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Capitolo 3. DISASTRO E SOCIETÀ Le percezioni del rischio tra mutamento e

2. L'antropologia culturale e il disastro

3.2 I tanti volti della responsabilità

Non i peccati dei padri, ma i rischi provocati dai padri ricadono sui figli, fino all'ennesima generazione (Douglas in Lupton 2003: 53-54).

In questo paragrafo verrà affrontato il nodo particolarmente critico dell'incrinarsi del rapporto tra popolazione contaminata ed istituzioni, siano esse politiche o sanitarie. Innanzitutto è bene distinguere i termini che ricorreranno spesso nelle pagine a venire, responsabilità e colpa, date le loro implicazioni nettamente diverse. Responsabilità, nel nostro caso, vuole indicare l'incarico, la competenza oggettiva di un ente o di un'istituzione, che può essere adempiuta o elusa; colpa, invece, è un termine dal chiaro valore negativo, esplicazione di un giudizio che ricade, per l'appunto, su chi è venuto meno al suo dovere o, ancor più, lo ha trasposto a danno di terzi – tralasciando le svariate condizioni che possono determinare l'attribuzione di colpa, afferenti allo specifico settore del diritto. È importante segnalarli entrambi, poiché ve ne sarà abbondanza nell'ambito del discorso che segue.

I referenti principali saranno le istituzioni politiche e sanitarie, venete – locali e regionali – e nazionali: dai sindaci alla Regione, dai medici ai vertici delle Ulss, dai ministri del governo centrale ai piani alti dell'Istituto Superiore di Sanità. È scontato ricordarlo, ma politica e sanità, nel bene e nel male, tendono a muoversi in sintonia, rispettando le reciproche decisioni. Il loro coinvolgimento nella vicenda è stato costante, sin dall'inizio, e si è sviluppato di pari passo con la chiamata in causa di Miteni dal 2013: colpa e responsabilità sono state così attribuite con maggiore o minore enfasi a seconda del momento e distribuite tra i suddetti enti.

La rilevanza antropologica di una riflessione su questi aspetti risiede nel fatto che il processo di attribuzione di colpa a uno o più decisori istituzionali si basa, ancora una volta, su scelte di carattere socio-culturali, strettamente connesse con la percezione del danno di cui è in gioco la colpa. Come ricorda Mary Douglas, «i problemi della percezione del rischio sono essenzialmente politici» (Douglas 1992: 95). Proprio perché la società delega alle istituzioni

la gestione dei rischi e dei disastri, il suo giudizio non costituisce solo un valutazione di carattere morale, ma interferisce direttamente con l'agire di quelle, attivando fenomeni di delegittimazione o rafforzamento del potere responsabile. Anche a questo proposito l'antropologa britannica si avventura in una schematizzazione delle possibili variabili per cui una data attribuzione di colpa si lega ad un determinato regime politico. Senza introdursi nel dettaglio dei suoi tentativi di avvicinare la teoria delle organizzazioni all'antropologia, il suo contributo è stato decisivo anche in questi termini.

Entrando nel merito dei processi di attribuzione di responsabilità e di colpa – il cosiddetto processo di blaming – nel contesto veneto e leoniceno in particolare, si è trattato di un percorso dinamico e talvolta controverso, su cui non tutti i miei interlocutori hanno espresso opinioni concordi. Fintanto che i risultati dello screening sulla popolazione non arrivavano e nei mesi precedenti, sin dal 2013, a fronteggiarsi erano state le associazioni ambientaliste e le istituzioni quali Comune, dirigenti dell'Ulss e assessori regionali: come spesso ricorderanno Antonella, altri attivisti del Coordinamento e i dottori Fazio e Cordiano – entrambi medici Isde – le accuse lanciate loro erano di «allarmismo» e «terrorismo», per altro mai smentite, neppure in tempi più recenti. Il sentire della popolazione comune si manteneva abbastanza indifferente rispetto a questa diatriba, in quanto polarizzazione di opposti estremismi, i quali da tempo per molti hanno cessato di essere di moda.

Il momento in cui, invece, ha avuto inizio la mia esperienza sul campo, anche i rapporti con una buona fetta di cittadini, mamme e genitori NoPfas, si erano incrinati. La fiducia che questi avevano riposto nelle voci autorevoli e rassicuranti delle alte cariche si era improvvisamente incrinata una volta ricevuta la prova evidente di una contaminazione, non più solo ambientale, ma anche del corpo umano, dei loro figli. Con il senno di poi od osservando la realtà dall'esterno, verrebbe facilmente da chiedere a questi genitori, fattisi “attivi” dalla primavera 2017: «Perché non vi siete mossi prima? Non vi siete preoccupati o

insospettiti alle parole inascoltate e avverse alle dichiarazioni ufficiali?». «Mi me fidavo»33,

ammette Michela senza vergogna, perché così dovrebbe essere dal momento che sono le istituzioni, in linea teorica, a dover garantire la sicurezza in senso lato dei proprio cittadini. Da quel momento la politica si è svuotata, ha perso supporto e autorevolezza; per contro, hanno acquisito notorietà e rispetto le voci in precedenza isolate.

Per quanto concerne la ditta Miteni di Trissino, individuata come fonte di provenienza del 97% – 96, 989% a voler essere precisi – dell'inquinamento da PFAS (Arpav 2017: 4; Regione Veneto 2016: 22), è stata destinataria della colpa da parte dei cittadini contaminati in periodi e intensità differenti, come riprenderò in seguito. Il punto di vista che vorrei qui riportare è però quello dei due lavoratori di Miteni, con cui ho avuto la possibilità di avere un'intervista molto ricca di suggestive riflessioni. La sintesi del loro pensiero al riguardo è contenuta nella seguente affermazione di Denis: «secondo me è un discorso, è un concorso plurimo di colpe... dove che ognuno ha la sua colpa, ma come spesso accade quando ci sono tante colpe, nessuno è colpevole...».34 Essendo entrambi membri di un sindacato, l'impostazione della nostra

conversazione è stata di stampo molto differente rispetto a quella ormai ricorrente con i genitori NoPfas: più tecnica, socio-politica, generale, distaccata dal coinvolgimento personale in quanto orientati a cogliere la dimensione della collettività, più che del singolo. Ad ogni modo, il loro punto di partenza risiede in una differente percezione del rischio, essendo consapevoli di lavorare sostanze chimiche e di essere maggiormente esposti ai loro potenziali effetti sulla salute. Sono venuti a conoscenza dell'inquinamento da quando i vari movimenti ambientalisti e cittadini hanno contribuito a portarvi l'attenzione, mentre prima ignoravano l'esistenza di rifiuti interrati e il funzionamento parziale del depuratore dello stabilimento. Hanno aperto vertenze con i dirigenti di Miteni e ottenuto l'estensione del monitoraggio medico a tutti gli impiegati. Per un verso, si sentono additati dalla cittadinanza come colpevoli dell'inquinamento, quando in realtà erano all'oscuro di tutte le implicazioni negative del loro lavoro; per un altro, pur riconoscendo appieno la colpa di Miteni, estendono la cerchia dei responsabili anche ai vicini comparti conciari. Questi utilizzano i PFAS da loro prodotti, ma, secondo i miei interlocutori, trattandosi di un settore molto ampio, che impiega migliaia di operai e fattura cifre molto elevate, non vengono toccati da indagini di sorta. La loro posizione è particolarmente complessa, essendo contaminati, contaminanti non per loro scelta, ritenuti colpevoli ma a loro volta portatori di accuse ai responsabili.

Facendo ritorno al più familiare contesto di Lonigo, il dato interessante dell'attribuzione di colpa riguarda non solo il suo essere un processo dinamico e variabile, ma anche il suo volgersi in un'autoaccusa che mamme e papà NoPfas imputano a loro stessi, in quanto spettatori passivi e «addormentati» – termine impiegato spesso dai miei interlocutori per

definire quel loro precedente stato di apatia e disinteresse nei confronti dei segnali più volte lanciati loro dal territorio ormai saturo di pericoli. Al senso di colpa più profondo e ragionato, si aggiunge quello più concreto, accennato nel secondo capitolo, a proposito del fatto di aver “avvelenato” i propri figli, prima con il latte materno, poi con la scelta dell'alimentazione: per quanto consci che a quel tempo non potevano immaginare i rischi insiti nel loro agire quotidiano, l'intensità del disastro si manifesta anche nel suo potere retroattivo, di sconvolgimento di un passato che speravano di poter mantenere intatto. Entrambi gli aspetti, tuttavia, proprio in virtù della loro gravità, sono stati in grado di smuovere in profondità le coscienze dei cittadini “attivi”. Il livello di reazione suscitato potrebbe costituire un'ulteriore risposta agli interrogativi di Beck del precedente paragrafo: nel contesto di Lonigo, cioè, qualcosa di più della paura è intervenuto nel processo di mutamento sociale, motivo per cui il gruppo NoPfas pare sostenuto da una forza di coesione maggiore e duratura.

Infine, la peculiarità di una colpa indirizzata ad un'entità astratta, il «dio denaro». Loretta non esita a pronunciare il suo verdetto, a chiamare al banco degli imputati il denominatore comune a tutti, dagli industriali agli allevatori, da Miteni alle istituzioni al privato cittadino:

Al dio denaro, veramente [...] secondo me purtroppo anche dovuto a una mentalità sbagliata, poco rispettosa... che però è difficile da cambiare quando sotto ci sono dei tornaconti quindi la responsabilità non è solo di Miteni, secondo me, veramente su larga scala di, di, di tanti industriali, di tante persone che hanno fatto inciucci, hanno ottenuto permessi, magari anche solo... chissà, allungando mazzette o cose pur di bypassare certi controlli anche secondo me, quindi proprio la responsabilità è... sempre comunque avendo di fronte il fatto, come posso fare per fare il più possibile soldi senza...35

E Michela:

secondo mi, il dio denaro copre tutto... e qua il dio denaro... l'è importantissimo, e vara che l'è nei veneti sta roba qua eh... va che noialtri veneti “muso duro baretta fracà” lavorare e tasere sempre... e anzi, l'è un vanto, per noialtri questo l'è un vanto [...].36

35 Intervista con Loretta, 17 settembre 2017. 36 Intervista con Michela, 21 agosto 2017.

Si tratta di quella che si potrebbe definire una “variabile antropologica”, che i miei stessi interlocutori hanno ripetutamente chiamato in causa, nelle varie declinazioni del veneto «magnaschei». Ogni occasione pubblica, oltre alle conversazioni private, era propizia a ricordare lo stato pietoso in cui versa attualmente il territorio del vicentino e ad attribuirlo a quell'elemento, insediatosi in ogni abitante a partire dal boom economico del secondo dopoguerra. Anche lo spettacolo teatrale cui ho assistito il 2 luglio 2017 a Sarego, paese della “zona rossa” a pochi minuti da Lonigo, non mancava di tematizzare con amara ironia la fede in questa subdola divinità pagana, coesistente, nonostante suoni come un ossimoro, con il noto bigottismo dei «basabanchi».37 Anche Lino, allevatore e coltivatore di Almisano, si

dilunga in riflessioni su una più generale responsabilità del paradigma dello sviluppo, devastante ed inarrestabile. In qualche modo questi destinatari, senza volto e senza nome, fungono da contenitori in cui far ricadere la molteplicità dei colpevoli e dei responsabili, senza chiamarli direttamente in causa; contemporaneamente, però, rappresentano anche un sofisticato strumento per mantenere una sorta di neutralità nell'arena degli attori coinvolti, per non sbilanciarsi in posizioni troppo radicali e per non riconoscere, se non implicitamente, la colpa anche a se stessi, semplici cittadini. Non è dunque trascurabile la centralità di questi ultimi spunti – il modello dello sviluppo costante e la propensione, chiaramente non solo veneta, all'ingordigia monetaria – nel loro impatto sul territorio.