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I profili di liceità sono di consueto trascurati. Il vincolo all’utilizzo si traduce - alternativamente od in via cumulativa - in limiti alla libertà personale, all’esercizio di attività commerciali, allo sfruttamento della proprietà. Non si è sufficientemente considerato - ad esempio - che il divieto di adibire un appartamento ad uso diverso dall’abitazione può nascondere un patto di non concorrenza commerciale, o professionale18. La nostra tradizione maturata in margine alle servitù aziendali, in

effetti, si è riversata tutta sul fronte della qualificazione19, lasciando sguarnito quello del controllo della

liceità.

Neppure il richiamo all’art. 1379 c.c. - con riferimento alle congiunture irrimediabilmente sfornite di realità - ha sollecitato alcuna tassonomia degli interessi apprezzabili quale fondamento di un vincolo di destinazione. Nei rapporti bilaterali riguardanti beni isolati, ossia non incastonati in condominio o comprensorio di sorta, l’interesse è spesso personale allorché il limite all’utilizzo non si prefigge un maggior apprezzamento del valore di scambio del bene, ma persegue un obiettivo caro al soggetto. Una massima isolata pare, in effetti, avere ritenuto l’interesse morale idoneo a sostenere un patto di non alienare20. A parte l’obiezione circa la sua pregnanza comunque scarsa in un sistema che ritiene

eccezionale la risarcibilità del danno non patrimoniale21, con riferimento ad un vincolo d’uso esso e, nello stesso senso, Cass., 4 dicembre 2007, n. 25289, in

Giust. civ. Mass. 2007, p. 12.

17 Già dai tempi di Cass., 18 febbraio 1955, n. 483, in Giur. agr. it., 1955, p. 397; inoltre, più recentemente, Cass., 24 ottobre 2013, n. 24125, in Guida al dir., 2014, 6, p. 95. 18 App. Milano, 13 marzo 1959, in Foro pad., 1960, I, p. 742, ha escluso la configurabilità di una servitù in ordine alla perpetua destinazione alla vendita di determinati generi merceologici degli “stands” di un mercato comune, convenuta negli atti di compravendita. Per un’interessante applicazione si segnala inoltre Cass., 5 febbraio 1987, n. 1136, in Giust. civ., 1987, I, p. 1099, con nota di M. COSTANZA, la quale ha negato la ricorrenza di una servitù in ordine all’impegno di non concorrenza assunto dal venditore di un immobile ad uso negozio a favore del compratore, affiancato dall’ulteriore vincolo ad inserire analoga clausola nei futuri atti di vendita degli altri locali ubicati nella stessa zona.

19 È principio risalente che il divieto di concorrenza possa configurarsi come servitù quando importi astensione dall’esercizio di attività rispetto al fondo che il proprietario come tale avrebbe potuto esercitare (Cass., 8 luglio 1959, n. 2193, in Riv. dir. ind., 1960, II, p. 165). Quasi un ventennio dopo (Cass., 24 agosto 1977, n.

3852), la Suprema Corte afferma che «perché possa ritenersi costituita una servitù, la cui utilità inerisca alla destinazione industriale del fondo dominante, occorre che l’utilità stessa attenga ad un’attività industriale (o anche commerciale) che si svolga necessariamente e non soltanto occasionalmente, attraverso l’uso del fondo (predialità), e pertanto non possono essere riconosciuti i caratteri della servitù nel patto di non concorrenza stipulato tra i proprietari di due fondi contigui, in relazione ad attività commerciali che avrebbero potuto essere svolte anche in fondi diversi».

Sulla distinzione tra servitù aziendali (inammissibili, in quanto prive di predialità) e servitù industriali in senso stretto (ammissibili), si veda anche B. BIONDI, «Servitù industriali e servitù aziendali», in Foro pad., 1958, I, p. 763; A. MATTEUCCI, «Delle servitù c.d. irregolari e, in particolare, delle servitù aziendali», in Foro it., 1956, I, p. 156.

20 Trib. Genova, 31 gennaio 1958, in Temi gen., 1958, p. 231.

21 G. GORLA, Il contratto, vol. I, Milano, 1958, 218. Sulla risarcibilità del danno non patrimoniale contrattuale si è pronunciata la Corte di Cassazione a Sezioni Unite (Cass., S.U., 11 novembre 2008, n. 26972, 26973), suggerendo

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pare comunque meno facilmente ipotizzabile. Non può, tuttavia, escludersi il caso della cessione di un cespite che rivesta un particolare significato sentimentale per il dante causa, il quale intende pertanto impegnare l’acquirente a non mutare la destinazione (ad esempio, da villa in albergo) finché egli vivrà. Si è reputata, d’altra parte, congrua ragione giustificativa di un patto di non alienare l’interesse al controllo a vantaggio del cedente, oppure del cessionario. Al primo ordine viene ricondotto il caso dell’usufruttuario che non intenda entrare in relazione con un diverso nudo proprietario, e quello del titolare di una rendita vitalizia22. La trasposizione di un tale intento nel vincolo d’uso è peraltro

concepibile solo in ordine a quest’ultima evenienza. La protezione del cessionario può ipotizzarsi per le medesime ragioni - inesperienza, immaturità - per cui gli viene interdetta la cessione, seppure emergano qui con minore evidenza.

Altra fattispecie esemplare, la quale tuttavia evidenzia un vincolo di contenuto positivo piuttosto che negativo, è quella che possiamo identificare quale “cessione di scopo”: è questo il caso di un ente pubblico che trasferisce ad un privato un bene affinché lo adatti ad una certa destinazione d’uso23.

Le fatiche cui costringe l’individuazione dell’interesse idoneo a fondare l’imposizione di un tale vincolo all’acquirente della proprietà quasi si placano allorché esso sia prescritto ad un detentore qualificato, come il conduttore o l’affittuario. È sufficiente al riguardo rinviare all’abbondante letteratura e giurisprudenza stratificatasi a proposito del rapporto di locazione, in genere, e della disciplina dell’ “equo canone”, in particolare24.

L’imperfetta aderenza ai vincoli di destinazione delle tecniche affinate in margine ai patti di non alienare dimostra come le due figure non coincidano perfettamente.

Il vincolo di destinazione d’uso talora si atteggia come riserva di utilità a favore di un soggetto diverso dal proprietario; altra volta è rivolto a conformare lo statuto del bene. Rientra nella prima ipotesi il divieto di utilizzo che si traduce nell’impedimento ad esercitare una determinata attività commerciale, e che può assumere le sembianze della servitù aziendale25; configurano invece il secondo profilo le

restrizioni imposte dai regolamenti condominiali.

In entrambi i casi affiora la distanza rispetto al divieto di alienazione: solo il vincolo di destinazione si presta a riempire il contenuto di una servitù; solo i limiti d’uso possono ritenersi agganciati ad un interesse intrinseco al bene.

Questa prospettiva è stata di recente ripresa, ribadendosi l’inammissibilità della sussunzione del vincolo di destinazione nell’art. 1379 c.c., in considerazione della differenza tra la menomazione della libera commerciabilità che preclude la realizzazione del valore di scambio del bene, e la limitazione all’utilizzo dello stesso, che predetermina solo la forma di godimento fruibile; inoltre quest’ultima è temporanea per vocazione, durando sinché perdura l’interesse a quella destinazione, venendo meno la quale è destinata ad estinguersi per impossibilità sopravvenuta, o per eccessiva onerosità sopravvenuta, o per presupposizione.

Si è, pertanto, suggerito di rendere i vincoli di destinazione compartecipi della natura del rapporto cui ineriscono, così da accreditare a quanti accedono a diritti reali la medesima indole, soltanto

una soluzione che predica una risarcibilità limitata del danno non patrimoniale contrattuale attraverso il riferimento al concetto di diritti inviolabili della persona, sostenendo che anche nella materia contrattuale è dato discorrere di danno non patrimoniale ogniqualvolta la legge o l’autonomia negoziale delle parti veicolino all’interno dell’impianto causale del contratto interessi non patrimoniali corrispondenti al rango di diritti della persona costituzionalmente qualificati.

22 Mantiene attualità l’acuta trattazione di G. BONIELLO, «La clausola di inalienabilità nel diritto francese e in

quello italiano», in Ann. dir. comp., 1966, p. 30.

23 Come nel caso deciso dall’App. L’Aquila, 31 marzo 1977, citato da M. CONFORTINI, op. cit., p. 878. 24 Cfr. art. 80 L. 392/1978.

25 Vedi retro note 18 e 19; in dottrina A. NATUCCI, «Le servitù industriali», in Quadrim., 1986, p. 362 e ss.; ID., Le servitù. Problemi di carattere generale, in P. GALLO e A. NATUCCI, Beni, proprietà e diritti reali, tomo II, in Tratt. di dir. priv., diretto da M. Bessone, Torino, 2001, p. 93; ma v. contra M. COMPORTI, voce Servitù, dir. priv., in Enc. dir., XLXII, Milano, 1990, p. 295.

Le modificazioni convenzionali al contenuto della proprietà e dei diritti reali di godimento e garanzia

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Il contributo della prassi notarile alla evoluzione della disciplina delle situazioni reali

subordinandone la validità alla condizione che non ne svuotino il contenuto, non disintegrino cioè il godimento tipico dei beni. Insomma una lettura se si vuole coerente con la funzione sociale dell’art. 42, comma 2, Cost., idonea a sostenere l’assunto di più ampia portata circa la manipolabilità del diritto reale nel rispetto del suo contenuto minimo essenziale: sarebbe consentito all’autonomia privata modulare il diritto reale purché sia mantenuto al titolare il complesso di poteri e facoltà che caratterizzano quella situazione26.

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