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Capitolo 3. DISASTRO E SOCIETÀ Le percezioni del rischio tra mutamento e

2. L'antropologia culturale e il disastro

2.1 La “longue durée” del disastro

Il primo punto, davvero cruciale e rilevante, che vorrei analizzare in relazione al caso di contaminazione in Veneto, è il carattere di “processualità” del disastro, del suo dispiegarsi su un arco di tempo indeterminato, il cui inizio e la cui fine non sono limitati al singolo momento, isolato e repentino, perfettamente circoscrivibile, in cui un agente fisico – naturale o tecnologico – impatta su un dato contesto. Un disastro viene a formarsi progressivamente, in

un susseguirsi di tappe, di stalli e di accelerazione degli eventi.2 Nello specifico caso della

diffusione degli inquinanti perfluoroalchilici nelle acque del territorio veneto, a cavallo delle

2 È bene specificare che, per quanto ogni evento possa considerarsi esito di un processo, intercorre una

differenza tra un episodio improvviso, come un terremoto, e la “scoperta” di una contaminazione ambientale in corso da tempo.

tre province di Verona, Vicenza e Padova, solo nel 2017 il Noe3 ha reperito i documenti

comprovanti il fatto che non solo l'inquinamento è di carattere storico, pluridecennale, ma anche che i dirigenti dello stabilimento che si sono susseguiti nel tempo ne erano a

conoscenza almeno dagli anni Novanta.4 Ecco allora che l'evento scatenante, il momento in

cui l'agente chimico è stato imprudentemente immesso nell'ambiente, risale agli anni Settanta. Se sorvoliamo sull'episodio del 1977 trattato nel capitolo precedente, di PFAS non si è però parlato fino al 2013: a quest'anno risale la diffusione degli esiti dello studio svolto dall'Irsa- CNR, giunti così alle (poche) orecchie attente dell'opinione pubblica, soprattutto per il tramite delle associazioni ambientaliste, quali Legambiente e Greenpeace. Infine, sarà solo nel 2017 che a Lonigo il dramma prenderà definitivamente forma, quasi come se il disastro nella comune accezione di evento improvviso e repentino, chiuso in sé, coincidesse con la comunicazione dei risultati delle analisi del sangue effettuate sugli adolescenti della “zona rossa” e non con lo sversamento di inquinanti nel terreno e nelle acque. In quel momento si è verificato il vero e proprio “terremoto” interiore. Sull'aspetto prettamente cronologico si tornerà a breve, ma ciò che qui conta è la coesistenza delle due dimensioni, processuale ed istantanea, del disastro, che si alternano e si sovrappongono nella lettura complessiva della vicenda. Anche da un punto di vista tecnico, la contaminazione stessa si palesa come processo, poiché, iniziata nel passato, è attualmente in corso: nonostante le attività di bonifica all'interno del perimetro dello stabilimento, la produzione di PFAS – a catena corta – prosegue, per quanto si auspichi che lo smaltimento di reflui e scarti, avvenendo secondo precise norme di tutela ambientale, non aggravi la situazione; inoltre, il danno causato nel trascorrere dei decenni è tale per cui in termini di spazio e tempo è difficile individuare un limite al processo che dovrebbe condurre alla fine della contaminazione. È necessario distinguere a tale proposito il fatto che l'acqua dell'acquedotto, stando alle prove più recenti dell'Arpav, può essere filtrata sì da considerarla potabile, mentre per le acque di superficie e di falda si stima un centinaio di anni prima che le concentrazioni si possano dire assenti – premesso che l'immissione di PFAS venga bloccata. Nel primo caso, vi sarebbe un ritorno alla normalità, che tuttavia non coinciderebbe affatto con la definitiva soluzione del problema. Entrambi gli scenari contribuiscono infatti a mantenere attiva la dinamica del disastro, nel

3 Nucleo Operativo Ecologico, è un reparto dell'Arma dei Carabinieri. 4 Noe 2017: 3-5.

momento in cui interagiscono con le varie componenti sociali – la cittadinanza “comune” in particolare – ed alterano le loro abitudini quotidiane, intaccando il sistema di significato cui fanno riferimento.

Per entrare nel dettaglio delle cronologie dei miei interlocutori, le ho fin dall'inizio considerate cruciali per la comprensione del caso di studio, tematizzandole in ogni intervista o conversazione svolta. Ciò con cui mi sono dovuta scontrare, tuttavia, è stata la molteplicità di riferimenti temporali esistenti su più piani, dalla dimensione individuale a quella della collettività ristretta; da quella della politica a quella storica della fonte di inquinamento. Ognuno di essi ha un ritmo ed un'incidenza differenti, un moto vario ed altalenante, che si riflette in maniera diseguale nella concretezza del quotidiano. Vi sono i tempi “oggettivi”, scritti sulla carta, e la versione personalizzata, approssimativa degli stessi, quella interiorizzata dai singoli, secondo le loro percezioni e priorità.

In primo luogo, il tempo più lento, sommesso, insospettabile dello stabilimento Miteni di Trissino, che, in attività costante dagli anni Sessanta, di proprietà in proprietà arriva ad oggi, momento in cui il futuro si fa più incerto, in balia degli esiti dei procedimenti legali in corso. Per la gente “comune” ciò che ha assunto importanza non è generalmente una data precisa in sé, quanto più il lungo arco di tempo, più di quarant'anni, durante il quale ha avuto luogo la contaminazione, e che viene percepito come aggravante nella narrazione di quest'ultima: non è la misura aritmetica in quanto tale a pesare, ma la portata emotiva di un periodo esteso che coinvolge e rimette in discussione la memoria storica di tante persone. Molti interlocutori risalgono ad un passato non lontano, ma percepito come tale, che solo ora ritrova una collocazione prossima agli eventi più recenti, come se una nuova trama fosse stata tessuta nel bagaglio esperienziale di ognuno. Proprio quegli anni, compresi tra il 1960 e il 1980, sono il contenitore di un comune sostrato di racconti, ricordi ed eventi, aspetti spesso nominati in quanto componenti intrinseche della dimensione del “microcosmo”.

In secondo luogo, si possono distinguere i tempi burocratici, della politica e della ricerca medico-scientifica, di molto sfasati rispetto a quelli richiesti dai cittadini. Più volte ripreso, soprattutto da Michela, il concetto di “emergenza”5: essendo lei infermiera sa bene cosa

significhi, mentre i referenti istituzionali pare che ne abbiano una visione distorta, visti i quattro anni trascorsi dalla dichiarazione di inquinamento presente e l'avvio dei primi

interventi, peraltro di solo tamponamento, tramite l'apposizione di filtri a carboni attivi, e non di risoluzione del danno. «[...] l'emergenza l'era le fonti pulite, cosa vuol dire “emergenza” a

casa tua? Non so, quatro ani?... questa l'è l'emergenza? Par fortuna che l'è emergenza...».6 A

cospetto del presidente della Regione e dei suoi assessori, il giorno 6 settembre 2017, sembrano farsi più comprensibili, concreti e realistici questi tempi prolungati, data la lentezza delle comunicazioni tra la giunta e il governo centrale, le discussioni e i progetti da elaborare, gli enti da coordinare. Ad ogni modo, i singoli genitori partecipanti, provenienti dai vari comuni della “zona rossa”, hanno raggiunto un grado di sfiducia nei confronti dei decisori istituzionali tale da rafforzare la loro corazza rispetto a quelle che suonano come giustificazioni della propria negligenza. In altri contesti, nello specifico quelli più formali di incontro pubblico con esponenti politici di varia levatura, tale disarmonia si è manifestata in modo implicito, meno diretto: erano le parole delle due controparti a lasciare intendere una radicale differenza nella percezione del tempo. L'emergenza vera e propria, tarata su giorni e settimane; e l'emergenza, per altro non dichiarata, delle istituzioni dubbiose sui rispettivi poteri decisionali e sulle proprie possibilità di intervento.

Imprescindibili sono poi quelle date, nitide ed inequivocabili, stampate sulle lettere inviate alle famiglie dei giovani sottoposti al biomonitoraggio. Ogni genitore se le ricorda bene, per quanto, nel corso del frenetico evolversi della vicenda, siano state messe da parte, in nome di un obiettivo a tutti comune da raggiungere quanto prima. La prima interlocutrice conosciuta, che avesse a disposizione le analisi, è stata Michela: per lei era il 13 marzo 2017, quando ebbero inizio le notti insonni e l'inappetenza causata dall'impatto della notizia sul suo universo di senso, che sentiva, fino a prima, tutelato dalle rassicurazioni delle istituzioni. Per pochi altri i risultati erano noti già dall'anno precedente, poiché rientranti nel primo campione analizzato, dai cui esiti si rese evidente la necessità di procedere ad uno studio sull'intera popolazione della “zona rossa” a partire da Lonigo. Tra questi, Giovanna, madre di 5 figli, tutti con valori notevolmente al di sopra della soglia minima, uno dei quali è stato mio interlocutore per una chiacchierata informale, che purtroppo non ha trovato seguito nei mesi successivi per i suoi impegni lavorativi.

Quelle date sono rimaste a significare la cesura intervenuta nelle loro vite, un cambio radicale di prospettiva, di mentalità, di abitudini e di percezioni. All'impatto immediato della

notizia, in veste di delegata dell'effettivo agente contaminante da anni presente, silenzioso ed invisibile, dentro e fuori dalle mura domestiche, è seguito il disastro come lento processo di mutamento e nascita di nuove interazioni sociali e concezioni simboliche. Quella che senza dubbio può essere definita una «ferita cronologica» è stata superficialmente ricucita grazie alla reazione “positiva”, a catena, che ha unito parte della cittadinanza scopertasi “attiva” in un gruppo solidale, seppur eterogeneo. Ciò che comunemente viene definito il “prima” di un evento catastrofico, qui non va a perdersi nella drammaticità del “dopo” ma al contrario vi si intreccia in una stretta morsa; dal “dopo” si dirama un “prima”, quasi un disastro al contrario, che procede a ritroso nel tempo, risposta ad una condizione già presente ma ai più ignota. Per questo motivo, il “dopo” risulta essere una sorta di specchio, in cui il nemico invisibile finalmente si riflette, prende forma secondo quei contorni accennati in apertura del secondo capitolo. Se da un lato, dunque, di cesura si può parlare, dall'altro potrebbe risultare più appropriato definirla una cerniera: due tempi che si uniscono, ma anche due generazioni che si scoprono condannate – genitori e figli. La dimensione che non trova collocazione sulla linea del tempo così tracciata è il futuro: sebbene qualcuno un avvenire lo veda, cupo o roseo che sia, la sensazione che ho avuto e che a mio avviso trova riscontro nella realtà dei fatti è che quello resterà ancora per lungo tempo intrappolato nel presente di questo “dopo”.

Per molti Genitori Attivi della “zona rossa” tale schema cronologico si attua ugualmente pur essendo privo del momento di impatto costituito dal riscontro della presenza di PFAS nel sangue dei propri figli. C'è chi ha aderito alle iniziative del gruppo pur dovendo attendere mesi per lo screening, avendo figli abbastanza grandi, così come altri, con bimbi ancora piccoli. Alcuni di questi, come Massimo e Laura, genitori di tre bambine, non solo avevano già da tempo le orecchie tese sulla questione e provveduto ad utilizzare acqua in bottiglia, ma hanno da subito portato il loro energico contributo al gruppo; anche Loretta, la cui figlia è stata esclusa dalle analisi poiché ancora tredicenne al tempo, non ha esitato ad unirsi. Come dire, inutile illudersi che i propri figli siano esenti dalla contaminazione solo perché non ancora sottoposti ad esami. Il ragionamento non è scontato, tanto che io stessa mi sono stupita di aver incontrato numerosi genitori scesi in campo senza la consapevolezza medica di quel fatidico numero indicante i PFAS nel sangue, ma tale è stato per alcuni miei intervistati.

Infine, una marcata differenza tra il tempo dell'“io” comune cittadino e del “noi” ambientalista. Antonella, ad esempio, da sempre immersa negli ambiti di azione di tutela del

territorio, ha sicuramente vissuto il trauma del farsi realtà di qualcosa che precedentemente era solo un sospetto, ma non era appunto digiuna di criticità ambientali più o meno gravi, oltre al fatto di avere figlie ormai grandi. Dalla sua, il condividere da molti anni paure e lotte, manifestazioni ed iniziative all'interno della dimensione gruppo, tanto da anteporre il piano della collettività di afferenza a quello personale. All'opposto, l'individualità dei comuni cittadini, trovatisi di punto in bianco coinvolti in qualcosa di ben più grande del loro ristretto nucleo di appartenenza. In definitiva, è chiaro che il tempo del disastro è tutt'altro che univoco, unidirezionale ed omogeneo; al contrario assume sfumature e percorsi tali da richiedere ampio spazio per sé. L'assenza di riferimenti diretti alle voci dei miei interlocutori risiede nel fatto che, proprio in virtù della mancanza di un momento puntuale a segnalare l'interruzione della normalità, si è trattato spesso di risposte articolate, frastagliate, fatte di cenni sparsi, rinvenibili ad ogni modo nelle versioni integrali delle interviste in appendice.