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Dopo il 1945: tra codice e costituzione

Più che all’esame di specifici versanti rispetto ai quali si è potuta apprezzare la peculiarità dell’apporto notarile nel determinare fisionomia ed evoluzioni di singoli istituti e fattispecie, le pagine che seguono vorrebbero assumere il punto di vista - più congeniale alla formazione storico-giuridica di chi scrive - del dialogo tra Notariato e scienza del diritto. Per verificare se possa registrarsi uno sviluppo sincrono, parallelo, tra le riflessioni del Notariato e quelle della scienza giuridica in tema di trasformazioni del diritto di proprietà e, allo stesso tempo, per vedere se e come simili riflessioni si siano combinate con corrispondenti processi di ripensamento del proprio ruolo e della propria identità professionale. Si tratta, come è facile immaginare, di un primo sondaggio, che non ha alcuna pretesa di esaustività ma che mira, più modestamente, a offrire qualche osservazione in ordine sparso all’interno di un territorio teorico di estrema complessità.

Sotto un simile profilo, la scelta del secondo dopoguerra come dies a quo deriva da ragioni intuitive alle quali è sufficiente fare un rapido cenno: sulle macerie del regime e della tragedia bellica, ad aprirsi è infatti una stagione che sollecita (anche) gli operatori del giure - quale che fosse la loro vocazione preminente, pratica o teorica - a riflettere congiuntamente sulle coordinate complessive dell’ordine giuridico, non meno che sulla propria funzione. In particolare, allo sguardo dell’osservatore si offre un panorama che rende sempre più difficile raffigurare, al modo tradizionale, la dialettica tra privato e pubblico, tra società e Stato, tra diritto, politica ed economia, quale esito di un’interazione armonica tra universi autonomi e tendenzialmente non interferenti. Del resto, i diffusi riferimenti alla crisi (delle fonti, del diritto privato, del diritto pubblico, del diritto tout court) testimoniano in modo eloquente la percezione del cambiamento, se è vero che parlare di crisi è sempre il modo per stilare un bilancio, per interrogarsi sulla perdurante attitudine delle risorse ermeneutiche note a contenere e fronteggiare le sfide regolative poste da una realtà in vertiginosa evoluzione. Non si tratta, beninteso, di un riferimento nuovo; crisi è infatti un termine che inizia a circolare insistentemente nel lessico giuridico dagli inizi del Novecento e che tuttora - si perdoni il bisticcio - non sembra conoscere crisi. Di sicuro, però, all’indomani della Liberazione esso tende a diventare l’incipit quasi obbligato di ogni riflessione che abbia a oggetto il diritto; e questo probabilmente avviene perché a farsi strada fu la convinzione che i fenomeni di crisi censiti non fossero destinati a dissolversi in tempi brevi. Diventava, cioè, sempre meno pervio asserire l’eccezionalità di quei processi di osmosi tra privato e pubblico, tra giuridico, politico ed economico, che la Costituzione elevava a caratteristica fondativa della nuova convivenza repubblicana e che trovavano significativi precipitati nello stesso tessuto normativo.

La proprietà non sfugge - o almeno: non può sfuggire a lungo - agli stimoli offerti dalla nuova temperie storica. Istituto cruciale ben oltre il territorio del diritto civile, la proprietà gioca, come noto, un ruolo di spicco nella costruzione del moderno giuridico: collocata in una dimensione ultrapatrimoniale (è forse l’unico diritto a esser definito sacro da alcune carte dei diritti settecentesche)2, considerata, 1 Poiché il contributo che si licenzia costituisce la

trascrizione di una relazione congressuale, si è evitato di appesantire il testo con eccessive indicazioni bibliografiche

limitandosi a riportare quelle strettamente necessarie alla lettura del testo stesso.

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come ugualmente noto, il sinonimo più calzante della libertà individuale, di una libertà che trovava proprio nella declinazione volontaristico-potestativa attribuita al dominio il suo principale terreno di esplicazione, la proprietà ha rappresentato una decisiva cerniera tra libertà (e virtù) civili e politiche. Emblema dell’ottimo padre di famiglia, di quell’operosità lungimirante tipica di chi sa pensare al futuro dei propri figli, il proprietario è considerato il soggetto socialmente affidabile per eccellenza, il baluardo più sicuro dell’ordine, e, per tali ragioni e per molto tempo, praticamente l’unico a essere ammesso all’esercizio del voto.

Chiaramente, questa visione della proprietà, consacrata dai codici ottocenteschi, aveva già subito importanti cedimenti nella prima metà del XX secolo: il complesso normativo nato negli anni del primo conflitto mondiale, la Costituzione di Weimar (art. 153, terzo comma: «La proprietà obbliga. Il suo uso, oltre che al privato, deve essere rivolto al bene comune»), le aspirazioni palingenetiche ostentate, almeno sulla carta, dal regime fascista, pur rappresentando, come è evidente, vicende storiche non assimilabili, costrinsero in ogni caso i giuristi a misurarsi con la prospettiva della c.d. funzionalizzazione dei diritti soggettivi, con la possibilità che l’esercizio dei diritti individuali potesse essere convertito in strumento tenuto a (e capace di) realizzare (anche) interessi ultraindividuali. Tuttavia, se si escludono alcune rilevanti eccezioni - due nomi su tutti, per limitare lo sguardo all’Italia: Enrico Finzi e Lorenzo Mossa - a risultare prevalente nella scienza giuridica italiana infrabellica fu il tentativo di riportare, sovente al prezzo di complesse acrobazie argomentative, le novità registrate nel solco delle immagini tradizionali, tradizionalmente volontaristiche, della privatezza e del diritto di proprietà in specie3.

L’incontro col nuovo tempo storico non poteva però essere rinviato sine die; ad esprimere una decisa inversione di rotta fu innanzi tutto il testo della Costituzione, sebbene la distinzione, inaugurata dalla giurisprudenza e recepita da buona parte della dottrina, tra norme precettive e norme programmatiche, tra norme costituzionali, cioè, ritenute suscettibili di immediata applicazione e norme viceversa ritenute bisognose di specifica traduzione legislativa, abbia inizialmente contribuito a misconoscere l’intima unità del progetto tracciato dal costituente. Sarà soprattutto dalla fine degli anni Cinquanta che la Carta costituzionale inizierà a diventare un testo rilevante per lo stesso immaginario del privatista, uno dei varchi incaricati di riscrivere il perimetro tradizionale del diritto civile e, insieme a esso, di ripensare ruolo e funzione del giurista. Da un simile punto di vista, la Carta repubblicana rilevava non solo e non tanto per quelle disposizioni che espressamente richiamavano la funzione sociale della proprietà (art. 42), o che collegavano l’esercizio di proprietà e iniziativa privata alla realizzazione di finalità socialmente apprezzabili (artt. 41, 43, 44, 45). A rilevare era piuttosto l’impianto complessivo di un testo che ambiva a disegnare un progetto di convivenza lontano dalle astrattezze ottocentesche e nutrito dalla relazione costante, necessaria, tra società e Stato, tra attori privati e pubblici, era l’impianto di una norma che aspirava a cogliere e collocare tutte le presenze giuridicamente rilevanti (lo Stato, le società intermedie, gli individui) in una tela complessa di interazioni e aspettative, di diritti e doveri, reputati tutti ugualmente necessari a disegnare la trama pluralistica delle democrazie contemporanee e i valori che ne avrebbero dovuto ispirare la vita.

Ma anche il più risalente codice civile del 1942 non appariva un testo privo di rilievo, incapace, come tale, di segnare alcune importanti discontinuità rispetto al precedente codice del 1865. Per varie ragioni. Perché l’art. 832, nel definire i poteri del proprietario, conteneva un espresso riferimento agli obblighi dello stesso; perché il nuovo codice si nutriva di un rapporto non episodico con la legislazione speciale: sia che rinviasse massicciamente a essa, sia che ne includesse interi tronconi nelle proprie maglie (per es. in materia di bonifica e di vincoli idrogeologici), in entrambe le ipotesi si trattava di

dell’uomo e del cittadino del 26 agosto del 1789. 3 Per un esame complessivo di questi aspetti, mi permetto di rinviare a I. STOLZI, L’ordine corporativo - poteri organizzati

e organizzazione del potere nella riflessione giuridica dell’Italia fascista, Milano, 2007.

Notariato e scienza del diritto: riflessioni in tema di proprietà nel secondo Novecento

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Il contributo della prassi notarile alla evoluzione della disciplina delle situazioni reali

norme che spesso tendevano a legare l’esercizio del diritto di proprietà alla realizzazione di interessi sociali o pubblici; perché le esigenze della produzione si affacciavano quale criterio atto a temperare le «ragioni della proprietà» in materia di immissioni (art. 844) o addirittura quale riferimento capace di determinare l’espropriazione del diritto in capo al proprietario neghittoso (art. 838) o comunque di condizionare complessivamente l’assetto del dominio (si pensi alla minima unità colturale, ai consorzi di ricomposizione fondiaria, ai trasferimenti coattivi); ma soprattutto perché si era di fronte a un testo che anche attraverso il richiamo al lavoro e all’impresa, alle sue differenti forme di organizzazione, mostrava di prendere le distanze da un’idea di diritto civile ridotto alla mera «contemplazione di rapporti atomistici tra patresfamilias»4.

Mi hanno sempre colpito, al riguardo, alcune osservazioni di Filippo Vassalli, che del codice fu il principale artefice; in un ampio saggio, l’autore, nell’intento di illustrare (e di difendere) il ‘proprio’ codice affiancava due motivi (apparentemente) molto lontani.

«Certo - sosteneva - il codice parla ancora di proprietà come d’un diritto della persona. Ma qui conviene, una volta per tutte, render chiaro che se si rinuncia a codesto diritto si può anche fare a meno del codice civile, tutt’intero ... Il diritto civile è ... la disciplina della vita dell’uomo nei rapporti determinati dalla procreazione, dalla società coniugale e dall’attività economica. Questa disciplina nei nostri ordinamenti sociali, poggia tutta, immediatamente o mediatamente, sul riconoscimento della proprietà individuale. Il diritto di proprietà è il mezzo più efficace e più diffuso per convogliare il lavoro umano verso le cose e, quindi, per assicurare la produttività delle medesime: fuori d’un tal regime lo sfruttamento dei beni non potrebbe essere altrimenti assicurato che mediante una divisione degli uomini in condannati al lavoro, da una parte, e organizzatori e controllori del lavoro altrui, dall’altra»5.

Poi, a poche righe di distanza osservava: il codice «mira a dare della vita stessa una disciplina integrale, nella quale i diritti subiettivi s’inseriscono come un elemento nel quadro più complesso e assumono quella figura che meglio ne rivela la riduzione a funzione. Con che siamo a veder configurata nella legge fondamentale del vivere civile una concezione del diritto soggettivo che si distacca nettamente da quella che caratterizza i codici dell’ottocento»6 e che è ispirata dalla «preoccupazione costante

di stabilire un raccordo tra i due momenti, privatistico e pubblicistico, mirando ad assicurare il coordinamento delle attività private, nella residua sfera ad esse eventualmente consentita, con le attività dei complessi politici o con le finalità dei medesimi»7.

È vero, come da più parti è stato acutamente notato, che il codice civile è una norma che può vivere più di una vita, che presenta cioè alcune parti più legate alla tradizione e altre più in sintonia col nuovo spirito novecentesco; come è vero che esso è stato promulgato in un momento di transizione, ovvero in un momento nel quale le idee tradizionali iniziavano ad apparire obsolete, senza che tuttavia si potesse contare su un corredo sufficientemente chiaro di idee nuove8. Ma è probabilmente anche vero

(o almeno: si tratta di una interpretazione che sembra resa possibile dalla lettura congiunta di codice e costituzione) che tale coesistenza di motivi, più che segnalare una tensione irrisolta o addirittura un’antinomia interna al tessuto codicistico, possa servire a segnare i contorni di una scommessa regolativa che (tuttora) impone di cercare le vie per realizzare un equilibrio, tanto difficile quanto necessario, tra dimensione privata, sociale e pubblica.

4 F. VASSALLI, Motivi e caratteri della codificazione civile (1947), ora in ID., Studi giuridici, vol. III, tomo II, Milano, 1960, p. 620; assai preoccupato, sia in riferimento alle previsioni della costituzione che a quelle del codice, previsioni che sembravano «feri[re] le caratteristiche fondamentali di pienezza e di esclusività» del dominio, G. B. CURTI PASINI, «Lineamenti sommari sulla funzione sociale della proprietà privata nel diritto odierno italiano»,

in Riv. not., III, 1949, p. 409-411 (la frase citata è a p. 411). 5 F. VASSALLI, op. cit., p. 614.

6 Ivi, p. 621. 7 Ivi, p. 622.

8 Per una lettura a più voci delle caratteristiche del codice civile, v. Per i cinquant’anni del codice civile, a cura di M. Sesta, Milano, 1994; v. anche R. NICOLÒ, voce Codice civile, in Enc. dir., VIII, Milano, 1960, p. 245-246.

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