incorreggibile stacco tra le parti: un'incomunicabilità insita nella stessa struttura della società, in cui gli esperti sono delegati dalla cittadinanza a definire la sicurezza o l'emergenza di una situazione, a prevenire o soccorrere, contribuendo a garantire una vulnerabilità sociale bassa, ma che spesso, in virtù del credito che gli è dato, nascondono e speculano. Per contro, un sapere “esperto” sfiduciato ha facilitato l'insorgere di nuove certezze e nuovi attori sociali, parimenti tecnico-scientifici, portatori però di quella che viene percepita e pretesa come “verità”, poiché risponde al quadro che, per quanto drammatico e preoccupante, la cittadinanza si aspetta di leggere. Per i più si è trattato di un foucaultiano distacco dell'ordine delle cose da quello delle parole, dal momento che il dato immediato restituisce una logica lineare – c'è un inquinatore, va fermato, si procede con una bonifica efficace e si tutela l'intera popolazione – mentre le parole e i numeri dialogano da lontano, temporeggiano, si mantengono vaghi, bisticciano tra loro, dichiarano il falso per evidenti secondi fini. Il divario creatosi non è tra istituzioni caute ma operative e allarmisti o estremisti ambientalisti55, bensì tra quelle e una popolazione estremamente

disomogenea, multiforme e composita, disposta a sacrificare molto del proprio – il tempo, il lavoro, la famiglia, le ferie, le proprie convinzioni – in nome di un più grande bene comune.