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TRA TOBRUK ed EL ALAMEIN

Nel documento Sandro Pertini (pagine 122-127)

per la conquista di Tobruk nel frattempo posta sotto assedio.

Nonostante l’errore strategico, le truppe italo-tedesche riuscirono a contenere l’offensiva inglese e proprio quando il Generale Cunningham avrebbe voluto ritirarsi, l’ordine di resistere e di contrat-taccare imposto dal Comandante supremo delle forze alleate, Generale Auchinlek, permise all’Ot-tava Armata di battere l’Afrika Korps e di riprendere la Cirenaica. A Sidi Rezegh e a Bir El Gobi si svolsero le fasi più cruente e sanguinose dell’Operazione Crusader, così chiamata dal moderno carro armato inglese schierato per la prima volta in quello scenario, in un rapporto di uomini, mezzi e fonti di approvvigionamento, sensibilmente a favore delle divisioni inglesi e dei Paesi del Commonwealth che avrebbe segnato tutte le fasi successive della guerra in Africa Settentrionale.

Fino a quella sera del 23 ottobre 1942, quando, sulla depressione di El Alamein, testimone una luna piena, stupenda ed indifferente, un uragano di fuoco e di ferro si rovesciò contro fanti, gua-statori, artiglieri, bersaglieri e paracadutisti italiani, segnando la riprese della battaglia estiva in un luogo dove tantissimi nostri giovani dormono per sempre tra le sabbie del deserto o in quel Sacrario vicino Quota 33 progettato e costruito da uno dei pochi che ebbe la fortuna di sopravvivere per dedicare il resto dei suoi anni alla ricerca di quanti la stessa fortuna non avevano avuto: Paolo Caccia Dominioni.

Tre soldati contro uno; sei carri armati di straordinaria potenza contro uno, fatto come gli altri, di lamiere sottili quasi fossero giocattoli; bocche da fuoco e munizioni in abbondanza contro pochi pezzi di artiglieria e proiettili razionati; truppe fresche e spesso avvicendate contro soldati dotati di cristiana fermezza, ma smagriti per la dissenteria. Un divario incolmabile. Eppure ad El Alamein, nessuno arretrò di un passo, tutti si batterono lealmente in una battaglia finale dove, sparato l’ultimo colpo, i soldati italiani si lanciarono contro i carri armati alleati con bottiglie incendiarie da loro stessi con-fezionate, innescate e gettate negli abitacoli, rotolando tra i cingoli per piazzare sotto la <pancia> dei corazzati mine magnetiche con detonatore a tempo, o semplicemente con pugnali e baionette.

Fanatismo? No. Semplicemente cuore ed orgoglio contro l’acciaio dei cannoni, una lezione di ge-nerosità all’ariana alterigia e allo snobismo neozelandese che considerava disonorevole arrendersi agli straccioni in grigioverde del Belpaese. E tanto, tanto orgoglio e dignità si sentirsi e affermarsi come italiani. Questi furono i nostri giovani ad El Alamein, le nostre Termopili. Mutuando dalle parole di Paolo Caccia Dominioni: uomini fuori commercio che scrissero pagine degne dell’Iliade.

Così è stato anche Reginaldo Rossi a Sidi Rezegh quasi un anno prima. Questo giovane rocchigia-no, che aveva lasciato famiglia e campi appena ricevuta la cartolina-precetto, aveva il coraggio e la dignità della gente semplice di questa cittadina e nei momenti in cui la battaglia in quel luogo dove la sabbia muore contro la roccia appariva un inferno di polvere, fumo, corpi dilaniati, aiuta-va i commilitoni della sua batteria a superare la paura, incitandoli di continuo come era solito fare

S

ignor Vice Presidente della Camera, (On. Rocco Buttiglione)

Eccoci di nuovo insieme in una giornata in cui il Percorso della Memoria intrapreso quattro anni fa, dopo il conferimento della Medaglia d’Oro al Merito Civile al Gonfalone della Provincia, compie la dodicesima delle diciotto tappe in programma per condividerne il significato con le comunità locali e per raccontare, attraverso storie individuali di uomini delle nostra terra che indossarono ed onorarono il grigioverde della divisa e, con esso, il Paese, fin dove si spinsero il senso del dovere e della dignità, il principio di responsabilità e lo spirito di sacrificio perché soprattutto i giovani possano comprendere quanto valga una vita, il costo della Libertà e della Pace e ne colgano il profumo con il quale accom-pagnare un’esistenza dove dovere, responsabilità, sacrificio si traducano in impegno teso a consolidare quei valori nel tempo, ma pure per migliorare le istituzioni e la società in cui viviamo.

Dunque, bentornato Onorevole Vice Presidente. E grazie per la Sua nuova testimonianza di sen-sibilità anche a nome dei Sindaci, delle Autorità civili, religiose e militari e dei cittadini di ogni età presenti, che saluto al pari di Lei.

Era il 17 novembre 1941. Le prime, enormi, gocce di pioggia cadevano sulla sabbia del deserto, men-tre migliaia e migliaia di uomini di diverse nazionalità offrivano il viso al cielo, chiedendosi se quello straordinario dono della natura sarebbe durato un attimo o più a lungo come, poi, avvenne. Così tutti cercarono recipienti in cui conservare quella manna scesa all’improvviso dalle nubi, consapevoli che, almeno per un po’, quell’acqua non avrebbe avuto il terribile sapore di ruggine e di disinfettante al quale i combattenti del deserto si erano tristemente abituati.

Esaurite le incombenze, ciascuno di quei soldati continuò a crogiolarsi sotto la pioggia, finché non ci si rese conto che l’acqua aveva ormai riempito quelle spaccature secche del terreno chiamati uadi e che, oltre al rischio di finire annegati, cannoni e mezzi da trasporto potevano finire intrappolati nel fango.

Campi da sgombrare in fretta, ordini concitati, brulicare di uomini e mezzi come formiche impazzite.

Reginaldo Rossi, caporale nel 39° Reggimento fanteria della Divisione <Bologna> era uno di loro: aveva 24 anni, non sapeva né leggere, né scrivere, zappava la terra ma sapeva il significato di quelle parole come dovere, onore responsabilità, sacrificio. E per questo è morto il 20 novembre 1941, quando, ormai circondato, rifiutò la resa e venne colpito dal fuoco dei mezzo corazzati inglesi accanto al cannoncino anticarro del quale era il servente.

L’Operazione Crusader era cominciata da due giorni, appena smessa quella pioggia incessante e la parentesi di frescura nel torrido calore nordafricano, spesso accentuato dal soffio impetuoso del ghibli. Fu una controffensiva della quale i servizi di informazione italiani inutilmente informarono Rommel, la Volpe del Deserto, poco o per nulla fiducioso verso la nostra intelligence e perenne-mente in contrasto con le nostre gerarchie, troppo preso dall’organizzazione della spallata finale

naggio ad Auschwitz, simbolo del buio della ragione e acme dell’odio razziale. Riterrei altrettanto corretto - mi corregga se sbaglio, Onorevole Vice Presidente - realizzare le condizioni perché i nostri giovani siano accompagnati in visita ad El Alamein, Bari, o altri sepolcreti in cui dormono in eterno italiani che la gioventù non vissero appieno per evitare che altri come loro non tornassero più a casa. Di loro è rimasto il nome. Dei giovani di oggi che tutto, troppo hanno, non so cosa resterà se non troviamo le parole giuste per spiegare loro che veniamo da quella gioventù spezzata da una pallottola o da una scheggia, proveniamo da quei sacrifici che si chiamano fame, freddo, privazioni degli affetti per assicurare condizioni attuali, dove, tuttavia, lo straordinario sapore della conquista sociale attraverso il sapere appare messo da parte dalla ricerca di sé nel fondo di un bicchiere il sabato sera.

Occuparci di nutrire lo spirito dei nostri giovani è per me un’emergenza. Ricominciare dai valori potrà contribuire ad invertire la tendenza al decadimento della società moderna. Nella direzione descritta non vedrei male il ripristino, fermo restando quello volontario, del servizio militare di leva coniugato con lo studio ed anticipato agli anni in cui si inizia a frequentare la scuola media superiore. Magari con l’aggiunta esplicita di una materia, teorica e pratica, dove la valutazione finale non deve essere inferiore al <Buono>.

Utopia? Deriva autoritaria? Assolutamente no! Solo una provocazione! Ma discuterne non è un male. Per i giovani, per il loro futuro e per il futuro di questa Democrazia che così tanto amiamo.

Prima di perdere gli uni e l’altra. Un altro giovane ha perso recentemente la vita per quei valori e perché dei bambini di un altro paese potessero crescere: Alessandro Romani, Ufficiale della Folgore ucciso in Afghanistan pochi giorni fa. Non chiedo altro ai giovani e a quanti stanno ascoltando queste parole se non unire le nostre mani in un lungo caloroso applauso.

in paese con la squadra di mietitori nelle assolate giornate della mietitura del grano.

Alla famiglia, secondo un triste rituale, la notizia della morte di Reginaldo venne data dai cara-binieri. Dissero che era morto abbracciato alla sua arma, come in uno dei quei racconti che per un secolo e mezzo dettero la pelle d’oca ai ragazzi delle generazioni post napoleoniche e patriot-tarde. Ma i suoi resti non sono più tornati. Giacciono raccolti in un’urna del Sacrario dei Caduti d’Oltremare di Bari, dove ogni sera una campana squarcia il silenzio del luogo intonando nove rintocchi anche in onore suo e della sua medaglia d’argento al valor militare.

Come Rossi, altri giovani dei nostri Comuni hanno lasciato la vita in Africa Settentrionale. I loro nomi figurano tra i circa 50 mila italiani di tutte le armi caduti in combattimento dal settembre 1940 al maggio del 1943 e Roccagorga ne diventa oggi il luogo simbolo al quale affidiamo il nostro commosso e deferente ricordo. Accomuniamo nel pensiero e nel monito che ne deriva, tutti gli altri militari di questa cittadina che non sono più tornati dagli altri fronti. Portano cognomi noti come Bartoli, Basilico, Bevilacqua, Cantarano, Ciotti, De Meis, Di Fazio, Ferrarese, Orsini e così di seguito. A questi morti si sarebbero aggiunti nel 1944 più di trenta civili, deceduti per spezzonamenti aerei, scoppi di ordigni bellici, cannoneggiamenti, rappresaglie. Tra loro, i fratellini Bartolomeo e Giovambattista Rossi, di 11 e 6 anni, bruciati vivi in un capanno per mano delle SS quale vendetta contro il fratello più grande, Alfiero, reo di essersi ribellato ai soprusi di due soldati tedeschi giunti a razziare bestiame.

Mi sono spesso chiesto se abbia un senso raccontare queste storie alle generazioni del presente, se il nostro modo di fare memoria e di rendere il nostro tributo ai Comuni della provincia che subirono la furia della guerra siano corretti e contribuiscano a togliere la patina del tempo a valori sui quali ho a lungo indugiato nel corso dell’intervento e che mi paiono messi da parte.

Che abbia un senso raccontare queste storie ne sono convinto al pari del fatto che la storia patria ed i suoi attori nel tempo debbano essere quotidiana materia tra i banchi di scuola e non episodico progetto in cui coinvolgere i ragazzi. Se lo facciamo nel modo più giusto, lascio ad altri valutare.

Ma, a ben riflettere, la vicenda di Reginaldo Rossi come di tanti soldati italiani e vittime civili durante i tristi e tragici anni di guerra, sono i semi della Pace e della Democrazia che il Paese vive da quasi settant’anni e della rinascita di un esercito oggi altamente professionale che onora il suo Paese in ciascuna delle missioni interne ed estere in cui è impiegato e del quale i giovani della Scuola Militare Nunziatella costituiscono uno dei più alti, qualificati e selettivi esempi di formazione e di preparazione alla vita.

Pace e Democrazia non sono beni durevoli. Hanno bisogno di alimento, testimonianza, riflessione, impegno. Così i valori su quali ho a lungo indugiato e che a mio avviso ne costituiscono l’ideale nutrimento. È certamente corretto che i ragazzi delle nostre scuole compiano l’annuale

pellegri-IL BERSAGLIERE

Nel documento Sandro Pertini (pagine 122-127)