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II.IV I discorsi culturali nell'Inghilterra fin de siècle I Il discorso culturale sulla degenerazione

II.IV.III Il discorso culturale sulla follia

La scoperta di una connessione tra lo stadio terminale della sifilide e la malattia mentale, in un momento in cui la ricerca psichiatrica inglese era orientata sulle direzioni marcatamente positiviste che tendevano ad associare ogni caso di follia a cause fisiche ed ereditarie, ebbe un profondo impatto sulle concezioni psichiatriche del tempo, le quali videro in questa compresenza di fattori una conferma che ogni disturbo mentale affondasse le sue radici unicamente nella biologia e nell'ereditarietà, e non nel tessuto culturale che presiede alla formazione dell'individuo. La malattia mentale, come la sifilide, aveva per questi medici un'unica ragione, quella meramente fisica, ed era già percettibile nel corpo del paziente alla nascita, anche se determinati ambienti e alcune abitudini

potevano contribuire alla sua manifestazione. Così gli psichiatri inglesi della fin de siècle applicarono al discorso sulla follia una serie di rigidi principi scientifici, insistendo sulla convinzione che qualsiasi episodio di follia fosse provocato da cause prettamente fisiche.87

Appoggiandosi sul modello evolutivo darwiniano e sul modello degenerazionistico elaborato dai dissidenti di Darwin, gli psichiatri di fine Ottocento concordarono che il malato di mente incarnava i tratti del degenerato per eccellenza. Come nel caso dei criminali, un abile psichiatra sarebbe stato in grado di identificare gli indizi della follia su ogni essere umano sospettato di essere disturbato. Questi segni, come nel caso dei malfattori, erano presenti fin dalla nascita e lasciavano poco spazio al libero arbitrio dell'individuo. La figura professionale che si erge a rappresentante di questa cupa visione dell'uomo è lo psichiatra inglese Henry Maudsley (1835-1918), editore del Journal of Mental Science, il cui tetro pessimismo dominò la scena della psichiatria inglese della fin de siècle.

Secondo la mentalità del tempo la malattia mentale era percepita come una forma di debolezza interiore o come un difetto costitutivo trasmissibile per via ereditaria di generazione in generazione: presto o tardi il soggetto che ne portava i segni, avrebbe dovuto inabissarsi in una buia spirale che affondava nel regno diabolico della follia. Oltre a concentrarsi sull'analisi di numerosi casi di malattia della mente, gli psichiatri inglesi di questo periodo si cimentarono nell'indagine della fase in cui i disturbi iniziano a manifestarsi e alle loro cause, probabilmente motivati dal sospetto che la follia fosse un disturbo più diffuso di quanto a prima vista apparisse. Così questi studiosi si soffermarono su quei territori liminari noti come “borderland,” quella terra di mezzo tra la sanità mentale e la malattia interiore in cui risiedono “latent brain diseases” e “seeds of nervous disorders:”88 solo un abile esperto sarebbe stato in grado di riconoscere tra tutti quegli individui che

portavano i segni di una serie di disordini nascosti. Mortimer Granville divise questa terra di mezzo in tre sotto-territori, denominati “Driftland,” “Mazeland” e “Dazeland,” associando in particolare il primo di questi a quei giovani delle classi più elevate che lasciavano inaridire le proprie facoltà fino a lasciarle lentamente disintegrare.89

Come nel caso delle donne criminali descritte da Lombroso, i segni della follia risultavano particolarmente marcati nei soggetti di sesso femminile, i quali divennero presto gli oggetti su cui maggiormente si concentrarono tanto le ricerche di medici quali Maudsley e L. Forbes Winslow quanto gli esperimenti perpetrati nei manicomi. La letteratura scientifica del tempo era prodiga nell'associazione dei sintomi della malattia mentale con i discorsi dominanti della degenerazione della specie e con il rischio di incursione nella sterilità; in particolar modo essa tendeva a

87 Cfr. Showalter, The Female Malady, pp. 101-112. 88 Showalter, The Female Malady, pp. 101-112.

concentrarsi su quelli che vennero intesi come il rifiuto dei ruoli assegnati alle donne da parte della natura. La follia era considerata la conseguenza della riluttanza della donna di fine Ottocento di accettare i ruoli che la natura le aveva conferito: se ripudiava l'idea di diventare la moglie, la madre e l'angelo della casa che la natura del suo corpo le aveva ordinato di diventare, ella sarebbe presto precipitata nella follia e nella perdita del potere riproduttivo. La stessa sorte spettava alle donne che avessero osato intraprendere percorsi educativi o professionali considerati prerogativa dell'altro sesso: interruzione del ciclo mestruale, sterilità e follia attendevano con ansia qualsiasi donna che avesse tentato di inoltrarsi nei territori inesplorati dello studio e della carriera. Maudsley profetizzava l'avvento di un giorno in cui “a race of sexless beings (…) undistracted and unharassed by the ignoble troubles of reproduction, shall carry on the intellectual work of the world, not otherwise than as the sexless ants do the work and fighting of the community.”90

Sembra che i medici della fin de siècle rimasero curiosamente ciechi di fronte tutta una serie di indizi riguardanti altre possibili cause del disagio lamentato da alcune donne, le quali invece sembravano rivelare piuttosto apertamente che le ragioni del loro malessere risiedessero nell'angoscia generata dai ruoli che la società attribuiva al genere femminile. Alla fine dell'Ottocento la figura dello psichiatra preferiva di gran lunga innalzare la propria voce sul “kingdom of disease” e cimentarsi in una serie di definizioni di esso, piuttosto che dare ascolto alle voci dei suoi abitanti.91

Negli ultimi decenni del XIX secolo, mentre la letteratura medica era impegnata nell'elaborazione le sue definizioni di follia, iniziava a farsi strada anche un contro-discorso di impianto femminista. Alcune donne cominciarono ad esporsi in una battaglia contro una cultura patriarcale che interpretava come malattia mentale il semplice rifiuto di ottemperare a una serie di aspettative maschili per anni nutrite nei confronti della femminilità. L'ascesa di figure femminili come la New Woman, che rivendicavano la propria indipendenza sessuale e che non rinunciavano alla formazione universitaria, fu percepita all'interno della cultura inglese come una preoccupante sfida nei confronti di tutti gli uomini impegnati nel mondo delle professioni. Così il mondo della medicina, rappresentato da soggetti di sesso maschile di impronta conservatrice, rispose a questo allarme culturale richiamando le donne a quegli ideali di sacrificio e abnegazione di sé che al tempo iniziavano ad essere messi in dubbio, minacciando che la rinuncia a questo tipo di prospettiva sarebbe stata punita dalla natura stessa delle donne, le quali, qualora avessero rifiutato i ruoli imposti loro dalla propria fisicità, sarebbero andate incontro alla malattia mentale e alla perdita della capacità riproduttiva.

90 Henry Maudsley, “Sex in Mind and in Education,” Fortnightly Review 15, 1874, p. 483. 91 Showalter, The Female Malady, p. 120.

L'ideologia di stampo vittoriano, risalendo al concetto di risparmio delle energie promulgato da Herbert Spencer, tendeva a considerare la donna unicamente in quanto madre e compagna inferiore dell'uomo e negava ad essa alcuna possibilità di investire energie nello sviluppo dell'intelletto, in quanto tale attività sarebbe necessariamente andata a danneggiare il sistema riproduttivo femminile: “what Nature spends in one direction,” minacciava Maudsley, “she must economise in another direction.”92 Di conseguenza, qualunque tentativo la donna avesse intrapreso

per andare al di là di ciò che la natura aveva in sua vece determinato, avrebbe condotto ad una progressiva perdita della femminilità, alla mascolinità, alla sterilità e alla follia. Nel caso specifico in cui le donne avessero osato accedere a forme di educazione che costituivano una prerogativa maschile, Maudsley in Inghilterra ed Edward Clarke in America prevedevano anche episodi epilettici, oltre all'arresto del ciclo mestruale, sterilità e a gravi esaurimenti nervosi.

Le repliche delle femministe della fin de siècle rispetto al discorso della medicina assunsero varie forme, a partire dalle denunce di Rosina Bulwer-Lytton e Louisa Lowe, che seguirono alcuni casi di internamento forzato su donne mentalmente sane ma indipendenti e ribelli nei confronti del patriarcato.93 Ma il principale campo di battaglia in questa drammatica guerra tra i sessi fu

rappresentato dall'arena dei manicomi: come afferma Showlater, “the most dramatic battle took place within the doctor-patient relationship, as nervous women and nerve specialists clashed over the relationship of sex roles to sick roles.”94

Gli psichiatri distinsero il complesso dei disordini mentali femminili in tre principali categorie – anoressia, isteria e nevrastenia – ma in ciascuno di questi casi essi si rifiutarono di indagare le seppur evidenti ragioni culturali che le donne denunciavano attraverso i loro disturbi, per concentrarsi invece su concezioni prettamente fisiche delle patologie. Nel caso dell'anoressia sembrò infatti sfuggire ai medici la maniera in cui le pazienti si riducessero a quelle piccole donne tanto celebrate dalla cultura vittoriana, così come essi ignorarono che il rifiuto del cibo potesse rimandare ad una lamentela nei confronti di un'altra forma di fame: quel digiuno morale ed intellettuale denunciato nella Cassandra di Florence Nightingale alla fine degli anni Settanta dello stesso secolo.95

La definizione dell'isteria gioca un duplice ruolo all'interno del discorso psichiatrico inglese di fine Ottocento in quanto essa era strettamente associata alla concezione della femminilità e della

92 Maudsley, “Sex in Mind and in Education,” p. 466.

93 Cfr. Alex Owen, The Darkened Room: Women, Power and Spiritualism in Late. Victorian England, Virago Press,

1989 e Judith R. Walkowitz, City of Dreadful Delight: Narratives of Sexual Danger in Late-Victorian London, University of Chicago Press, Chicago, 1992.

94 Showalter, The Female Malady, p. 127.

95 Florence Nightingale, Cassandra, ed. By Myra Stark, Old Westbury, New York, Feminist Press, (1852)1979, pp. 41-

sessualità femminile: erano esattamente la mutevolezza e la vaghezza associate al disturbo dell'isteria gli elementi considerati a fondamento dell'enigma dell'eterno femminino. Pykett, in The 'Improper' Feminine ricorda che “hysteria was both a degenerate form of [a woman's] natural affections”, ed un sintomo di “women's attempt to resist their traditional roles and ape those of men.”96 Le caratteristiche principali dell'isteria erano le crisi convulse ed il globus hystericus, o la

sensazione di soffocamento, che i medici interpretarono come un sintomo di repressione sessuale. Eppure, la causa principale alla quale l'isteria era associata nella letteratura medica darwiniana era la “faulty heredity exacerbated by the biological and social crisis of puberty.”97 Ai medici del tempo

risultava dunque più plausibile che questo disturbo risultasse da fattori meramente ereditari piuttosto che riconoscere il forte senso di disagio che le donne del tempo provavano rispetto alle aspettative che la cultura patriarcale nutriva nei loro confronti. Per Showalter, la letteratura medica del tempo sembrava semplicemente sfuggire che “[w]hen the hysterical woman became sick, she no longer played the role of the self-sacrificing daughter and wife.”98

La nevrastenia, diffusasi originariamente in America e solo più tardi in Inghilterra, nonostante con l'isteria condividesse la maggior parte dei sintomi, era considerata una forma di patologia più raffinata delle teatrali forme che l'altro disturbo tendeva ad assumere. Rispetto alle isteriche, che solitamente mostravano atteggiamenti aggressivi e ribelli, le pazienti affette da questa forma di nevrosi si rivelavano persone distinte, cooperative e altruiste. Spesso di buona famiglia, educate e appartenenti alla classe media, le nevrasteniche erano donne colte affette da sintomi poco invadenti: “blushing, vertigo, headache, and neuralgia (...) insomnia, depression and uterine irritability.”99 Il medico Margaret Cleaves pubblicò anonimamente un interessante scritto intitolato

Autobiography of a Neurasthene in cui ella denunciava che le cause del disturbo risiedevano nell'incapacità della società americana di venire incontro alle ambizioni delle donne delle nuove generazioni.100 Il trattamento previsto per i casi di nevrastenia, prescritto per la prima volta dal Dr

Silas Weir Mitchell nel 1873, era conosciuto con l'espressione di “rest cure,” che consisteva in periodi di isolamento, massaggi, immobilità e dieta regolare. In questo regime, alle pazienti che si rifiutavano di venire a patti con i propri corpi, non restava altro che confrontarsi con la propria fisicità. Ma se da una parte questa strategia curativa tendeva a rivelarsi efficace, dall'altra essa mostrava anche una serie di forti implicazioni di carattere misogino: Mitchell si ostinava infatti ad

96 Pykett, The “Improper” Feminine, The Women's Sensation Novel and the New Woman Writing, Routledge, London

and New York, 1992, p. 141.

97 Showalter, The Female Malady, p. 130. 98 Showalter, The Female Malady, p. 133. 99 Showalter, The Female Malady, p. 134.

100 Cfr. Barbara Sicherman, “The Uses of a Diagnosis: Doctors, Patients, and Neurasthenia,” Journal of the History of

isolare le sue pazienti allontanandole dalla propria famiglia, e, esercitando sulle loro menti un potentissimo carisma, egli tendeva nuovamente a ridurre queste donne ad uno stato di dipendenza quasi infantile.101

Quando la nevrastenia fece la sua entrata nel dominio psichiatrico inglese, questa patologia andò a coprire il disturbo fino ad allora noto come “nervous weakness.” Come nel caso delle pazienti americane, le nevrasteniche inglesi erano giovani donne benestanti e di discreta cultura. Similmente alle americane, queste inglesi erano donne raffinate, gradevoli ed eleganti. Ma a differenza dei colleghi di oltreoceano, i quali nutrivano una certa fiducia nei confronti delle loro nevrasteniche, gli psichiatri inglesi si concentrarono principalmente sul tentativo di smascherare gli stratagemmi che a loro avviso venivano messi messi in atto dalle pazienti, per ristabilire il diretto controllo del medico sulle donne attraverso una serie di punizioni fisiche e morali. In Inghilterra la “rest cure” fu introdotta nel 1880, quando il dottor W. S. Playfair tentò di sostituire a tale politica dei castighi il trattamento americano. Agli occhi di questo specialista e dei suoi seguaci le nevrasteniche non erano più considerate delle abili dissimulatrici, bensì “a model of ladylike deportment and hyper-femininity, a paradigm of that wasting beauty that the late-Victorians found so compelling. Like the consumptive,” afferma Showalter, “the neurasthenic woman was spiritualized, incorporeal, and pure.”102

Dalle due sponde dell'Atlantico, anche le femministe reagirono in maniera diversa nei confronti delle implicazioni dovute alla “rest cure:” nel racconto “The Yellow Wallpaper” la scrittrice americana Charlotte Perkins Gilman lancia una feroce invettiva nei confronti di Mitchell, incarnato dalla figura del marito/medico della protagonista, la quale riesce a liberarsi dai suoi trattamenti al prezzo della propria salute mentale; in Inghilterra, con A Dark Lantern di Elizabeth Robins, la “rest cure” assume valenze opposte rispetto al racconto di Gilman, e qui la figura del medico si trasforma in quella di un amante e salvatore, il quale consente alla paziente di riscattarsi dalle frustrazioni della sua precedente esistenza. Più vicino alle aspre critiche di Gilman si rivelerà invece The Heavenly Twins di Sarah Grand, oggetto di questo studio, in cui l'eroina sarà progressivamente devitalizzata in seguito alle cure protratte sul suo corpo e sulla sua mente da parte del suo marito/medico.

Oltre alla nevrastenia, un altro disordine mentale fece la comparsa su entrambe le rive dell'Atlantico: negli anni Novanta dell'Ottocento, a Boston, il dottor Morton Prince aveva indagato un paio di casi di pazienti affette da “multiple personality,” conosciute sotto gli pseudonimi di “Miss Beauchamp” e “B.C.A.,” le cui vicende riflettono l'incontrollabile desiderio di ribellione e la

101 Cfr. Showalter, The Female Malady, pp. 139-40. 102 Showalter, The Female Malady, p. 140.

violenta repressione che sia il soggetto stesso che la società esercitano sul desiderio di emancipazione femminile. Nella mente della vedova Nelly Bean, nota come “B.C.A.,” una donna dilaniata tra la necessità di trovare un nuovo marito e il desiderio di rimanere un essere libero e indipendente, si alternavano due diverse identità, una dimessa e rassegnata di fronte alle esigenze della società in cui ella viveva (A) e una giovane, vivace, leggera e noncurante del giudizio delle persone che la circondavano (B). Entrambe queste personalità furono soppresse durante la terapia, in seguito alla quale il dottor Prince fece emergere una terza dramatis persona (C) risultante dal compromesso tra le altre due e, sotto questa nuova veste, Nelly Bean per anni lo seguì in qualità di assistente. Come B.C.A., “Miss Beauchamp,” il cui vero nome era Clara Norton Folwer, alternava una personalità passiva e tendente all'abnegazione di sé (“She”) ad una più fresca, giovanile e disinibita (“Sally”). Ancora una volta, entrambe queste espressioni furono soppresse dallo specialista Prince, il quale, dopo il trattamento, vide la sua paziente frequentare il Ratcliffe College e scendere ai patti matrimoniali con un neurologo di Boston.103

Se le ricerche di Prince risalgono agli ultimi anni del XIX secolo, già nel 1886, sull'altra sponda dell'Atlantico, il Journal of Mental Science aveva introdotto nel mondo della ricerca inglese il caso di “Louis V.,” un paziente del Rochefort Asylum, il cui stato di “morbid disintegration” aveva affascinato i medici francesi: a partire dall'adolescenza, “Louis V.” aveva sviluppato una serie di sintomi nevrotici, per cui da “quiet, well-behaved, and obedient,” egli improvvisamente si trasformava in un individuo “violent, greedy, and quarrelsome.”104 Il paziente fu curato tramite

ipnosi e, dopo il trattamento, rimase immemore della sua seconda personalità. Showlater suggerisce che in Inghilterra la pubblicazione di questo caso ispirò The Strange Case of Dr. Jekyll and Mr. Hyde di Robert Louis Stevenson, pubblicato nello stesso 1886.105 La letteratura femminista non

resterà indifferente a queste suggestioni e, come vedremo in particolare nel caso di Sarah Grand, ripercorrerà, secondo una modalità più distintamente femminile, le scissioni che animarono la coscienza del protagonista del testo di Stevenson.

Mentre la psichiatria inglese era ancora impantanata nelle derive positivistiche del post- Darwin, un significativo passo avanti fu compiuto a Vienna nel 1895 con la pubblicazione di Studies on Hysteria da parte di Sigmund Freud e Joseph Breuer, in cui, grazie all'aiuto di Bertha Pappenheim, più nota con il nome di “Anna O.,” fu inventata la “talking cure,” in cui il medico ascolta attentamente le storie narrate dalla sua paziente, inoltrandosi, sotto la sua guida, nei territori inesplorati dell'inconscio femminile. Secondo Showalter, dopo tanto silenzio, “with the case studies of Joseph Breuer and Sigmund Freud, women's voices, stories, memories, dreams, and fantasies

103 Cfr. Showalter, Sexual Anarchy, pp. 121-23.

104 Cfr. Frederic W. H. Myers, “Multiplex Personality,” The Nineteenth Century (November 1886), pp. 648-66. 105 Cfr. Showalter, Sexual Anarchy, p.105.

enter the medical record.”106 Freud e Breuer ebbero anche il merito di focalizzare su “the repetitious

domestic routines, including needlework, knitting, playing scales, and sickbed nursing, to which bright women were frequently confined, as the causes of hysterical symptoms.”107 Pykett è

decisamente più critica riguardo alle dinamiche stabilitesi tra medico e paziente che un'attenta analisi di Studies on Hysteria rivela: “[t]he case histories can be seen as a contest about narratives, about whose story is being told, and what story is being told.” Se, da una parte “the female patients are not in control of their own stories, which emerge as a series of fragments which they shore against their ruins,” dall'altra lo psicoanalista “aspires to be a masterly narrator in the mould of the omniscient narrator of the nineteenth-century novel,” il quale “seeks to order all the different narratives and subsume them to his own;” eppure, nonostante il tentativo maschile di mantenere intatto il filo della narrazione, “the stories keep running away from him; his narrative is full of lacunae and unanswered questions.”108 Luke Thurston si spinge oltre, evidenziando come, sia alla

base delle osservazioni estetiche che delle conclusioni teoriche pronunciate dal padre della piscoanalisi, si nascondesse una tendenza verso il processo di "traduction," ovvero, in termini lacaniani, "the urge to recuperate, render legible and comprehensible the excessive force of what disrupts, defies representation."109

Rispetto alla storia di Bertha Pappenheim, la critica femminista si mostra più unanime nella considerazione dell'atteggiamento assunto da Freud nel caso della sua paziente Dora, il cui vero nome era Ida Bauer: l'attitudine almeno apparentemente liberale che lo psicoanalista talvolta