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IL FRONTE DEL NORD

Nel documento Sandro Pertini (pagine 29-41)

Attacco aereo a Cisterna

L’affondamento del “Santa Lucia”

L’episodio più tragico della guerra pontina fu, come s’è detto, l’affonda-mento del traghetto, ed esso merita una speciale menzione, perché la storia documentale ha fatto definitiva chiarezza solo a distanza di 60 e più anni.

Vediamo come. Il “Santa Lucia” era un piroscafo di 452 tonnellate appar-tenente alla società napoletana SPAN, che collegava un paio di volte la set-timana Napoli e Gaeta alle isole di Ventotene e Ponza, dove la popolazione locale era stata notevolmente incrementata dai confinati politici là relegati dal fascismo. Il 23 luglio 1943, nel tragitto Napoli-Ventotene, la nave fu at-taccata in mare aperto, non lontano dall’isola pontina: per la verità sembra che le bombe che le piovvero a non grande distanza fossero solo gli “scarti”

di un’azione aerea condotta altrove e che gli aerei non erano riusciti a sgan-ciare e di cui si liberavano, come d’uso, lanciandole in mare. Stavolta per poco non centrarono il piroscafo, forse del tutto casualmente. La nave era riuscita ad evitare danni, e passeggeri ed equipaggio se l’erano cavata solo con molta paura. Il giorno successivo, il “postale” era partito di buonora da Ponza, dove aveva caricato 46 passeggeri - militari che lasciavano l’isola, e civili che si trasferivano sul continente. A bordo c’erano anche 24 compo-nenti dell’equipaggio; in tutto, dunque, 70 passeggeri.

Il 24 luglio, appena in prossimità del porto di Ventotene, un gruppo di aerei britannici iniziarono un nuovo attacco che, stavolta, conseguì risultati funesti: la nave fu raggiunta esattamente al centro della chiglia da un siluro lanciato da uno dei velivoli. Il piroscafo si spezzò in due tronconi ed affon-dò nel giro di una manciata di minuti – forse due o tre – del tutto insuf-ficienti per consentire alla gran parte dei passeggeri – che s’erano rifugiati nel sottoponte – e dell’equipaggio di tentare la salvezza gettandosi in mare.

Quattro delle persone imbarcate furono sbalzate in acqua dall’esplosione, tra esse il comandante Cosmo Simeone, originario di Gaeta. Immediata-mente dopo il lancio gli aerei si ritirarono. Dall’isola, dove la tragedia era stata seguita da molte persone, si staccarono alcuni battelli per un tentativo di soccorso, generoso quanto inutile. I quattro naufraghi, feriti, vennero portati a terra. Il comandante Simeone apparve subito in gravissime condi-zioni. Dato l’allarme, nel giro di qualche ora giunse nelle acque dell’isola di Pier Giacomo Sottoriva

C

i sono volute decine di anni perché le nuove generazioni comin-ciassero ad impadronirsi della esperienza della seconda guerra mondiale in provincia di Latina. Questo da un lato non deve sorpren-dere, se è vero che ancora oggi, 100 anni dopo, continuano a pubbli-carsi libri e si celebrano ricordi sulla grande tragedia dell’altra guerra, la prima. Evidentemente l’Uomo ha bisogno di una lunga macerazione, ha bisogno delle nuove generazioni per digerire il suo dolore, ha biso-gno di tempo per elaborare la memoria di quel dolore per consegnarlo ad altri, ma depurato delle angosce dell’immediatezza e trasformato in memoria consapevole, in memoria civica, o in simbolo della comuni-tà locale, come accade a Cisterna che ha sintetizzato la sua esperienza bellica nel ricordo dell’esodo forzato dell’intera sua popolazione nel giorno 19 marzo 1944. O come è avvenuto per San Felice Circeo e Ter-racina, che ricordano il 4 di maggio l’eccidio consumato dai tedeschi nel 1944 a Borgo Montenero. O come a Formia, anch’essa unita alle tragedie della guerra dal massacro di otto suoi figli nella pendice colli-nare di Costarella di Trivio consumato il 26 novembre 1943. O come, infine, accade per Ponza e Ventotene che ricordano il 24 luglio i morti per l’affondamento del piroscafo “Santa Lucia”.

La guerra in provincia di Littoria era stata ufficialmente proclamata il 19 luglio del 1943, quando la Gazzetta Ufficiale del Regno n. 165 pub-blicava il Regio Decreto 14 luglio 1943, n. 630, che disponeva che “su proposta del Duce del Fascismo, lo stato di guerra è dichiarato anche nel territorio della Provincia di Littoria”. Il Regio Decreto entrò in vigore il giorno successivo. Lo stesso giorno della pubblicazione Roma subiva il primo bombardamento aereo. Cinque giorni dopo veniva affondato il piroscafo “Santa Lucia” che collegava Napoli, Gaeta e le isole di Ponza e Ventotene: aveva a bordo poco meno di un centinaio di persone ed è rimasto il più grave delitto bellico consumato ai danni di civili. Il giorno successivo all’affondamento, il 25 luglio, il re defenestrava Mussolini a Villa Savoia. La provincia di Littoria era stata istituita meno di nove anni prima, con Regio decreto legge 4 ottobre 1934, n.1682.

In particolare, ricorda Cargnello, la base di Protville (Tunisia) fu scelta per operazioni di avvistamento e aerosiluramento nel Tirreno campano e sud laziale. L’episodio del 24 luglio appartiene a questa casistica. L’azione ebbe come protagonisti aerei britannici del tipo Beaufighter, che sganciavano da bassissima quota puntando direttamente il bersaglio navale. Una squadriglia di 8 velivoli del 47° stormo della Royal Air Force, decollò il 24 luglio 1945 da Protville alle ore 08.08 e raggiunse l’area operativa di Ventotene dopo poco meno di 2 ore di volo a bassa quota. Per una coincidenza micidiale, il

“Santa Lucia” quel giorno lasciò Ponza alle ore 08 e si trovò, quindi, presso Ventotene proprio circa 2 ore dopo, in perfetta coincidenza con i velivoli inglesi. Essi giunsero alle ore 9.58 e, come prima operazione, affondarono a colpi di mitraglia una barca a vela; quattro minuti dopo, alle ore 10.02, avvistarono il piroscafo che navigava a circa 2 miglia da Ventotene. Colori e caratteristiche della nave indussero il capo equipaggio della squadriglia a ritenere che essa fosse impiegata per la difesa costiera e valutata, erronea-mente, di una stazza tra le 1500 e le 2000 tonnellate. Poco avanti rispetto al “Santa Lucia”, in quello stesso momento, si muoveva un pontone tedesco del distaccamento di stanza sull’isola. Lo stormo si divise allora in due squa-driglie di 4 aerei ciascuna, per attaccare il pontone e la nave. Il pontone, privo di pescaggio, e non raggiungibile con i siluri, fu attaccato solo con la mitraglia e non riportò gravi danni, ed anzi, pare che rispose in qualche modo al fuoco nemico. La nave italiana, invece, fu attaccata da 2 velivoli in-caricati di aprire un fuoco di deterrenza con mitraglie, per aprire la strada ad altri 2 velivoli muniti di siluri, che vennero regolarmente sganciati. Uno di essi si perse in mare, il secondo, lanciato dal Warrant Officer A. Thomp-son, colpì in pieno la nave che esplose e affondò. Gli otto aerei, esauri-ta l’azione, ritornarono immediaesauri-tamente a Protville perché nei 10 minuti impiegati del duplice attacco avevano esaurito le riserve di carburante che garantivano l’autonomia di volo.

Dopo l’affondamento, i soccorsi in mare furono portati dallo stesso pon-tone tedesco, da due pescherecci (uno gaetano e l’altro ponzese) inviati dal comando marittimo isolano e da qualche barca locale. Va detto che la notizia partì con sollecitudine da Ventotene verso i Comandi di Roma e Gaeta, e la reazione, sia pure con la tempistica che le condizioni dell’epoca consentiva-un idrovolante allertato dalla Capitaneria di Porto di Gaeta: il comandante

Simeone fu trasferito in un ospedale di Napoli, dove il giorno successivo morì. Di quell’avvenimento si mantenne vivo il ricordo, ma scomparvero i particolari della sua storia. Ad essi si poté giungere solo quando un ricer-catore ritrovò il fascicolo dell’affondamento. Di esso si era accertata la po-sizione della nave, spezzata in due tronconi su un fondale di 40 metri a un miglio e mezzo da Ventotene; ma non si sapeva se non per approssimazione chi aveva attaccato, quanti erano gli imbarcati e come erano andate effetti-vamente le cose (v. la mia ricostruzione sul n.1 - Giugno 2010 della rivista Annali del Lazio meridionale, sotto il titolo Il lungo mistero dell’affon-damento del “Santa Lucia” a Ventotene (1943), pp. 39-45).

L’affondamento del “Santa Lucia” rimase, così, una specie di leggenda, i cui contorni reali emersero solo nel 2007, quando il Capo Sezione dell’Archi-vio storico del Comando generale del Corpo delle Capitanerie di Porto – Guardia Costiera, Giulio Cargnello, decise di fare quello che nessuno aveva fino allora fatto: cercare i documenti. Essi furono trovati tra i faldoni cu-stoditi presso il Ministero della Marina Mercantile. Egli ha anche ricostrui-to il perché e il come della presenza di quegli aerei nella scena di Venricostrui-totene, in quella calda giornata di luglio del 1943. Ed ecco i fatti.

Il piroscafo “Santa Lucia”, con la dichiarazione di guerra del 10 giugno 1940, era stato militarizzato a partire dal 25 maggio – due settimane prima che la guerra venisse dichiarata – ma era stato demilitarizzato già il 30 agosto dello stesso 1940. La militarizzazione aveva avuto un paio di conseguen-ze: la nave era stata verniciata con il tradizionale colore grigio militare e vi era stato istallato a prua un cannoncino, e l’arma era stata affidata a ben 7

“serventi”. Il cannoncino non sparò mai, ma non fu smontato dopo la de-militarizzazione della nave. Né la nave fu ridipinta con gli originali colori civili; né fu sbarcato e destinato altrove il personale militare. Quei segni di una demilitarizzazione decisa ma non portata a compimento avrebbero segnato la sorte della nave e dei suoi passeggeri. Dopo la conquista della sponda africana del Mediterraneo e lo sbarco in Sicilia (10 luglio 1943) le forze alleate avevano acquisito la possibilità di lanciare i loro attacchi aerei da piattaforme più prossime agli obiettivi della penisola italiana. Squadri-glie di caccia partivano da basi africane per ricognizioni e per portare offesa.

La molteplicità dei ricordi

La molteplicità dei ricordi singoli ha date diverse: oltre al citato 24 lu-glio, anche il 26 novembre 1943 (Costarella); il 22 gennaio (sbarco di An-zio-Nettuno) e il 4 maggio 1944 (eccidio di Borgo Montenero). La prin-cipale, dal punto di vista militare, inizia nella notte del 22 gennaio 1944.

Quest’ultima data fa parte del tragico calendario internazionale degli eventi della II guerra mondiale, perché in quella notte 374 navi da guerra alle-ate scaricarono sulla costa tra Littoria, Nettuno, Anzio e Tor San Loren-zo, migliaia di uomini per uno degli sbarchi più fulminei, sorprendenti e fortunati della seconda guerra mondiale. La molteplicità del ricordo di quell’anno si forma a Cisterna con la discesa della popolazione nelle grotte, cominciata la domenica 23 gennaio.

Una giovane Provincia disastrata

Ma la guerra in Agro pontino era iniziata, come s’è detto, già nell’estate del 1943. Questo significa che la giovanissima Provincia affrontava la guerra nelle peggiori condizioni possibili. La bonifica delle Paludi Pontine non era consolidata (i tedeschi, dopo l’8 settembre 1943, avrebbero impiegato pochi giorni per sabotarne i punti vitali); la malaria non era stata eradicata, non era consolidato il quadro sociale che nasceva dalla bonifica, né quello am-ministrativo che scaturiva dal nuovo assetto istituzionale: la provincia di Lit-toria, insomma, viveva una vita che ancora non le apparteneva. Le sue sorti erano decise altrove: nel gabinetto di Mussolini (confini da ritoccare, città da fondare, borghi da creare), negli uffici tecnici e di vigilanza dell’ONC (gestione delle aziende agrarie e dei poderi assegnati), e nelle stanze del Pnf, dove si decideva quali contadini fossero affidabili, giacché nei contratti colonici, dopo il 1936, tra le cause di rescissione del contratto in danno del colono, fu introdotto il parametro della “indegnità politica”, il cui giudizio era rimesso ai “competenti organi di partito”. La giovanissima Provincia, soprattutto la parte più nuova, quella settentrionale, affrontava insomma la guerra in condizioni se possibili anche più gravi.

Subito dopo l’8 settembre, i tedeschi predisposero un piano per contenere no, fu buona. Ai primi soccorsi si aggiunsero quelli del Mas n. 13 Medolino,

di un idrovolante partito da Napoli, che poi imbarcò il comandante Sime-one, e, più tardi, della corvetta Euterpe e della torpediniera Ardimentoso.

Da questo momento l’evento bellico diventa una pratica burocratica. La Capitaneria conclude la sua inchiesta 6 giorni dopo, il 31 luglio, acqui-sendo tutti i nomi delle persone imbarcate, “ma la conclusione della pratica fu interrotta e i documenti dispersi”, perché, come è noto, il 25 luglio era avvenuto l’arresto di Mussolini, e il 27 il suo avvìo prima a Ventotene poi a Ponza. Di conseguenza, conclude Giulio Cargnello:

“I parenti non saranno mai avvisati ufficialmente della perdita dei loro cari”. Scampati all’affondamento, oltre al comandante Simeone, fu-rono il “giovanotto” (ossia il mozzo) Luigi Ruocco di Castellammare di Stabia; il fante Fernando Capoccioni, di Roma, gravemente ferito e trasferito a Napoli; il carabiniere Vincenzo Moretti, di Palestrina; e Francesco Aprea, di Ponza. Il mare, poi, restituì i cadaveri del fuochista Giuseppe D’Esposito di Castellammare di Stabia, e del carbonaio Ettore Albanelli di Napoli. Degli altri, nulla. E perché i familiari delle vittime non furono avvertiti? La ricostruzione fatta da Cargnello è puntuale:

la Capitaneria di Porto di Gaeta non provvide, con tutta probabilità, a causa del disordine che seguì i fatti politici del 25 luglio 1943 e, più tardi, a quelli che seguirono l’8 settembre (proclamazione dell’armisti-zio). In questi due frangenti la copia del fascicolo rimasta negli uffici di Gaeta andò smarrita, ma la Capitaneria aveva regolarmente inoltrato la pratica al Ministero. Nel settembre 1944, ossia a guerra finita in questa parte d’Italia, la Capitaneria chiese ed ottenne un duplicato del fasci-colo giacente presso il Ministero, ma mentre si relazionò con i comandi militari per definire le pratiche del personale in divisa perito nell’af-fondamento, non pensò di informare i familiari delle altre vittime. La storia di quei passeggeri è rimasta, perciò, ignorata per 63 anni, mal-grado libri e articoli, commemorazioni e rievocazioni, prima che Giulio Cargnello riportasse alla luce le carte e le rendesse pubbliche nel 2007 (v. Comando Generale delle Capitanerie di Porto – Ufficio Relazioni Esterne, “Ventotene 24 luglio 1943. L’affondamento della Nave postale Santa Lucia”). A parte si pubblicano gli elenchi dei deceduti.

Aprilia (che all’epoca registrava solo 2237 residenti), e Terracina, il centro più popoloso con i suoi 23.559 abitanti, si disperse nella pianura e nella retrostante collina, zona che godeva di una situazione di relativo vantaggio, piuttosto defilata dalle operazioni tattiche e logistiche, ma non da quelle militari, visto il tributo che anche Cori, Sezze, Priverno, Sonnino, Maenza pagarono alla guerra. Solo la cittadina di Norma si salvò e divenne centro elettivo di ospitale accoglienza.

Norma, città solidale

La cittadina lepina di Norma ha, dunque, avuto il singolare privilegio di non essere stata sfiorata dalla guerra, che ha, invece, potuto osservare dall’alto della sua “rave” (la strapiombante rupe su cui è sorta). La favorevole e pres-soché unica circostanza trasformò Norma in un prezioso rifugio per mi-gliaia di sfollati che lasciarono la pianura pontina martoriata da cannoneg-giamenti e bombardamenti. Dopo lo sbarco di Anzio-Nettuno iniziarono flussi di profughi verso la collina (Camposoriano, Sonnino, Roccasecca dei Volsci, Maenza, e in particolare verso Norma), così come verso la campagna (di Pontinia e di Terracina), mentre la popolazione di Aprilia veniva imbar-cata e trasferita verso la Campania-Calabria-Sicilia; quella di Campodimele in Emilia; quella di Cisterna verso Cesano, Narni, Roma.

Norma si trovò a divenire albergo per migliaia di rifugiati. Purtroppo, non ne è mai stato calcolato il numero, ma tenendo conto delle cose obiettive (disponibilità di case, esistenza di rifugi naturali, come caverne, popolazio-ne residente, la ipopolazio-neludibile capacità di adattarsi anche a condizioni preca-rie, le capacità di sostentamento offerte dal territorio), può ritenersi che la popolazione ne venisse raddoppiata. Questa è una tesi che si appoggia sul ricordo e sulla tradizione della memoria tra generazioni, mentre c’è ca-renza di dati sicuri. È certo che, malgrado questa forzosa convivenza, non si registrarono episodi di intolleranza o di rifiuto di aiuto e rifugio. Fu una generosa corsa all’ospitalità: anche se le difficoltà si palesarono im-mediatamente, esse furono sopportate in pieno spirito di collaborazione e di reciprocità. Scattò un sentimento fatto di generosità spontanea, che è la sostanza del comportamento cristiano, e che un filosofo come Johann un prevedibile sbarco alleato, con la creazione di una linea di difesa fatta di

postazioni costiere in cemento armato o trasformando strutture o edifici collocati strategicamente (anche qui ci sono ricordi visibili: vedi l’articolo sui bunker); vennero depositate centinaia di migliaia di mine antiuomo e anticarro lungo la fascia litoranea e nell’immediato retroterra; fu decisa ed eseguita la distruzione di tutte le strutture portuali e l’affondamento di tutto il naviglio non utilizzabile, inclusi i pescherecci; venne attuata la sistematica demolizione con l’esplosivo, di tutti gli edifici - palazzi, antiche torri co-stiere, fabbriche - che avrebbero potuto costituire punto di riferimento per lo sbarco o ostacolo per la difesa.

Poi, in vista di una risalita via terra, in conseguenza del fatto che in qual-che settimana dallo sbarco di Salerno del 9 settembre 1943, l’“Operazione Avalanche”, gli Alleati avevano raggiunto e liberato Napoli (con l’aiuto della rivolta cittadina delle “Quattro Giornate”, venne anche disposto l’allaga-mento della Piana di Fondi-Monte San Biagio e di ampie aree della Pianura Pontina, appena bonificate. Furono tagliati gli argini, sabotate le centrali idrovore, asportati i motori, stravolto scientificamente il sistema che aveva permesso di ristabilire l’equilibrio idraulico nelle zone paludose. L’opera-zione di devastaL’opera-zione e di sabotaggio fu così disastrosa che persino le poche autorità fasciste rimaste, pur con tutte le cautele che le circostanze impone-vano, la giudicarono eccessiva e non spiegabile militarmente. Ciò ha indotto a sospettare che quella operazione fosse, in realtà, un atto di vera e propria vendetta contro gli Italiani, rei di “tradimento”. Una vendetta da consumare attraverso una vera e propria azione di terrorismo biologico, il reimpaluda-mento finalizzato a reintrodurre condizioni di pieno ambientareimpaluda-mento delle zanzare portatrici di malaria e a provocare una disastrosa pandemia, che effet-tivamente avvenne nell’estate 1944 con decine di migliaia di malati di malaria.

È una tesi sostenuta da autori italiani (Corbellini, Merzagora, A. Coluzzi, che fu malariologo in zona) e americani (Snowden, Paul Russel), ma che non è documentalmente dimostrata, mentre personalmente ho esposto perplessità su tale finalità bioterroristica (v. Le tre malarie, Book editore, Latina 2008).

Mentre il sabotaggio progrediva, la popolazione veniva fatta evacuare pri-ma a 5 poi a 10 chilometri di distanza dalla costa. La popolazione dell’a-rea settentrionale della provincia, che contava oltre 133 mila persone, tra

Gli episodi peggiori si registrarono a Campodimele, Lenola, Itri, nella col-lina retrostante Fondi e nella Ciociaria, ma anche sui Lepini, anche se qui gli sfollati che avevano cercato riparo sull’alta collina di Cori, Norma, Ser-moneta, Roccamassima ricevettero l’aiuto delle autorità religiose di Velletri, dalla cui diocesi un tempo quest’area dipendeva, e dalle stesse popolazioni, che a volte reagirono con gli stessi metodi violenti (vi sono documenti anche nell’archivio diocesano di Terracina).

La guerra contro i civili

Anche questi episodi erano gli effetti di quella “guerra contro i civili” che caratterizzò la “guerra totale” anche in quest’area e di cui si possono ram-mentare altri eventi: il 4 settembre 1943 venne bombardata dagli alleati Ter-racina (un centinaio di morti), l’8 settembre Gaeta, il 10 settembre Formia (una settantina di morti e pesanti distruzioni), nel gennaio 1944 furono massacrati da cannoni e bombe aeree i circa cento fedeli che assistevano alla messa a Cori e i circa duecento che si erano rifugiati nel bosco dell’Abboc-catora, e poi Fondi e Lenola in un rosario di sangue e di morti innocenti.

Il 13 ottobre 1943 il Governo del Sud presieduto da Badoglio,dichiarò guer-ra alla Germania. La provincia di Littoria divenne l’estremo lembo della Repubblica sociale fascista, ma vi comandavano solo i tedeschi.

Lo sbarco di Anzio-Nettuno

Gli Alleati avevano raggiunto la parte finale della linea Gustav - tra Castelforte e il mare di Minturno - a metà novembre, e vennero inchiodati dalla organizzata difesa tedesca. Per aggirare lo scoglio fu progettata l’Operazione Shingle, uno sbarco in profondità dietro le linee di difesa, preceduto da un attacco sulla Gu-stav per richiamare forze. La sera del 21 gennaio salparono dal golfo di Napoli 374 mezzi navali, che trasportavano 50 mila uomini e 5 mila automezzi. For-mavano il VI Corpo d’armata posto sotto il comando del generale americano

Gli Alleati avevano raggiunto la parte finale della linea Gustav - tra Castelforte e il mare di Minturno - a metà novembre, e vennero inchiodati dalla organizzata difesa tedesca. Per aggirare lo scoglio fu progettata l’Operazione Shingle, uno sbarco in profondità dietro le linee di difesa, preceduto da un attacco sulla Gu-stav per richiamare forze. La sera del 21 gennaio salparono dal golfo di Napoli 374 mezzi navali, che trasportavano 50 mila uomini e 5 mila automezzi. For-mavano il VI Corpo d’armata posto sotto il comando del generale americano

Nel documento Sandro Pertini (pagine 29-41)