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Verso nuove frontiere della privatezza

Se, muovendo da questi presupposti allarmati - «Anche laddove non ha subito la condanna capitale per cedere il posto ai regimi comunisti, essa malamente sopravvive in un ambiente ostile, tra vessazioni e persecuzioni di ogni genere»24 - si volesse rintracciare una traiettoria evolutiva, coinvolgente tanto

la riflessione dei notai quanto la riflessione scientifica sul diritto, essa potrebbe essere, con qualche semplificazione, così compendiata: la percezione di una drastica alternativa tra privato e pubblico, alternativa che imponeva anche al notaio di scegliere ‘da che parte stare’ contribuendo ad allargare il fossato tra il suo volto di libero professionista e quello di pubblico ufficiale, viene progressivamente soppiantata da un’immagine più composita e articolata dell’ordine giuridico, di un ordine che inizia ad apparire strutturato per cerchi concentrici, che dalle posizioni privato-individuali transitava per la dimensione collettiva per arrivare al pubblico-statuale. A essere messa progressivamente a fuoco fu dunque una dimensione non (necessariamente) individualistico-potestativa della privatezza, dimensione cui non si chiedeva soltanto di svolgere un ruolo di intercapedine atto a scongiurare il contatto diretto tra il privato-individuale e il pubblico-statuale, ma che veniva investita di una più importante funzione (pro)positiva. Ad essere riconosciuta, in particolar modo, fu l’attitudine della privatezza a realizzare e promuovere assetti regolativi socialmente apprezzabili, rilevanti, cioè, oltre la sfera giuridica del singolo privato e, come tali, capaci di contribuire alla identificazione e alla realizzazione d’interessi qualificabili come generali.

Significativo, nel segnalare questo importante assestamento di prospettiva, il tenore della relazione presentata dalla delegazione italiana al III Congresso internazionale del Notariato latino nel 1954; un paragrafo di tale relazione, sintomaticamente intitolato «la funzione sociale del notaio», precisa infatti con grande chiarezza il senso attribuito a tale formula, troppo spesso utilizzata in maniera impropria o ritenuta genericamente espressione della crescente importanza della regolazione pubblicistica in materia privata. Parlando di funzione sociale del notaio - si legge nel testo dell’intervento congressuale - non si intendeva tanto «indicare il notaio quale soggetto di diritto pubblico»; piuttosto, attraverso un simile richiamo, ci si «preoccupa[va] di definir[n]e la attività nel campo del diritto privato e sotto il profilo dei diversi interessi collettivi che in questo settore trovano tutela»25.

E poi una chiosa, decisiva per precisare il senso di quanto appena detto: viene infatti chiarito - e la precisazione è, appunto, fondamentale - come i richiami alla funzione sociale del notaio non potessero essere confusi col riferimento alla funzione sociale dei diritti soggettivi, e della proprietà in specie, ove attraverso tale riferimento si intendesse dare risalto a dati meta- o pregiuridici26. La funzione sociale,

insomma, non era, non doveva essere, l’espressione di un legame, magari aperto a interpretazioni diverse, tra ciò che stava fuori e ciò che stava dentro il diritto, ma doveva al contrario incarnare una frontiera squisitamente giuridica, chiamata a restituire i connotati della giuridicità in un determinato momento storico. E simile chiosa era decisiva proprio perché - contrariamente alle apparenze - non mirava a comprimere lo spazio riservato alla funzione sociale dei diritti e degli operatori chiamati a metterla a fuoco, ma ad accreditarli entrambi quali requisiti imprescindibili dell’ordinamento e di una giuridicità non semplicemente ‘temperata’ o ‘addolcita’ da istanze esterne, variamente denominabili ‘sociali’, ma nutrita, in tutte le proprie corde, da imprescindibili esigenze di contemperamento tra interessi privati, collettivi e pubblici. Col notaio che, nella sua veste di «ago sensibilissimo di una bilancia» (e non mero «compilatore meccanico di documenti»)27, era tenuto a farsi carico dell’onere

di questo necessario e salutare bilanciamento, contribuendo quotidianamente a costruire il volto di un sistema chiamato a ricondurre a equilibrio istanze diverse e talora contraddittorie. A essere posta

24 Decadenza della proprietà, cit., p. 26.

25 «La funzione sociale del notaio», in Riv. not., VIII, 1954, p. 175.

26 Ibidem. 27 Ivi, p. 180.

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sul tappeto non era quindi la questione di un’attività praeter o addirittura contra legem dell’interprete e del notaio in specie (il notaio ha «sempre operato all’interno del diritto positivo … non c’è mai stato … un uso alternativo del diritto»)28; a essere sostenuta (e richiesta con forza allo stesso legislatore) era

l’idea di un sistema capace di esprimere, muovendo dal livello legislativo, un tessuto sufficientemente chiaro di regole e principi a partire dai quali valorizzare il ruolo delle presenze chiamate a trasferire, sul piano dei singoli rapporti giuridici, quella scommessa di equilibrio che appariva ormai ineludibile per gli ordinamenti.

Le riviste notarili, anche sotto tale profilo, costituiscono un osservatorio rilevante: dalla metà degli anni Cinquanta, con un crescendo che arriva fino ai giorni nostri, sono molti gli indici che segnalano questa nuova consapevolezza, la consapevolezza di una funzione che non solo doveva stare al centro di processi di mediazione tra Stato e società, ma doveva saper modulare i propri interventi in direzioni capaci di corroborare (anche) il volto socialmente sensibile del diritto privato. Tutela del contraente debole, doveri di informazione, valutazione critica di certe clausole di esonero della responsabilità, rivendicazione del valore eminentemente sostanziale (necessario cioè a garantire la sicurezza del traffico giuridico) della forma di certi atti, rivitalizzazione di istituti, come la permuta, che sembravano destinati a fine certa e che invece si mostravano capaci di collocare sul piano, più robusto, dei diritti reali la posizione del privato29, rappresentano - o almeno così mi pare - altrettanti sintomi di tale rinnovata

consapevolezza del ceto notarile, di un ceto che poteva e doveva assumersi «precise responsabilità» onde evitare che il suo compito si riducesse a intervenire «quando i giochi sono già fatti»30.

Un ultimo esempio, dei molti possibili: nel 1986 vengono pubblicati, in quattro corposi volumi, gli esiti di un riuscito esperimento di dialogo tra giuristi teorici e Notariato sul tema de La casa di

abitazione tra normativa vigente e prospettive31. Tra i vari contributi presenti, mi limito a menzionare quello

di Pier Gaetano Marchetti che, nell’esaminare volto e funzione delle società immobiliari, rilevava puntualmente come simili figure, se mendate dai loro aspetti speculativi, potessero concorrere a innescare un circuito virtuoso, capace di farsi carico della realizzazione e della soddisfazione di rilevanti interessi sociali (stimolare la costruzione di nuovi immobili, identificare nuovi ceppi patrimoniali per i fondi pensionistici ecc.) «non più affidandosi solo all’iniziativa pubblica, ma riscoprendo l’impresa: un’impresa

tuttavia a proprietà diffusa in cui la speculazione a breve dovrebbe rappresentare un obiettivo che cede di

fronte alla prospettiva a medio-lungo periodo della stabilità dell’investimento di chi all’impresa stessa fornisce capitale di rischio»32.

Non è probabilmente casuale - e così riprendo il tema iniziale di queste pagine - che la stessa riflessione teorica, a partire dalla fine degli anni Cinquanta, avvii un processo di ripensamento di alcune nozioni,

28 E. MARMOCCHI, Prassi contrattuale e tutela degli interessi, in La casa di abitazione tra normativa vigente e prospettive - quarant’anni di legislazione, dottrina, esperienze notarili e giurisprudenza, IV, Atti del convegno, Milano, 1986, p. 196. 29 Ivi, p. 202-207, con riferimento appunto allo schema - che sembrava caduto in desuetudine - della permuta, schema utilizzato con riferimento alle transazioni aventi a oggetto immobili da costruire; nello stesso senso M. COMPORTI, Il condominio precostituito e i negozi di precostituzione condominiale (ivi, vol. I, p. 427-429); interessanti osservazioni possono leggersi anche in riferimento a un altro istituto - la comunione tacita familiare - che ugualmente sembrava «un residuo di vecchi ordinamenti feudali» e che invece poteva concorrere a inquadrare molte ipotesi di impresa familiare di carattere non solo agricolo in V. ANTONELLI, «La comunione tacita familiare agricola (nozioni e osservazioni)», in Riv. not., XVI, 1962, p. 102 e ss. 30 P. BOERO, La tutela dell’acquirente, in La casa di abitazione

…, cit., vol. IV, p. 141-142.

31 L’opera consta di tre volumi, contenenti contributi dottrinali relativi ai vari ambiti indagati in riferimento al problema della casa di abitazione (aspetti costituzionali e amministrativi, civilistici ed economico-finanziari); il quarto volume raccoglie invece gli atti del Convegno svoltosi a Milano nell’aprile del 1986, destinato a discutere congiuntamente i diversi aspetti esaminati nei volumi precedenti. Nella Presentazione dell’opera, firmata da Luigi Mengoni e Lodovico Barassi, si legge: «il mondo universitario, spettatore qualificato della crisi degli schemi contrattuali, ei notai, spettatori quotidiani della stessa crisi» si sono fatti «promotori di una ricerca sui quarant’anni di casa dalla fine della guerra ad oggi per uno studio preliminare che consentisse di avanzare meditate e razionali proposte» (vol. I, p. VII).

32 P. MARCHETTI, Le società immobiliari, in La casa di abitazione …, cit., vol. IV, p. 224.

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come quella di funzione, che pur essendo state variamente interpretate e tematizzate, tendevano tuttavia a essere identificate con ipotesi di commistione di elementi giuridici con elementi (sociali, etici, economici) estranei al mondo del diritto. Né appare casuale che, sulla scorta di tali assestamenti di rotta, una figura diabolica, come quella di abuso del diritto, venisse riammessa nel perimetro di lavoro del giurista su presupposti sensibilmente diversi rispetto ai passati. A sostenere queste rilevanti evoluzioni interpretative, pur facenti capo ad autori diversissimi, sembra tuttavia che stesse l’identico tentativo di vedere nel concetto di funzione una nozione coessenziale alla stessa definizione del diritto, e non l’esito di un ponte gettato tra giuridico e non-giuridico. Stava insomma l’idea che fosse possibile (e doveroso) rintracciare una funzione tipica degli istituti giuridici, di tutti gli istituti, anche di quelli sorti nel grande terreno della atipicità, se era vero che il diritto poteva realizzare appieno la sua vocazione ordinativa solo accettando di esprimere e comporre il plesso multiforme di interessi e istanze che concorrevano a disegnare il volto delle società contemporanee. Che era poi il modo che permetteva di riammettere nel perimetro del lavoro giuridico la questione, lungamente schivata, del (necessario) rapporto tra diritto e valori e di rendere la stessa Costituzione, la tavola dei valori della nuova convivenza democratica, un testo centrale anche per l’ideario del privatista33.

Con alcune conseguenze rilevanti cui conviene dedicare qualche osservazione conclusiva; in primo luogo, una simile concezione del diritto conduceva a rivalutare la funzione dell’interprete, quale che fosse la sua vocazione preminente, pratica o teorica: non più visto soltanto come forza evolutiva, come soggetto tenuto a garantire che il tessuto normativo si adeguasse allo spirito dei tempi, né visto soltanto come il soggetto chiamato a fare ordine all’interno di una selva crescentemente inestricabile di precetti, l’interprete viene considerato come una delle presenze indispensabili, fisiologicamente indispensabili, per contribuire a definire il volto di un sistema giuridico e dei molteplici equilibri chiamati a tracciarne la fisionomia. Che sovente a finire sul banco degli imputati fosse il legislatore non sorprende più che tanto: a essere diffusamente criticate, dai giuristi teorici come dai pratici, erano infatti le fattezze di un tessuto legislativo ipertrofico, pulviscolare, caratterizzato da frequenti sciatterie e improprietà terminologiche; non basta: a destare preoccupazione erano, ben più consistentemente, i tratti di un complesso normativo che spesso appariva ispirato a principi contraddittori, non facilmente riconducibili a un’ispirazione unitaria e pertanto incapaci di segnare il perimetro di lavoro dello stesso interprete, del soggetto chiamato a nutrire dall’interno, incessantemente, le fibre del sistema giuridico. In questo quadro ricostruttivo, la stessa funzione notarile inizia ad essere raffigurata attraverso riferimenti concettuali nuovi: dal contributo di Satta del 1955 alle riflessioni di Salvatore Romano e di Emilio Betti del 1960, fino alle pagine scritte, a partire dai tardi anni ’70, da Nicolò Lipari, Mario Nigro e Francesco Busnelli34, a emergere sono, come è chiaro, orientamenti diversi, ma tutti

concordi nell’avvicinare la funzione del notaio a quella propria del giudice. Il carneluttiano «tanto più notaio quanto meno giudice», la concezione, insomma, che il notaio rappresentasse soprattutto un’alternativa al giudice35, alle liti tra privati, tendeva infatti a essere soppiantata dall’idea di una

funzione assimilabile a quella giurisdizionale, dall’idea che il notaio, al pari del giudice, svolgesse un fondamentale ruolo di composizione tra interessi diversi e di diversa ampiezza: composizione tra gli

33 Per una lettura d’insieme di tali vicende e per ricavare più estese indicazioni bibliografiche su tale nuova generazione di civilisti (da Gino Gorla a Ugo Natoli, da Nicolò a Rescigno, da Rodotà a Mengoni, da Trimarchi a Perlingieri fino alle voci eterodosse dei sostenitori dell’uso alternativo del diritto), v. P. GROSSI, La cultura del civilista italiano - un profilo storico, Milano, 2002.

34 Si tratta, rispettivamente, di S. SATTA, «Poesia e verità nella vita del notaio», in Riv. not., IX, 1955, p. II e ss.; SALVATORE ROMANO, «La distinzione tra diritto pubblico e privato» che costituisce il testo della

prolusione al primo corso della scuola di notariato Cino da Pistoia, prolusione letta a Firenze il 3 febbraio del 1962, in Riv. not., XVII, 1962, p. 5. e ss.; E. BETTI, «Interpretazione dell’atto notarile», in Riv. not., XIV, 1960, p. 1 e ss.; N. LIPARI, «La funzione notarile oggi: schema di riflessione», in Riv. not., XXXI, 1977, p. 935 e ss.; M. NIGRO, «Il notaio nel diritto pubblico», in Riv. not., XXXIII, 1979, pp. 1170 e ss. e F. BUSNELLI, «Ars notaria e diritto vivente», in Riv. not., XLV, 1991, p. 3 e ss. 35 V., F. CARNELUTTI, «La figura giuridica del Notaro», discorso pronunciato nel Maggio del 1950 a Madrid

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interessi privati coinvolti dall’atto notarile e contemporanea ricerca di un equilibrio tra questi ultimi e interessi sociali e pubblici36. Ed era proprio a partire da tali acquisizioni che la vexata quaestio relativa

alla caratterizzazione prevalente del lavoro del notaio (libero professionista o pubblico ufficiale?) iniziava ad essere declinata in termini inediti: non più tenuti a descrivere il carattere ancipite di una professione sospesa tra identità difficilmente conciliabili, i riferimenti ai due lati dell’opera notarile sembravano descrivere le facce necessariamente complementari della stessa medaglia. Verrebbe voglia di dire: pubblico ufficiale, il notaio, perché libero professionista, perché privato che lavora tra i privati e che, attraverso il requisito essenziale della terzietà della sua prestazione, mira a realizzare e tenere in equilibrio particolare e generale, interessi privati e interessi pubblici, libertà e responsabilità, agilità e sicurezza del traffico giuridico, offrendo, così, il risultato di un’attività di consulenza e mediazione funzionale all’equilibrio dell’intero sistema giuridico e perciò munita di indubbia rilevanza pubblicistica («Magistratura a presidio della legge; libera professione, a tutela della libertà individuale»)37.

Si tratta, come è agevole intuire, di problemi in gran parte aperti e attuali che rendono difficile individuare il dies ad quem di questo intervento; e se è chiaro che i modelli scelti per tenere insieme i molteplici aspetti da cui risultano le singole esperienze storiche possono (e devono) adeguarsi al mutare dei tempi, pare altrettanto evidente che ritenere superata la sfida dell’equilibrio (tra pubblico e privato, tra particolare e generale ecc.) rappresenterebbe una resa amara per gli ordinamenti. Per questo mi piace concludere ricorrendo all’immagine utilizzata da uno straordinario filosofo del diritto novecentesco e che già altre volte mi è capitato di citare. Il riferimento è a Giuseppe Capograssi e alla sua idea di giurista: convinto che solo il giurista potesse contare sul privilegio dell’abbraccio complessivo perché interessato a trovare e inventare strumenti ordinanti, capaci, come tali, di stringere in un unico abbraccio i tanti e contraddittori lati di una determinata esperienza storica, Capograssi riteneva che solo il recupero di una forte dimensione progettual-programmatica del discorso giuridico sarebbe riuscito a scongiurare l’incontrastato predominio di quelle dimensioni - come la politica e l’economia - che, troppo spesso appiattite sulle (e dominate dalle) urgenze del presente sembrano scontare una crescente incapacità di immaginare il futuro38.

presso la sede del “Collegio de los escribanos” e poi pubblicato sia sulla Riv. trim. di dir. e proc. civ. del 1950, sia sulla Riv. not., V, 1951, p. 1 e ss. e ID., «Diritto o arte notarile?», in Vita not., V, 1954, p. 209 e ss. (in questo caso si tratta della relazione letta al III congresso internazionale del notariato latino tenutosi a Parigi nel 1954).

36 Sul fronte del notariato, chiarissimo, in tale direzione,

A. GIULIANI, «Considerazione su alcuni motivi per la riforma della legge notarile», in Riv. not., IV, 1950, p. 31. 37 Ivi, p. 33.

38 Il riferimento va a G. CAPOGRASSI, Il problema della scienza del diritto (1937), Milano, 1962 (ristampa inalterata) e alla interpretazione che del pensiero capograssiano dà P. PIOVANI nella Introduzione al volume testè citato.

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Le modificazioni convenzionali al contenuto della proprietà e dei

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