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QUELLE DODICI GAVETTE DI GHIACCIO

Nel documento Sandro Pertini (pagine 117-122)

Domenico De Filippis;

il fante Pasquale Conte, morì prigioniero in Germania nel maggio del 1945;

l’unica salma riportata in Italia è quella del fuciliere Giovanni Fedele.

Tutti gli altri dispersi o morti e probabilmente sepolti in fosse comuni nei terrificanti gulag-lager russi come Tambov, Suzdal, Gubaka.

Dei dodici sappiano ancora che con Giovanni Fedele, almeno altri quattro militari appartenevano alle Divisioni di fanteria <Pasubio> e <Torino>, componenti il primo Corpo di Spedizione in Russia co-mandato dal Generale Giovanni Messe e che in quelle due divisioni era inquadrati tanti giovani di altri comuni della Provincia di Latina, ieri Littoria che ne hanno condiviso la sorte più orrenda: dispersi o morti nei lager per malattie terribili come tifo petecchiale, polmoniti, denutrizione, freddo. Avevano le mostrine giallorosse come questi allievi sottufficiali dell’80° reggimento <Roma> o giallo-celesti come la rappresentanza dell’82° reggimento Fanteria Torino. Da qui, muove il dovere di riservare, nel ricor-do complessivo di tutti i nostri militari che non fecero più ritorno dalla Russia, uno spaccato particolare a queste due Divisioni di fanteria che si coprirono di gloria non meno di quelle costituenti il Corpo Alpi-no o delle altre che composero l’ARMIR, ma delle quali poco si parla perché la memorialistica su quella sfortunata epopea proviene soprattutto dalle <penne nere> che riuscirono a tornare e a raccontare, come Giulio Bedeschi e Mario Rigoni Stern, cosa vissero e patirono gli italiani in quelle steppe lontane, cosa vissero e patirono quelle nostre gavette di ghiaccio nei gulag-lager sovietici.

O

norevole Sottosegretario alla Pubblica Istruzione (On. Giuseppe Pizza)

Esprimo a Lei il benvenuto della Provincia e mio personale, unendo ad esso quello dei Sindaci dei Comuni del territorio.

Analogo saluto e ringraziamento esprimo nei confronti delle Autorità religiose, civili e militari, agli studenti e ai cittadini presenti oggi a Marina di Minturno per condividere valori, messaggi, speranze che accompagnano il <Percorso della Memoria> intrapreso dalla Provincia di Latina quattro anni fa, dopo il conferimento della Medaglia d’oro al Merito Civile al proprio Gonfalone. E attraverso il quale aspiriamo a motivare nei nostri giovani un impegno profondo perché Pace, Democrazia e Libertà si radichino nella co-scienza collettiva come beni e diritti irrinunciabili dell’esistenza di ciascun essere umano ovunque nel mondo e, nell’insieme, costituiscano l’antidoto contro quella paura, quel dolore, quel lutto, che le nostre famiglie patirono quasi settant’anni fa per un figlio caduto o disperso su un fronte di guerra, o, ancora, quando eserciti contrapposti devastarono la nostra terra e l’esistenza di gente inerme che, poi, seppe resistere civilmente alla brutalità di Caino e ricostruire case, paesi, economie, ricomponendo con altrettanta dignità uno straccio di vita.

Per la Provincia, Minturno è l’undicesima tappa di questo Percorso. Ed è soprattutto il momento in cui l’intera popolazione della Provincia rappresentata dal nostro Gonfalone fregiato di Medaglia d’Oro rende omaggio alle sofferenze e alle distruzioni che questo paese subì ad opera dei tedeschi e degli alleati in quegli otto mesi di guerra che dal settembre 1943 al maggio 1944 trasformano questi luoghi in una terra di nessuno di difficile sopravviven-za per soldati e civili. Rastrellamenti, fucilazioni sommarie, bombardamenti aereonavali, cannoneggiamenti terrestri fecero scempio del centro di Minturno, di Scauri, Tufo, Tremen-suoli, Solacciano, Pulcherini, Colle San Martino, Tame, Sperone, Colle Bracchi e di quella frazione di Santa Maria Infante conquistata e persa dagli Alleati per diciassette volte con combattimenti di indicibile ferocia. Come a Castelforte e Santi Cosma e Damiano, punti nevralgici al pari di Minturno di quella Linea Gustav che la storia contemporanea ha fer-mato nell’altrui conoscenza come braciere in cui arsero migliaia e migliaia di giovani vite.

Non è un caso che il Gonfalone di questa città sia fregiato di Medaglia d’Oro al Merito Civile perché altissimo è stato il tributo di sangue pagato alla guerra e ai suoi Signori: 580 civili morti; 126 civili mutilati o comunque resi invalidi da bombe o granate: 125 militari dece-duti o dispersi su vari fronti. Di loro, dodici erano dislocati in Russia con il primo Corpo di Spedizione e poi con l’ARMIR. Vorrei ricordane i nomi:

Per gli altri caduti in mano ai russi, una sorte terribile. L’Armata rossa fu inizialmente impreparata ad accogliere così tanti prigionieri e non solo italiani. L’organizzazione dei campi fu frettolosa e con-centrata in luoghi molto lontani dalle retrovie, raggiunti dopo le lunghe e terribili marce del davaj.

In Russo, questa parola significa avanti. Le guardie di scorta la urlavano sulla testa dei nostri fanti, artiglierei ed alpini incolonnati nella neve ed esposti a sofferenze di ogni genere per percorrere fino a 600 chilometri prima di finire internati in un gulag. Chi non aveva più forza per proseguire il cam-mino, era finito con un colpo di mitragliatore. Se erano in tanti, venivano legati in burroni e sottoposti a lanci di bombe a mano. Negli intervalli delle esplosioni, le grida dei condannati coprivano il sibilo del vento gelido e pungente che sferzava i visi e la steppa. Poi, terminate le bombe, ecco i soldati russi scendere nel fondo del burrone per finire con un colpo di baionetta chi non era ancora morto. Poi, di nuovo in marcia. Per i corpi senza vita rimasti nei burroni, il candore della neve caduta nella notte avrebbe fatto da pietosa sepoltura e coperto la nefandezza dei massacri e l’altrui crudeltà.

E crudeltà conobbero i nostri militari nei campi di internamento. Sono consapevole di acuire nell’animo dei famigliari del Sottotenente della Divisione alpina <Jiulia>, Mario Vittorio Tarta-glia e di quelli dei militari di Minturno che non tornarono più dai lager russi un dolore profondo mai lenìto dal tempo. Ma sono sicuro di incontrarne la comprensione nel momento in cui il calore del nostro ricordo aspira a coniugarsi con il fine di far comprendere agli studenti e ai giovani oggi presenti cosa sia stata la guerra per i nostri genitori e come loro - più di noi, meglio di noi – pos-sano costruire, migliorandola, una società priva di paura, immune da nuove tragedie planetarie, ricca di pace, uguaglianza,libertà ed uguali opportunità per tutti.

Mario Vittorio Tartaglia venne internato a Tambov, più noto alla burocrazia militare sovietica con il numero 188. Era composto di una quarantina di bunker ricavati da uno scavo sotterraneo a cui si accedeva da uno scivolo tanto ripido da richiedere equilibrio nello scendere e forza per poterlo risalire. L’interno non aveva pareti, ma rami incastellati per contenere il terreno, dal corridoio si diramavano a destra e sinistra due terrapieni in forte pendenza e su ciascuno di essi una manciata di paglia a far da giaciglio ai militari italiani. Niente luce, niente acqua, niente latrine, niente assistenza medica, un pezzo di pane nero per tutto il giorno insieme al tè, delle specie di semolino a pranzo, una brodaglia senza alcun nutrimento la sera, fenomeni di cannibalismo, igiene inesi-stente, pidocchi ovunque. Tante persone inizialmente, la morte a far spazio in un contesto in cui l’accesso al campo avveniva completamente nudi. Non c’era filo spinato intorno al campo, ma nessuno poteva scappare.

Morivano di tifo petecchiale in seicento, settecento al giorno. Nudi, completamente nudi e a bordo di slitte, i morti venivano portati nei boschi e sepolti in fosse comuni. Così, se peggio negli altri campi di internamento: Ecco perché i resti di Mario Vittorio Tartaglia, degli altri soldati di I soldati italiani fecero il proprio dovere fino in fondo: oltre il ragionevole, oltre l’impossibile,

oltre l’umano, oltre tutto. Osarono l’inosabile! Per dovere e per onore! Ma nulla avrebbero potuto dinanzi a quel Generale Inverno che ancora prima aveva messo in ginocchio Napoleone e le sue Armate. Proprio la rigidità del clima mise presto in evidenzia l’inadeguatezza dell’equipaggiamento delle nostre truppe. Era quello della prima guerra mondiale, una guerra di posizione. Solo chi era di guardia era dotato di stivali di tela con suole di legno chiodate che rendevano impossibili i movi-menti. Le scarpe dei fanti erano di pelle di vitello ed adatte alle marce in Italia, non a quelle sulla neve con quaranta gradi sotto zero. Gli stessi cappotti di pelliccia rendevano i nostri soldati così impacciati che essi preferivano non indossarlo. Mancavano muli, cucine da campo ippotrainate per una minestra calda, le armi spesso si inceppavano per il freddo, le tute mimetiche bianche erano in dotazione solo ai comandi superiori e agli incursori del battaglione alpino <Monte Cervino>, i passamontagna si coprivano di una patina di ghiaccio creata dal vapore della respirazione e per copricapo una bustina e, in combattimento, l’elmetto.

I sovietici, invece, avevano in dotazione i famosi valenki, stivali in feltro robustissimo riempiti di paglia che si usano ancora oggi e ben isolanti, la fufajka, un giubbotto trapuntato che teneva caldi ma non impacciava i movimenti, il colbacco come copricapo, moschetti automatici con caricatori da 71 facili da costruire in qualsiasi officina meccanica contro i nostri fucili a ripe-tizione manuale modello 91 a sei colpi, carri armati T34 di straordinaria potenza e velocità, le terribili katiuscia in grado di sparare contemporaneamente sedici razzi ad una distanza di otto chilometri.

Impossibile sostenere qualsiasi tipo di confronto. E, infatti, l’Armata italiana dopo varie battaglie, fu completamente annientata con un attacco massiccio che ebbe inizio l’undici dicembre 1942:

l’operazione <Piccolo Saturno>. La superiorità russa risultò schiacciante: il rapporto era di sei ad uno per uomini e artiglierie. In 45 giorni gli italiani persero 95 mila uomini, lasciati morti o vivi in mano ai russi, riportandone a casa trentamila, feriti e congelati compresi. Durante la ritirata, il gelo, la fame, la spossatezza per la lunga marcia trasformarono gli uomini in belve al punto che non sembrava disumano, come in realtà è, che si contendessero la vita per una buccia di patata, un pezzo di pane indurito dal freddo e dai giorni, conteso, baionette alla mano, o divorato di nascosto dagli altri. Don Gnocchi, cappellano militare, ha reso crudamente il ritorno agli istinti primordiali dei nostri soldati descrivendo nelle sue memorie quel momento tragico e devastante quando vide un soldato sparare nelle testa di un commilitone che, in una capanna, non gli cedeva una spanna di terra per stendersi a dormire. Durante questa marcia fanti ed alpini furono protagonisti di sortite e battaglie spesso all’arma bianca che permisero di tornare. Ma ogni passo pareva un chilometro e ogni attimo un’ora; non si arrivava mai e non si finiva mai.

Minturno e dei centri pontini insieme a quelli di tanti altri non potranno essere più recuperati.

Per molto tempo il silenzio delle autorità sovietiche ha impedito di ricostruire la sorte dei nostri militari in Russia. Solo dal 1992 si è manifestata una certa apertura che ha permesso alla di-visione Albo d’Oro del Ministero della Difesa di confrontare i 95 mila fascicoli di militari che non fecero più ritorno da quel fronte con i tabulati forniti da Mosca e che appaiono incompleti.

Nei tabulati, figurano 64.500 nominativi di prigionieri di guerra; di questi, 38.000 si ri-feriscono a prigionieri morti nei lager, di cui 20.650 identificati; 22 mila rimpatriati fino al 1954; per altri nomi, 2.000, non è precisata la sorte; infine, vi sono 2.500, fra frequenti ripetizioni, nomi di stranieri, civili e altoatesini.

Ma in quei tabulati non ci sono i morti nella marce del davaj o nei trasferimenti in treno ammassati come bestie. Dovrebbero essere 22 mila uomini.

Da parte sua lo stato Italiano è riuscito ad esumare dai territorio dell’ex Unione Sovietica 11.601 caduti, dei quali 8.518 riposano nel Tempio Ossario di Cargnacco in provincia di Udine, dedicato alla Madonna del Conforto.

La fredda incertezza dei dati; La crudeltà della guerra; per i caduti e dispersi in Russia di Minturno e degli altri comuni della Provincia e del territorio nazionale una <croce di ghiaccio>. Per tutti loro il calore del nostro ricordo e della testimonianza di questa giornata della memoria per dire sem-plicemente che non abbiamo dimenticato e mai lo faremo. La libertà, la democrazia che viviamo è frutto di quel sacrificio che mai nessuno potrà rendere vano. E voi studenti, classe dirigente del futuro, non dovrete mai dimenticare le parole che Giovanni Paolo II ha lasciato a ciascuno di noi:

<Come al tempo delle lance e delle spade, così anche oggi, nell’era dei missili, a uccidere, prima delle armi, è il cuore dell’uomo>.

Pausa: Il Comandante della compagnia Ordina l’Attenti:

E il cuore dell’uomo, pochi giorni fa in Afghanistan, è tornato ad uccidere due nostri Alpini della Brigata <Taurinense>: il Sergente Maggiore Massimiliano Ramadù e il caporal maggiore scelto Luigi Pascazio. Per loro, unisco le mie alle vostre mani in un lungo, caloroso applauso: non vi dimenticheremo ragazzi così come non abbiamo dimenticato quanti 70 anni fa servirono il Paese e la sua bandiera risorgimentale in un’avventura senza ritorno.

TRA TOBRUK ed

Nel documento Sandro Pertini (pagine 117-122)