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Due approcci per una didattica della relazione e del dialogo

CAPITOLO II APPROCCI METODOLOGICI E FILOSOFICI ALLA DIDATTICA

I. L’approccio teorico e filosofico

I.2 Due approcci per una didattica della relazione e del dialogo

Nelle nostre sperimentazioni didattiche, l’approccio sociocostruttivista si è nutrito di una costellazione di punti di riferimento, teorie, approcci e visioni del mondo, che condividono la stessa spinta ad accogliere lo studente, riconoscendone la natura di partner nello scambio comunicativo e

cognizione. Il vantaggio di questo approccio sta, secondo le autrici, nella natura non sociale del linguaggio mentale, ossia dalla mancanza di un rinforzo sociale che segnali questo tipo di manifestazione del pensiero come desiderabile e quindi, in un contesto educativo, necessario ai fini della valutazione positiva da parte del docente.

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nel processo di apprendimento (pur con ruolo, autorità, responsabilità diverse). A tale fulcro comune si aggiungono sfaccettature che prendono in esame differenti aspetti della relazione pedagogica.

I.2.I Il dialogo pedagogico

Alla radice della didattica e dell’atteggiamento della formatrice abbiamo posto il dialogo, inteso come attività essenzialmente umana e che si traduce nel confronto dell’individuo con un’alterità che si può manifestare dentro di sé o nell’incontro con l’Altro. Nel primo caso, la persona si confronta con le proprie ombre e le proprie zone inesplorate, che si rivelano nelle emozioni, spesso in quelle che contrastano con l’immagine e l’idea che l’individuo ha del Sé: lo scollamento tra vissuto emotivo e immagine di Sé si ricompone grazie a uno sforzo narrativo che tenti di dare un senso all’esperienza e ai propri comportamenti, ricostruendo il vissuto in termini temporali e causali, e rivedendo, se del caso, le storie precedentemente narrate su di Sé130.

Tuttavia, questo processo di dialogo con il Sé, che è un confronto tra esperienze e idee, tra sguardi che non collimano all’interno dell’individuo, è possibile solo perché l’Io si è costituito in quanto tale nella relazione con un Tu (Buber 1923). La persona ha imparato ad agire e a pensarsi in quanto tale nella relazione con l’Altro: l’essere umano, crescendo e poi vivendo, si scopre e riconosce persona nel rapporto con un simile al di fuori di sé.

Tale relazione ha un valore particolare. Nel momento in cui mi affaccio al dialogo con un’altra persona, riconoscendola come essere umano, non mi pongo nella relazione epistemologica dell’Io a confronto con un esso, del soggetto che esamina un oggetto del conoscere; mi situo, al contrario, in una relazione caratterizzata da un incontro tra soggetti, relazione che possiamo definire ontologica perché modifica il mio essere nel mondo e con l’Altro.

Questa trasformazione della soggettività, che deriva dal relazionarsi con altre persone che riconosco come soggetti, conduce a chiedersi se e come un cambiamento simile avviene nell’Altro grazie al mio trattarlo da soggetto impegnato in un dialogo conoscitivo con me. L’interrogativo, posto da Stanghellini (2017) nell’ambito della relazione clinico-paziente, è altrettanto valido per l’insegnante.

130 È in questo interstizio metacognitivo che risiede il potenziale di apprendimento, e quindi di trasformazione e di crescita,

delle attività metacognitive a base narrativa come il diario autoriflessivo (journal de l’étudiant). Del resto, Gadamer (1973) considera il pensiero come il dialogo che la “mente” ha con se stessa.

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Che mutamenti si scatenano negli studenti quando questi vengono esplicitamente considerati soggetti impegnati, accanto al formatore, nell’apprendimento? Noi crediamo che la trasformazione principale risieda prima di tutto in una forma di potenziamento della percezione di autoefficacia e, a partire da quella, di autonomia emotiva e intellettuale dello studente nei confronti del formatore, autonomia che passa attraverso un’assunzione di responsabilità rispetto al proprio agire.

Il paragone tra formatore e clinico non è improprio, pur con i dovuti limiti: il rapporto pedagogico non è, né deve o può essere, un rapporto psicoterapeutico132. E tuttavia, dalla pratica della terapia fenomenologica (Stanghellini 2017), del colloquio rogersiano (Rogers 1942) e della mediazione comunitaria133 (che anche a quest’ultimo si ispira) si può trarre, oltre ad alcune tecniche di dialogo (come le domande aperte, la riformulazione dei contenuti potenzialmente oscuri e conflittuali, la ripresa delle idee espresse dall’interlocutore, l’esplorazione degli stati d’animo portati all’incontro…), un preciso posizionamento etico e dialogico. L’obiettivo è creare non solo quell’ambiente di apprendimento protetto che Angelelli (2018: 41) oppone alla pratica lavorativa, ma quello che vogliamo chiamare un ambiente comunicativo protetto, in cui gli studenti riescano ad affermare le proprie idee e le proprie emozioni senza (troppi) timori. Ciò non significa obbligatoriamente uno spazio non conflittuale, ma uno spazio di dialogo in cui ogni persona è e si sente legittimata a esprimersi134.

L’ambiente comunicativo protetto è caratterizzato da una forma di impegno personale del docente, che nel dialogo con gli studenti mette in campo le caratteristiche del dialogismo nel suo senso più

132 Una prima differenza è data dalla natura autoritaria dei legittimi compiti del docente, come la censura di comportamenti

antisociali e la valutazione.

133 Chi scrive ha esperienze di formazione (da entrambe le parti della relazione didattica) nell’ambito della mediazione

comunitaria. È inoltre coinvolta in ambito lavorativo in un progetto di mediazione comunitaria in ambito ospedaliero.

134 Ciò si è rivelato necessario anche per la natura dell’oggetto del corso. Indagando le aspettative e le idee degli studenti

sull’interpretazione nei questionari esplorativi, la pratica interpretativa è emersa nei discorsi degli studenti come un Leviatano, un compito irto di ostacoli e potenzialmente di fallimenti, una pratica che suscita sentimenti negativi, tra cui l’ansia, più volte nominata nelle risposte, e la percezione di inadeguatezza. Dean e Pollard (2001) sottolineano quanto sia essenziale raccogliere i sentimenti di insicurezza che gli studenti possono provare nel loro non sapere che cosa renda un interprete un bravo professionista. La soppressione di questi sentimenti, o la valutazione rivolta esclusivamente a comportamenti traduttivi, possono condurre, secondo gli autori, a stress e burn-out nella vita professionale. La stessa preoccupazione è citata da Angelelli e Baer (2016).

Aggiungiamo che riconoscere i sentimenti degli studenti nei confronti della disciplina umanizza l’oggetto dell’apprendere e rende significante la relazione didattica con il collega esperto, che può fungere da supporto (scaffold) anche emotivo (Kiraly 2000).

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autentico: la sollecitudine, ossia “impegno e interesse, non un’attitudine meramente spettatoriale” (Stanghellini 2017: 33), e la reciprocità, ossia la regolazione delle emozioni in armonia con le emozioni altrui, a raccogliere la metafora (Schütz 1976 in Stanghellini 2017) dei musicisti che imparano a prevedere le mosse (e le interpretazioni delle proprie mosse) da parte del collega con cui si sta suonando135.

L’equilibrio tra tecniche, tensione etica e atteggiamento emotivo, tra logos e pathos nel formatore è di vitale importanza. A poco serve una lista ordinata di tecniche comunicative se manca l’intento di riconoscere lo studente come persona. Il fondamento di questo reciproco accordarsi è difatti il riconoscimento dell’Altro come un qualcosa di inerentemente simile al Sé, ma al contempo diverso, autonomo, non appropriabile, in risposta a un bisogno primario della specie umana: essere riconosciuti e accettati per chi si è.

Nella didattica, ciò non esclude una forma di valutazione della performance interpretativa dello studente: ma a essere valutate sono le azioni, e non la persona (Mueller, Dweck 1998; Moè 2010). Così come, nel dialogo di classe, a essere passate al vaglio non sono le opinioni in sé, ma la loro fondatezza, il ragionamento che ne costituisce l’antecedente, l’adattabilità più o meno funzionale al contesto in questione.

Il dialogo può poi essere inteso come una delle prime, raffinate forme di indagine: nella forma del dialogo socratico diventa una conversazione che tematizza non tanto e non solo un oggetto del conoscere, ma le persone che vi prendono parte e in cui i partecipanti intervengono maieuticamente gli uni sugli altri136. Il dialogo socratico “non consiste nel sostituire false dottrine con una dottrina vera, ma nel mutare radicalmente l’orientamento morale intellettuale del lettore, che come i prigionieri nella caverna, deve essere convertito – deve girarsi – per vedere la luce” (Kahn 1996 in Stanghellini 2017: 256).

Anche in una didattica on-line, questo atteggiamento del formatore-interprete è possibile. Non più attraverso la lettura e l’interpretazione della corporeità degli studenti, ma attraverso le proprie competenze linguistiche, che gli o le consentono di modulare le tecniche conversazionali di cui sopra e di recepire o esplorare i significati portati dagli studenti nella sua veste di esperto comunicativo e “discourse analyst” (Niemants, Cirillo 2017: 6).

135 La ricerca di una sintonia di mosse conversazionali assomiglia alla figura del balletto (pas de trois) a cui Wadensjö

(1998) paragona l’interpretazione dialogica.

136 La natura maieutica del dialogo non è però quella di un parto cesareo. Una persona apprende (esplicitando, elaborando

e costruendo a partire dal proprio sapere) se porta nel dialogo la motivazione a partecipare attivamente a quest’opera trasformativa.

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La portata dell’impegno di cui si fa carico il formatore è sicuramente ingente, e gli obiettivi così alti da apparire irraggiungibili. Va ricordato che si tratta di una tensione, di un protendersi verso una meta e un atteggiamento nei confronti degli studenti: un ulteriore punto fondante nella ricerca di una didattica del riconoscimento della persona.

I.2.2 La Pedagogia degli Oppressi

La Pedagogia degli oppressi di Paulo Freire non può, né vuole, essere considerata come un metodo pedagogico137. Nella natura del metodo, il pedagogo brasiliano individua una struttura rigida, incapace di modificarsi e modularsi in quel movimento dinamico che è proprio del pensiero e dell’apprendimento come ricerca continua. Così noi l’abbiamo considerata: come un insieme di osservazioni e di stimoli che orientino una pratica didattica “problematizzante”, tra i cui obiettivi sta

137Freire si scagliava anzi contro chi tentasse di ridurre la propria pedagogia a un metodo. Tale operazione sembra in

effetti poco applicabile alla Pedagogia degli Oppressi, che propone un modo di fare e di pensare l’insegnamento come tensione e dovere etici: una stabilizzazione del messaggio fondamentalmente etico di Freire significherebbe un suo svuotamento in un’architettura fissa dove il ruolo unico del singolo docente non potrebbe essere adeguatamente preso in considerazione. Allo stesso modo, abbiamo cercato di rifuggire dall’idea di mere “tecniche” di dialogo formatore- studente, pur riconoscendo l’utilità di alcune tipologie di enunciazione nel dialogo formativo come le formulazioni, che pure hanno bisogno di essere calate in una interazione specifica (Hutchby 2005). Le tecniche, benché utili, non possono però essere considerate come una panacea: a riempire di significato l’enunciato non è la struttura della formulazione, ma la disposizione degli interlocutori in un contesto idiosincratico e dinamico. Questa visione si applica anche ai modelli di comunicazione centrata sul paziente. Essa emerge da una trasformazione della visione medico-paziente che ha non pochi punti di contatto con la visione sociocostruttivista della relazione formatore-studente: potenziamento della parte fragile e attenzione alle istanze che questa porta nell’interazione, messa in discussione delle asimmetrie conversazionali, individualizzazione del rapporto, accento sulla dimensione relazionale. Questa nuova visione della relazione medica si esprime anche in un cambiamento di rotta rispetto alle pratiche statiche e routinarie che caratterizzano il discorso medico. La Medicina si sta sempre più allontanando dalle pratiche comunicative fondate sulle formule per abbracciare i modelli operativi, come il modello SPIKES per la comunicazione di notizie infauste (Baile, Buckman et al. 2000). Il modello operativo rappresenta una strutturazione della comunicazione di segno opposto rispetto alla lista di formule, giacché tiene in conto le reazioni del paziente e la relazione che si crea nella comunicazione, proponendo ai medici scenari rappresentativi che presentano molteplici risoluzioni e non più un’unica risposta possibile. Anche in questo caso, tuttavia, perché la comunicazione sia realmente centrata sul paziente il terapeuta deve far proprio l’approccio filosofico alla base del nuovo stile comunicativo prima ancora di saper applicare il modello operativo.

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lo sviluppo di una “coscienza”, ossia di una consapevolezza del proprio essere nel mondo in un dato modo, che pure è passibile di trasformazione.

Nella Pedagogia degli Oppressi, l’apprendimento è sinonimo di conoscenza e trasformazione di sé grazie a un sapere che non è mai neutro, astratto dal mondo che l’ha prodotto e in cui gli studenti si muovono. Alla radice dell’apprendere, sia del formatore sia da quella dello studente, stanno il riconoscimento della propria incompiutezza, il desiderio di superarla e la curiosità che si apre al mondo: “La curiosità come inquietudine che spinge a indagare, […] come domanda trasformata o meno in parole […] è parte integrante del fenomeno vitale. Non vi sarebbe creatività senza la curiosità che ci spinge e che ci rende pazientemente impazienti di fronte a un mondo di cui non siamo stati artefici, ma al quale ci è permesso di aggiungere qualcosa fatto da noi” (Freire 1996 [2004]: 31). Questa affermazione mostra chiaramente il significato della pratica didattica freiriana da entrambi i lati del processo. Innanzitutto, la pratica è fatta da persone, da soggetti attivi che entrano in una relazione di scoperta, di sé e del mondo. La pratica didattica diventa pratica intersoggettiva e dialogante: il formatore non è l’unico soggetto del processo, che “pensa” mentre “gli educandi sono pensati” (Freire 1970 [2018]: 79); al contrario, educatore ed educandi sono impegnati in un processo di ricerca, in cui entrambi svolgono il ruolo di ricercatori “critici”. Critici perché è nella capacità di analizzare il mondo e gli oggetti o i processi del conoscere138 che risiede il fulcro dell’apprendimento: il compito del formatore non è “soltanto insegnare i contenuti, ma anche insegnare a pensare in modo corretto” (Freire 1996 [2004]: 27), dove per “corretto” si intende non la natura del contenuto del pensiero, ma la capacità di porsi e porre domande, l’abbandono del pensiero ingenuo a favore di un pensiero rigoroso, metodologicamente solido, fondato sul sapere teorico e allo stesso tempo consapevole delle condizioni e delle forze sociali circostanti. Per questo, il formatore freiriano “non può sottrarsi al dovere di rafforzare […] la capacità critica dell’educando, la sua curiosità, la sua vivacità anche irriverente. Uno dei suoi compiti primari è quello di lavorare con gli educandi sul rigore sistematico con cui devono ‘avvicinarsi’ agli oggetti da conoscere” (ivi).

La capacità critica, l’irriverenza nel rifiuto di accettare passivamente concetti e ricette e il rigore con cui si affronta la complessità del reale rappresentano per noi una potente miscela di capacità a cui tendere non solo come formatori di fronte agli studenti, ma anche come formatori di fronte a se stessi. Non per nulla Freire (1970 [2018]: 77) mette in guardia dall’alienazione dall’ignoranza che il formatore può manifestare nel suo credersi compiuto. Al contrario, il formatore non è il depositario di un sapere finito, ma lo sviluppa e lo approfondisce costantemente, sia nella pratica educativa con

138 A questa capacità si aggiunge il pensiero critico su di sé, che Rudvin e Tomassini (2011) hanno definito “critical self-

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la classe sia nella ricerca personale per la preparazione delle lezioni. I due momenti, in realtà, non sono scissi: non si ha un “soggetto conoscente” nel momento della ricerca e un “soggetto narrante” nel momento della trasmissione del sapere saldamente acquisito (ivi, 89). Conoscere e insegnare sono momenti tra essi comunicanti, che nel rapporto dialogico con gli studenti spesso coincidono, poiché “[i]l compito coerente dell’educatore […] è quello di sfidare […] l’educando, con cui è in comunicazione e a cui comunica, a produrre una sua comprensione di quanto gli viene comunicato. Non vi è intelligibilità che non sia comunicazione e intercomunicazione, e che non si fondi sulla dialogicità”. (Freire, 1996 [2004]: 36) Questo rapporto essenzialmente intersoggettivo è un rapporto dinamico e in quanto tale vivo: si oppone, quindi, a una concezione “necrofila” (Fromm 1965) dell’apprendimento e dell’umano, concezione che nella pratica didattica si traduce in una modalità erogativa per cui gli studenti diventano recipienti passivi del sapere altrui, trasmesso ma non ricreato. Questa visione ben si sposa con lo sguardo sociocostruttivista sui processi di apprendimento.