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La disciplina applicabile ai casi di esercizio individuale della funzione.

INTERESSI DEGLI AMMINISTRATOR

6. La disciplina applicabile ai casi di esercizio individuale della funzione.

La norma in esame trova, come si è visto, il suo presupposto di applicazione nell’esistenza di un regime di amministrazione pluripersonale.

L’esigenza che si intende soddisfare non è, tuttavia, specifica dei soli casi di ricorso al modello della pluripersonalità, ma al contrario possiamo definirla generale a prescindere da quale sia l’articolazione organizzativa della funzione gestoria, e dunque anche là dove essa sia esercitata individualmente. Da qui allora il sorgere dell’interrogativo, che ha caratterizzato il dibattito vuoi nell’imperio della norma del codice di commercio vuoi nella vigenza dell’art. 2391 nella sua originaria formulazione: come comportarsi nei casi in cui il

225MONTALENTI, Il conflitto di interessi nella riforma del diritto societario, in Riv. Dir. Civ., 2004, p. 247 ss.

78 soggetto che sia abilitato a esercitarne individualmente il potere di gestione sia portatore nell’operazione da compiere di un interesse interferente con quello sociale?

La soluzione più apprezzata potrebbe, se non già applicare la disposizione in via diretta, quanto meno estenderne analogicamente i principi in ragione dell’identità del tipo di problema che in tale evenienza si manifesta.

Il dilemma si pone, va detto, in due diversi gruppi di ipotesi: accanto al caso in cui l’articolazione organizzativa prescelta dai soci preveda l’affidamento della funzione gestoria ad un amministratore unico, deve essere considerata infatti anche l’eventualità che, pur restandosi nell’ambito di un sistema di amministrazione pluripersonale, l’esercizio di determinati poteri sia stato dal consiglio delegato ad un amministratore soltanto, o anche a più amministratori

ciascuno dei quali però sempre abilitato ad agire disgiuntamente dagli altri226.

a) Il caso dell’amministratore delegato: “se si tratta di amministratore

delegato, deve altresì astenersi dal compiere l'operazione, investendo della stessa l'organo collegiale”.

Il problema dell’esistenza di una situazione di interferenza tra l’interesse personale dell’amministratore delegato e l’interesse sociale rispetto ad una determinata operazione che rientri nell’ambito della delega, e rispetto al cui compimento l’amministratore è comunque legittimato a decidere da solo, è stato espressamente affrontato dal legislatore della novella, il quale lo ha risolto prevedendo a carico dell’amministratore delegato vuoi l’obbligo di comunicazione dell’esistenza dell’interferenza di interessi, da rendere negli stessi modi e con gli stessi tempi già descritti, vuoi l’obbligo di astensione dal compimento dell’operazione, ed anzi sancendo esplicitamente il principio che in tali casi la decisione, se quest’ultima possa essere o meno realizzata, deve essere rimessa all’organo collegiale.

226Il problema come detto si è presentato solo nei casi in cui la delega sia effettuata a favore di amministratori legittimati ad agire individualmente. Nel caso inverso, infatti, il problema non si pone e la disposizione dell’art. 2391 trovava e trova applicazione in via diretta.

79 La disciplina, che si applica a fronte di ogni ipotesi di delega, sia essa interna, cioè disposta direttamente dal consiglio, sia essa c.d. autorizzata dai soci o contemplata dallo statuto, appare il logico corollario dell’impostazione che il legislatore mostra di accogliere con riferimento all’amministrazione delegata. Opportuno, a mio avviso, chiarire la questione compiendo alcuni passi indietro. In materia di deleghe, il legislatore della riforma si è mosso, per così dire, in controtendenza, prevedendo che debbano essere precisati i “contenuti e limiti delle deleghe a singoli amministratori o comitati esecutivi”.

Tale scelta restrittiva sembrerebbe prestare il fianco a rilievi critici. Si potrebbe infatti ritenere contraddittoria una soluzione che, nel quadro di un generale e più volte conclamato rafforzamento dell’autonomia statutaria, restringa invece gli spazi lasciati all’autodeterminazione.

Tuttavia, appare indubbio che il problema di evitare che all’interno del consiglio si verifichi un fenomeno di concentrazione di tutto il potere gestorio in organi ristretti o addirittura unipersonali, è questione seria sia sotto il profilo di un governo efficiente dell’impresa sia di un equilibrato assetto delle responsabilità. Là dove, infatti, il consiglio deleghi tutte le proprie attribuzioni ai delegati, ad eccezione delle competenze per legge indelegabili, l’organo collegiale rischia di ridursi ad un mero simulacro, che si limita a ratificare o subire decisioni altrui, salvo poi essere eventualmente chiamato in responsabilità; ed il rischio potenziale del perseguimento di interessi in conflitto si accresce.

Una soluzione equilibrata avrebbe potuto essere allora quella di statuire l’indelegabilità delle decisioni assolutamente primarie, quali ad esempio la dismissione delle partecipazioni strategiche227. Rimane, però, il fatto che è estremamente difficile per il legislatore tipizzare la rilevanza di operazioni economiche, che, a ben vedere, solo gli operatori, in ragione delle dimensioni dell’impresa e della tipologia di attività, sono compiutamente in grado di valutare. Si sarebbe, allora, potuto introdurre una norma più flessibile, che

227MONTALENTI, Il conflitto di interessi nella riforma del diritto societario, in Riv. Dir. Civ., 2004, p. 247 ss.

80 imponesse agli statuti di rendere indelegabili le decisioni gestorie di rilevanza primaria, lasciando all’autonomia privata il compito della loro concreta individuazione.

Il legislatore, invece, ha optato per una soluzione “minimalista”, affidando ogni determinazione del contenuto delle deleghe al consiglio di amministrazione, senza neppure prevedere la facoltà di restrizioni statutarie. Una scelta che, a ragione, può esser definita riduttiva.

Di conseguenza, dalla circostanza che l’amministrazione delegato appaia come forma di articolazione della funzione gestoria che può esser liberamente adottata dal consiglio ma che non priva mai quest’ultimo dei poteri delegati che restano sua prerogativa, ne discende come del tutto coerente con quest’impostazione che l’esistenza di una situazione, quale la presenza di un interesse personale dell’amministratore delegato rispetto ad operazioni rientranti nella delega, venga considerata non solo come un elemento che genera un dovere di astensione, ma addirittura come fatto che determina il venire meno della legittimazione al compimento dell’atto, e che riconduce quest’ultima in capo al consiglio, ovvero all’organo a cui quelle competenze gestorie spettano istituzionalmente.

In ogni caso, la previsione testé trattata si riferisce ai soli casi in cui questo, l’amministratore delegato, agisca sulla base della delega e non ai casi in cui operi in mera esecuzione di una delibera consiliare228.

b) Il caso dell’amministratore unico: “se si tratta di amministratore unico, deve darne notizia anche alla prima assemblea utile”.

Opportuno, ancora una volta, ricordare il fatto che la disposizione appena enucleata venne introdotta, non in coincidenza della riforma, ma più tardi, solo con il D.Lgs. 28.12.2004, n. 310, art. 11.

Nella discrasia temporale, diverse furono le risposte, orientamenti ed opinioni che si formarono sul tema in questione.

228

CANDELLERO, Commento al d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, in Il nuovo diritto societario, diretto da COTTINO, BONFANTE, CAGNASSO e MONTALENTI, Bologna, 2004, p. 753.

81 L’opinione prevalente anteriore alla riforma, già sostenuta dal Vivante sotto la vigenza sotto la vigenza del codice di commercio, e ripresa dall’Enriques o dal

Santosuosso229, relativamente, come detto, al testo previgente dell’art. 2391,

rispondeva affermativamente al quesito dell’estensibilità delle regole dettate per il caso di amministrazione pluripersonale anche a quella monocratica, affermando che, in tale evenienza, in merito al compimento dell’operazione l’amministratore avrebbe l’obbligo di rimettere la decisione all’assemblea dei soci, ai quali sarebbe dunque da attribuire la paternità della scelta gestoria.

Soluzione, quest’ultima, non condivisibile, in quanto non considera che già nel sistema codicistico, come a maggior ragione nell’impostazione seguita dalla novella, nessun altro all’infuori degli amministratori fosse competente per la

gestione della società230.

Nell’iniziale silenzio del legislatore, la scelta fra le varie opzioni prospettate era tutt’altro che scontata e, quale che essa sia stata, non poteva che sostenersi su

delicati “equilibrismi” giuridici231. Nell’attesa che anche la giurisprudenza si

fosse pronunciata sul punto, pareva auspicabile che l’ipotesi in esame venisse appositamente regolamentata in via statutaria, prevedendo la necessaria

autorizzazione assembleare al compimento dell’operazione da parte

dell’amministratore unico o del consiglio interamente interessato, da ottenere previa adeguata informativa.

Problema o confusione, seppur da lui generato, risolto dal legislatore del 2004 nella previsione sopra elencata.

Con l’avverbio “anche” viene pacificamente inteso che debba essere informato il collegio sindacale, con la comunicazione completa delle precisazioni di cui al co.

229 SANTOSUOSSO, La riforma delle società di capitali. Autonomia privata e norma

imperative nei dd.lgs. 17 gennaio 2003, nn. 5 e 6, Milano, 2003, p. 143 s.

230 GUIZZI, Ad art. 2391, inNICCOLINI STAGNO D’ALCONTRES (a cura di), Società di

capitali, Napoli, 2004, p. 661 ss.

231 CANDELLERO, Commento al d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, in Il nuovo diritto societario, diretto da COTTINO, BONFANTE, CAGNASSO e MONTALENTI, Bologna, 2004, p. 753.

82

1, e che la stessa debba essere preventiva ed altresì motivata ai sensi del co. 2232.

Il collegio sindacale sarà così messo in condizione di prendere le iniziative, delle quali il diritto comune delle società per azioni gliene riconosce il potere.

Pare, ad altro orientamento dottrinario, che non si possa, invece, esigere che la comunicazione, oltre che motivata, debba essere anche preventiva.

È opportuno, peraltro, chiarire il significato del “curioso” riferimento “alla prima assemblea utile”. La Relazione al d.lgs. n. 310 del 2004 esprime la ratio

legislatoris con l’opportunità di garantire, ai soci, di sapere che l’amministratore

ha agito in conflitto di interessi e, di conseguenza, valutare l’effettiva bontà dell’operato, scongiurando le ipotesi alternative, come l’autorizzazione dell’assemblea ad esempio, che avrebbero snaturato le caratteristiche di assoluta estraneità ad ogni compito gestorio.

Qualora, invece, si ritenesse di dare effettivo peso alla possibilità di iniziative assembleari, “prima assemblea utile” sarebbe quella in cui l’argomento può essere messo all’ordine del giorno, con la previsione anche, nello stesso ordine del giorno, dei “provvedimenti consequenziali”.

Sulla premessa dell’applicabilità dei principi regolatori della rappresentanza in generale alla rappresentanza organica, si ravvisa nell’azione prevista dall’art.

1394 c.c. il rimedio impugnatorio utilizzabile nel caso di specie233. Ma anche

questo rimedio dovrebbe, d’altro canto, esser precluso all’assemblea dal principio dell’esclusività gestionale degli amministratori; anche l’esercizio di questa azione, infatti, competerebbe a chi succederà all’amministratore unico

responsabile234.

232MINERVINI, Gli interessi degli amministratori di s.p.a., in Giur. Comm., 2006, p. 160/I s. 233ENRIQUES, Sull’applicabilità dell’art. 1394 c.c., in www.ricerca.giuridica.com., p. 774 s. 234MINERVINI, Gli interessi degli amministratori di s.p.a., in Giur. Comm., 2006, p. 160/I s.

83

Capitolo V

ART. 2391, CO. 2, C.C.

“Nei casi previsti dal precedente comma la deliberazione del consiglio di amministrazione deve adeguatamente motivare le ragioni e la convenienza per la società dell’operazione”.

Il dovere di motivazione.

Già si è detto di come il leit motiv della disciplina dettata dal nuovo art. 2391 c.c. sia rappresentato dal rafforzamento delle garanzie di trasparenza del procedimento di formazione della scelta gestoria.

Sotto questo profilo appare, allora, affatto coerente la scelta legislativa di gravare il consiglio, chiamato a decidere del compimento dell’operazione con la quale viene a interferire l’interesse di uno o più amministratori, dell’obbligo di motivare la decisione che si va ad assumere.

Pervero, Il significato di siffatta previsione è intuitivo. Essa riprende l’idea che, laddove sia attribuito un potere di cura di un interesse altrui, sarà solo la presenza di una motivazione che, consentendo di ricostruire l’iter logico che conduce alle scelte in cui tale potere si esprime, permette di verificare la congruenza delle determinazioni assunte dall’organo alla cura dell’interesse affidatogli e, soprattutto, consente di verificare che il potere non venga esercitato in via strumentale per realizzare interessi altri rispetto a quelli alla cui cura è spesso funzionale.

Di conseguenza, si può affermare che la presenza di un dovere di motivazione rappresenti l’indice o, meglio, la base valutativa del corretto esercizio del potere

84 e del fatto che esso non sia stato strumentalizzato alla realizzazione di finalità diverse rispetto alla soddisfazione dell’interesse sociale.

Un tassello in più al mosaico della trasparenza235.

La ratio della norma sarebbe così ravvisabile nel tentativo di evitare che l’amministratore interessato ed “influente” all’interno della compagine sociale, nonostante l’adempimento degli obblighi informativi cui è tenuto, possa in pratica favorire il proprio interesse personale “guidando” la delibera consiliare nella direzione a lui più conveniente236.

La delibera, infatti, deve adeguatamente motivare non solo le ragioni, ma anche la convenienza per la società dell’operazione intrapresa. In altri termini, il dovere in esame costituisce il passaggio finale del congegno procedimentale costruito al fine di garantire che la delibera venga assunta nella maggior trasparenza possibile, ed al tempo stesso, il punto di partenza per qualsiasi controllo a posteriori della correttezza sostanziale della delibera del consiglio.

Per la verità, una voce della dottrina minoritaria 237, in aperto contrasto all’orientamento dominante, ha espresso perplessità circa l’opportunità di inserire questi obblighi rilevando che le motivazioni in parola, più che a tutelare le minoranze, serviranno soltanto ad aumentare la richiesta, come già visto, di consulenze giuridico-contabili e che esse verranno con ogni probabilità estratte dai cassetti in cui giacciono solo in caso di contenzioso, senza peraltro essere risolutive a tal fine. Opinione criticabile, sia ricordando la riconducibilità dell’obbligo alla generale valorizzazione del principio di trasparenza ad opera della riforma, di cui ne è corollario il fatto che “la responsabilità si ricostruisce in base a documenti, informazioni e dichiarazioni”238; sia sulla base del fatto che

235

BLANDINI, Conflitto di interessi ed interessi degli amministratori di società per azioni:

prime rilfessioni, in Riv. Dir. Civ., 2004, p. 406 ss.

236

CANDELLERO, Commento al d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, in Il nuovo diritto societario, diretto da COTTINO, BONFANTE, CAGNASSO e MONTALENTI, Bologna, 2004, p. 755 s.

237

ENRIQUES, Afef e la pulce della società per azioni, relazione al Convegno il nuovo diritto

societario fra società aperte e società private, Varese, 2002, p. 3.

238

MONTALENTI, L’amministrazione sociale nella riforma del diritto societario, relazione al Convegno Verso il nuovo diritto societario. Dubbi ed attese, Firenze, 2002, p. 247.

85 non ragiona tanto sull’obiettivo della norma, che è pacifico ed inopinabile, quanto più sulla possibilità di “bypassare” il sistema dalla norma introdotto. In ogni caso, la legge richiede una motivazione circa “le ragioni e la convenienza per la società dell’operazione” e prescrive che essa sia “adeguata”.

La “convenienza per la società dell’operazione” è traducibile come rispondenza o non contrarietà dell’operazione all’interesse sociale.

Il requisito della necessaria indicazione anche delle “ragioni” confluisce sempre nella “convenienza” ed esprime l’esigenza che la motivazione possa essere successivamente apprezzata, giudicata dai terzi ed eventualmente dal giudice nel più ampio quadro possibile ed imitando così il giudizio già posto in essere dal consiglio.

Leggitimo, dunque, credere che nella delibera debba essere quanto meno indicata la funzionalità dell’operazione al perseguimento dell’oggetto sociale e l’utilitas economica della medesima per la società.

Meno univoco è, invece, il significato attribuibile al requisito dell’adeguatezza della motivazione. “Adeguata” è, infatti, espressione priva di significato senza un termine di riferimento, che può essere individuato, o perlomeno è così che si è tentato di ricostruire239, nel modello di disciplina che il legislatore abbia ritenuto di adottare. È ivi possibile riconoscere, per ricollegarci ad un discorso fatto in precedenza240, un modello di disciplina maggiormente rigoroso, o comunque meno blando rispetto al passato, stante il fatto che la “motivazione” dovrebbe contenere anche un resoconto del riesame critico che il consiglio offre della “natura, termini, origine e portata” dell’interesse.

Attribuire, o cercare di farlo, un significato al termine in discorso è, però, affar serio. Il legislatore, infatti, non si accontenta dell’esistenza di una motivazione quale che sia, ma richiede che la stessa rappresenti in forma “adeguata” le ragioni che inducono a stimare opportuno e conveniente il compimento dell’operazione.

239 MAFFEIS, Il “particolare rigore” della disciplina del conflitto di interessi nelle

deliberazioni del consiglio di amministrazione di società di capitali, in Riv. Dir. Comm., 2004,

p. 1065 s.

86 Il cuore del discorso sta, quindi, nell’individuazione di un determinato grado di analiticità che essa, la motivazione, debba possedere affinchè possa dirsi l’obbligo adempiuto e dunque non possa venir messa in discussione la validità della deliberazione consiliare. E ciò, atteso il carattere eminentemente relazionale del concetto in questione (art. 2391, co. 3), non appare di certo agevole.

Proprio in virtù di tale considerazione apparirebbe preferibile ritenere che il riferimento alla adeguata motivazione debba essere inteso, non già come espressivo dell’intenzione del legislatore di richiedere un contenuto minimo di quest’ultima, quanto piuttosto rimarcare il fatto che l’esigenza di adeguatezza della motivazione possa dirsi soddisfatta quando la deliberazione sia connotata da una propria coerenza interna che permetta di ricostruire l’iter logico degli argomenti e dell’itinerario seguito dal consiglio per addivenire all’adozione di quella determinata scelta gestoria, ed identificare, ancorché essi non siano formalmente esplicitati, i parametri utilizzati per la formulazione del giudizio di convenienza241.

Così, seguendo la dottrina prevalente242, si può affermare che il riferimento all’adeguata motivazione presupponga la “correttezza” della motivazione stessa, attribuendo un significato di “congruità” e, dunque, di “coerenza” al termine “adeguato”, sulla base della definizione della parola in questione offerto dal vocabolario243.

A confermare la tesi244 appena esposta sta anche la circostanza che nell’interpretazione dell’art. 2501 quinquies c.c.245 (nella sua originaria formulazione) si riteneva non “adeguata” la motivazione quando avallasse

241 GUIZZI, Ad art. 2391, inNICCOLINI STAGNO D’ALCONTRES (a cura di), Società di

capitali, Napoli, 2004, p. 658 s.

242 BLANDINI, Conflitto di interessi ed interessi degli amministratori di società per azioni:

prime riflessioni, in Riv. Dir. Civ., 2004, p. 421.

243

Così ZINGARELLI, Vocabolario della lingua italiana, Bologna, 2000.

244 BLANDINI, Conflitto di interessi ed interessi degli amministratori di società per azioni:

prime riflessioni, in Riv. Dir. Civ., 2004, p. 421 ss.

245 Il quale prescrive che il parere degli esperti in tema di fusione deve esprimersi anche sull’adeguatezza dell’iter logico seguito per la determinazione del rapporto di cambio.

87 “quelle scelte apodittiche, logicamente contraddittorie, estranee ed ingiusitifcate rispetto alle esperienze ed opinioni sostenute dai tecnici del settore”246.

Pervero, si può affermare che ogni qual volta in cui sia richiesto dalla legge un siffatto obbligo, sia indubitabile che tale motivazione debba essere “adeguata”, e sia scorretta, illogica o contraddittoria qualora difetti di tale requisito; né si potrebbe mai ipotizzare che, se è prescritto un obbligo di motivazione, la mera presenza di questa, anche se priva dei caratteri ora accennati, determini l’adempimento del dovere legale.

Pertanto, laddove la deliberazione, pur motivata, sia orientata in senso opposto a quello imposto dalla soddisfazione dell’interesse sociale, così privilegiando quello personale, la stessa sarà impugnabile per carenza in punto sostanziale del requisito dell’adeguatezza.

Diversa è la ricostruzione che ci offre il Candellero247 per il quale il criterio della mera razionalità della delibera (c.d. business judgment rule) non sembra sufficiente per il caso in cui uno degli amministratori sia portatore di un interesse proprio o per conto di terzi nell’operazione, risultando, per così dire, a maglie troppo larghe. Più opportuno pare allora adottare il criterio della ragionevolezza della delibera da valutarsi ex ante248.

Tuttavia, non di rado vi è più di una scelta gestionale ragionevole, specie in una prospettiva ex ante, e, delle motivazioni in astratto adeguatamente motivabili, una può essere coincidente con l’interesse dell’amministratore interessato e l’altra confliggente con questo. Si ritiene, quindi, coerente con i principi cui è ispirata la nuova formulazione della norma che la motivazione per essere adeguata, oltre ad apparire ragionevole sulla base di un giudizio di prognosi postuma, debba comunque tenere conto di quanto comunicato dall’amministratore interessato in adempimento dei suoi doveri di disclosure, prendendo esplicitamente posizione sul suo contenuto al fine di chiarire se la

246MARCHETTI, Appunti sulla nuova disciplina delle fusioni, in Riv. Not., 1991

, p. 35.

247 CANDELLERO, Commento al d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, in Il nuovo diritto societario, diretto da COTTINO, BONFANTE, CAGNASSO e MONTALENTI, Bologna, 2004, p. 755 s. 248Criterio ovviamente più stringente rispetto a quello della razionalità.

88 delibera sia stata assunta nell’esclusivo interesse della società; senza che ciò implichi che la scelta compiuta debba per forza essere quella meno favorevole