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CAPITOLO II APPROCCI METODOLOGICI E FILOSOFICI ALLA DIDATTICA

IV. Il potere nella didattica sociocostruttivista

IV.1 Potere come responsabilità

Abbiamo precedentemente definito il potere dell’interprete come la duplice possibilità di esercitare una propria capacità decisionale e di alterare una situazione producendo effetti sugli altri partecipanti. Questa definizione deve però sempre rispondere dei vari vincoli all’espressione di sé e del proprio

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agire posti, nel contesto, dagli altri partecipanti: in un contesto didattico, ciò riguarda nello specifico una nozione affine e in parte sovrapponibile al concetto di potere, l’autorità.

Se la nostra nozione di potere si avvicina quindi a quelle di potenza (intesa come possibilità di agire) e di agentività, la nozione di autorità mette piuttosto in campo il meccanismo dell’attribuzione sociale di un valore148 a una categoria che viene ritenuta depositaria di un sapere o di una competenza utile alla comunità, e che altri non possono svolgere in sua vece; accanto a essa stanno difatti altre categorie di individui sprovvisti di tale sapere o competenza e quindi dipendenti, nei fatti o nella forma (spesso in entrambi), dai primi.

All’interno dell’istituzione universitaria (ed educativa in genere), il docente è investito del ruolo di esperto che gode dei tre tipi di autorità (situazionale, conversazionale ed epistemica) che abbiamo riscontrato sia nella relazione medico-paziente, sia in quella interprete-paziente, e che risultano altrettanto validi per impostare un discorso sull’autorità nella relazione didattica.

L’autorità situazionale ed epistemica in aula deriva dalle relazioni e dai ruoli strutturati all’interno dell’istituzione di formazione, in cui un individuo svolge il ruolo, legittimato, di docente. A questo ruolo fanno capo diverse responsabilità, che possono essere riassunte nell’obiettivo primario dell’educazione: insegnare. Nella definizione di Paulo Freire, “insegnare” significa non “trasferire conoscenza, ma creare le possibilità per la sua produzione o la sua costruzione” (Freire 1996 [2004]: 43). Freire pone dunque l’accento sulla necessità, da parte del formatore, di mantenere la propria autorità nella progettazione delle attività didattiche e nel ruolo di guida nella costruzione collettiva del sapere. Si tratta di un’autorità che non causa l’oppressione degli apprendenti: questi non sono concepiti come oggetti su cui agisce il sapere del formatore, quanto piuttosto soggetti partecipi di una situazione in cui l’unico oggetto è quello del sapere, in una “situazione gnoseologica in cui l’oggetto conoscibile, invece di essere il termine dell’atto di conoscenza di un soggetto, è il mediatore dei soggetti che conoscono: educatore da una parte ed educandi dall’altra” (Freire 1970 [2018]: 88). La pratica educativa problematizzante supera la contraddizione educatore-studente non attraverso la negazione dell’autorità del formatore, ma intervenendo sul processo della costruzione di conoscenza, che diventa dialogico e aperto. L’autorità si configura allora, in primo luogo, come responsabilità che si manifesta sia nella progettazione delle attività didattiche, sia nel coordinamento della comunicazione con e tra gli studenti, sia in un intervento finale di risoluzione da parte del docente,

148 Tale valore può essere definito in termini di status. A differenza del predominio, lo status segnala l’esistenza di un

accordo sociale: una persona e la categoria a cui appartiene sono designati dai membri di una comunità come gli individui più adatti per il raggiungimento di un obiettivo a cui la comunità stessa attribuisce una particolare importanza (Angelelli 2004a).

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che può servire a dissipare i dubbi degli studenti149. In questo senso è necessario soffermarsi sull’espressione del sapere dell’insegnante come contributo dell’esperto autorevole. In un ambito complesso e non ordinato (ossia imprevedibile e dinamico) quale l’interpretazione, il docente può efficacemente fugare alcuni dubbi di carattere specifico, come quelli legati alla terminologia e alla pragmatica della comunicazione, ma non può fornire una risposta definitiva, proprio perché il tipo di sapere che viene costruito non è circoscrivibile, ma aperto all’influsso di diverse variabili idiosincratiche e di diverse risoluzioni. E, del resto, nella pratica didattica dialogica ciò che viene tematizzato non è (solo) l’oggetto del conoscere, ma le persone stesse, che non dibattono polemicamente, in maniera competitiva, per affermare un’idea su un’altra, ma mettono sul tavolo sia l’oggetto del sapere sia se stessi in dialogo. Rapportandosi all’oggetto epistemologico e agli altri soggetti, i partecipanti in dialogo si scoprono e si conoscono, tra sé e con il Sé. Il formatore si inserisce però in questo dialogo didattico con una posizione che è solo relativamente paritaria. Il formatore, difatti, parte da una duplice conoscenza che non appartiene, ancora, agli studenti: il formatore “come Socrate” (e come l’interprete) “conosce l’arte del dialogo” (Stanghellini 2017: 256), ne conosce il metodo e ne conosce il fine, che non coincide con il trionfo di una verità sull’altra, e forse nemmeno con la definizione dell’oggetto del conoscere. Al contrario, di fronte al problema dibattuto “l’ethos del dialogo socratico non è conoscere la cosa chiamata ‘virtù’; piuttosto è conoscere se stessi impegnandosi autenticamente nello sforzo di definire quel concetto sfuggente” (Stanghellini 2017: 258). Non sorprende, quindi, che molti dialoghi socratici siano aporetici, non abbiano, cioè, una conclusione: quel che importa non è nominare la virtù, ma nominare se stessi, le proprie idee, il proprio posizionamento rispetto al problema, al contesto, al proprio ruolo di interprete che coordina e gestisce l’interazione. Nel nostro caso, il formatore non fornisce una verità rigida – una definizione – ma guida il dialogo con gli studenti attraverso le domande che sa porre, piuttosto che attraverso le risposte che produce.

L’autorità del formatore resta però inalterata nella sua seconda funzione: come membro a pieno titolo di una comunità professionale, il formatore ha il compito di insegnare (descrivere e negoziare al contempo) le norme, i valori, l’etica e i parametri di qualità vigenti in quella stessa comunità. L’apprendimento del saper fare e del saper essere costituisce difatti un processo di acculturazione150

149 Kiraly (2000) suggerisce un intervento conclusivo di “appropriazione” da parte del docente che, raccogliendo le idee

espresse dalla classe, le interpreta e ripropone in maniera ordinata. La differenza di questo tipo di intervento rispetto alla dinamica tradizoonale sta nell’“ultima parola” (ibidem, traduzione di chi scrive) lasciata al giudizio della classe.

150 Il processo di acculturazione indica, in ambito antropologico, il processo per cui un bambino entra a far parte della sua

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in cui il formatore rappresenta il professionista formato e assume in un certo senso una funzione di tipo genitoriale151, intendendo con questo il ruolo dell’esperto che accompagna gli interpreti novizi verso una piena appartenenza sociale alla comunità. Tale tipo di formazione non può essere acquisita dagli studenti se non attraverso la relazione con l’interprete senior (o, faticosamente, sulla propria pelle nel mondo del lavoro).

Non si può però pensare che il potere venga redistribuito senza l’intervento del formatore che sceglie di farlo, e che può farlo, grazie all’autorità di cui gode. La presa di parola in aula, la possibilità di mettere in discussione, interrogare, sollecitare gli altri possono essere prerogative del formatore, oppure costituire attività conversazionali accessibili, con diversi equilibri, a tutti i partecipanti; in ogni caso, questa ripartizione dipende fortemente dall’atteggiamento del formatore in questo senso. Una distribuzione più orizzontale dell’autorità conversazionale, in cui i saperi, le opinioni, le credenze e i vissuti degli studenti ricevono spazio e riconoscimento, è possibile solo perché è il formatore a desiderarla e a impostarla in virtù dell’autorità situazionale di cui gode e di cui non può (e, a nostro avviso, non deve) liberarsi.

Vero è che il rapporto, o la contraddizione autorità-libertà (Freire 1996 [2014]: 54), sembra ancora essere spinoso nell’ambito della relazione pedagogica, forse per una malintesa identità tra “autorità” e “autoritarismo”; nonostante la letteratura in materia, in particolare quella di matrice sociocostruttivista o afferente alla pedagogia critica (Freire 1970 e 1996; Giroux 2011) abbia

culturali che costituiscono l’appartenenza a un gruppo; nel secondo, sulle competenze relazionali che consentono di comportarsi come un membro funzionale del gruppo (Chang 2008). Abbiamo preferito usare il termine antropologico ritenendo che una cultura abbracci anche le forme delle relazioni e i ruoli ritenuti possibili, nonché i significati simbolici a essi attribuiti. L’apprendimento può del resto essere considerato anche come una forma di iniziazione: nelle parole di Garrison, Anderson, Archer (2000: 95, corsivo nel testo), “[t]he educational process is largely concerned with being

initiated, not only into the common body of knowledge (i.e., public knowledge), but also into the meta-cognitive processes

and culture of a discipline or field of study”: un processo che può avvenire grazie alla relazione collaborativa e al contempo critica (in grado, cioè, di riflettere su se stessa) della “collaborative inquiry”, dell’indagine collettiva.

151 In Freire, il paragone insegnante-genitore assume un ulteriore significato, innestandosi sulla contraddizione autorità-

libertà insita nella relazione pedagogica. Il genitore che consiglia, ma non impone, consente al figlio di esplorare i propri desideri e di sbagliare, invece di preservarlo dall’errore e, così facendo, dalla scelta. Allo stesso modo il formatore deve lasciare agli studenti la libertà di decidere, e la responsabilità di farsi carico delle conseguenze delle proprie scelte: “[U]na pedagogia dell’autonomia deve centrarsi su esperienze che stimolino alla decisione e alla responsabilità, vale a dire, su esperienze rispettose della libertà” (Freire 1996 [2004]: 89). Nella didattica dell’interpretazione, gli studenti sono spesso chiamati a compiere scelte nell’ambito della simulazione: sta al formatore attirare la loro attenzione sulla loro inevitabilità: perseguendo una strada e abbandonandone altre, lo studente si fa consapevole non solo dei perché delle proprie scelte, ma dei rischi e delle conseguenze insiti in esse.

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largamente affrontato il tema, ci sembra che le parole di Paulo Freire meglio riescano a far luce sulla questione senza cadere nella retorica della rinuncia all’autorità del formatore: “È il mio buon senso ad avvertirmi che non è il segno di un mio autoritarismo l’esercizio dell’autorità152 di insegnante in classe, quando prendo decisioni, oriento l’attività, stabilisco dei compiti, esigo la produzione individuale e collettiva. È solo la mia autorità che compie il suo dovere”153 (Freire 1996 [2004]: 54). Freire ci mette qui in guardia dall’abdicare alla responsabilità dell’insegnare, poiché “l’insegnante che si esime dal compiere il suo dovere di proporre dei limiti alla libertà dell’alunno, che si sottrae al dovere […] di essere rispettosamente presente nell’esperienza formativa dell’educando” trasgredisce l’etica dell’insegnamento. Uno smantellamento non controllato della relazione di autorità-dipendenza insita nella dimensione pedagogica rischia difatti di precipitare gli studenti in una dimensione sconosciuta di totale autonomia rispetto alla materia e al proprio apprendimento quando ancora non sono pronti per sostenere questo passaggio.

Questo è il processo attraverso il quale il formatore può cercare di impostare una didattica dell’autonomia; manca però un elemento fondamentale. Se concepiamo l’apprendimento come un processo di partecipazione e di rielaborazione individuale, non si può fare a meno dell’assunzione di responsabilità da parte degli studenti come partecipanti attivi.

Che cosa significa per lo studente assumersi la responsabilità del proprio apprendimento? Innanzitutto, abbandonare una visione passiva del proprio ruolo, che sia collocato all’interno di una didattica sociocostruttivista o meno. L’ascolto attivo, l’interrogarsi, la ricerca individuale, l’applicazione sempre più rigorosa del pensiero critico e della curiosità sono obiettivi validi per ogni approccio didattico. In un approccio sociocostruttivista, questi momenti vengono apertamente incentivati attraverso strumenti e attività comunicative, in cui i processi interiori divengono espliciti e pubblici.

Tale assunzione di responsabilità non annulla l’autorità del formatore, ma la desacralizza, rendendo il formatore stesso un partner, una guida, un modello di ruolo – da accettare o meno, ma comunque un modello che indica una direzione e incarna una condizione professionale accessibile agli studenti

152 Per Freire, la tensione tra autorità e libertà si risolve nella disciplina, “risultato dell’armonia … tra autorità e libertà”,

che corrisponde a “l’accettazione da parte di entrambe di limiti che non possono essere trasgrediti” (Freire 1996 [2014]: 74). Il docente, quindi, non deve né abusare del proprio potere disconoscendo la persona e le conoscenze degli studenti, né abiurare al proprio compito di insegnante.

153 Freire insiste sul concetto di “dovere” come responsabilità etica e morale dell’insegnante nei confronti del compito

intrapreso, dei suoi studenti e di se stesso; nei confronti, potremmo dire, dell’umanità intera, perché la sua pratica critico- educativa ruota attorno al ruolo trasformativo dell’educazione nei confronti dell’intera società.

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attraverso il proprio percorso di formazione: una meta raggiungibile, passo dopo passo, grazie all’apprendimento.

Nell’“immersione nella conoscenza condivisa tra i professionisti … esercitando la propria agentività nell’adattamento e nel rinnovamento personali di quella stessa conoscenza” (Tillema, van der Westhuizen, Smith 2015: 1, traduzione di chi scrive), lo studente alimenta la propria immagine di un Sé professionale, definito come la “consapevolezza profonda della propria responsabilità in quanto partecipante attivo a un processo comunicativo complesso in cui [l’interprete] svolge un ruolo chiave che può avere effetti significativi sulla buona riuscita di relazioni commerciali, rapporti legali, terapie mediche… .” (Kiraly 2000: 13; corsivo e traduzione di chi scrive).

È qui che si assiste allora alla transizione tra responsabilità del formatore e responsabilità dello studente. Un rifiuto nell’assunzione di responsabilità da parte di quest’ultimo non inibisce l’apprendimento, ma lo rende mutilo di quella parte di investimento personale e motivazionale da un lato, e di pensiero critico dall’altro, che si esercitano nella partecipazione ragionata alla lezione. Lo studente è quindi sollecitato a riconoscere la sua parte di responsabilità: responsabilità come agentività, nella scelta del proprio agire; responsabilità come assunzione etica delle conseguenze delle proprie scelte, come futuro professionista, come studente, come individuo coinvolto in processi di trasformazione che lo coinvolgono personalmente.

IV.1.1 Autoregolazione e metacognizione: il potere come responsabilità nella dimensione digitale

Un’ulteriore modalità di assunzione di responsabilità da parte dello studente sta nell’autoregolazione, ossia nella capacità di applicarsi a un compito nutrendo la propria motivazione, dosando gli sforzi, individuando le proprie debolezze per ritentare con maggior successo la volta successiva, e alimentando così un ciclo di automotivazione che sostiene l’apprendimento stesso. In questo senso, lo studente regola ciò che fa ed esercita un controllo su di sé e sull’attività in corso volti al raggiungimento di un obiettivo.

L’autoregolazione risulta di particolare importanza per una particolare tipologia di formazione a distanza, svolta con grandi coorti di studenti (come nei MOOC) e che poggia fortemente su attività di tipo autonomo e asincrono, in cui lo studente gestisce i tempi dell’accesso al contenuto di studio. Spesso queste attività prevedono contenuti interattivi che forniscono allo studente una valutazione automatica, sollevando il docente dal carico di valutare numerose prove on-line. Le competenze sviluppate in questa tipologia di formazione puntano all’autonomia dello studente che diviene

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autodidatta in un senso nuovo: impara da solo, gestendo le proprie energie e motivazioni, attraverso l’interazione con un contenuto, spesso (ma non sempre, come nel caso delle lezioni videoregistrate) manipolabile e reattivo.

Nelle nostre sperimentazioni didattiche, abbiamo scelto di non puntare su questo tipo di attività, preferendo mantenere attività di carattere interazionale, a molti o a due, che meglio raccolgono e riproducono le caratteristiche del compito dell’interprete.

Anche nella dimensione digitale abbiamo preferito mantenere la presenza del formatore come figura di monitoraggio e di guida, facendo nostro l’interrogativo posto da Garrison (1998: 124) quando, nel criticare i presupposti autodirettivi caratteristici dell’andragogia, afferma che essi suggeriscano “a high degree of independence which is often inappropriate from a support perspective and which also ignores issues of what is worthwhile and what qualifies as an educational experience”.

Non abbiamo quindi impostato attività di studio autoregolato o esclusivamente autonome, se non per due test di inizio e fine corso per la prima sperimentazione (Labo1), in cui il test forniva automaticamente il risultato agli studenti stessi, fungendo quindi da strumento di autovalutazione. Le attività degli studenti, anche quelle individuali come il diario autoriflessivo o il glossario di classe, hanno altrimenti sempre ricondotto a un passaggio successivo in cui l’Altro fosse presente: nel caso del glossario, lavorando su un artefatto collettivo e destinato a un uso di classe; nel diario autoriflessivo154 attraverso il dialogo con la formatrice che commenta e alimenta le riflessioni dello studente. L’autoregolazione degli studenti è stata qui limitata alla creazione di momenti metacognitivi che ricevono però un’attenzione individualizzata da parte della formatrice. In questo senso, la responsabilità viene declinata nella forma dell’onestà intellettuale, non solo e non tanto nei confronti della formatrice, quanto piuttosto dei propri.

La responsabilità dello studente verso il proprio processo di apprendimento è stata promossa tramite l’impulso dato alle attività autoriflessive, che stimolano il raggiungimento dell’autonomia da parte dello studente (Kiraly 2000) seguendo un percorso diverso. Inoltre, si è scelto di individuare la responsabilità anche nella modalità di partecipazione degli studenti, riconoscendo e lasciando spazio il più possibile ai loro dubbi e alle loro curiosità, suggerendo spunti di analisi e seguendo poi il filo della discussione155. Tale espressione di partecipazione attiva si può tradurre nella nozione di potere come controllo.

154A partire dalla seconda sperimentazione: per le motivazioni di questa scelta, cfr. cap. IV, §III.1.

155 Si noti qui come il formatore assuma su di sé, all’inizio, il ruolo di motivatore e iniziatore del processo di assunzione di responsabilità. Lungi dall’essere automatico, il cambiamento nel ruolo dello studente può anzi innescare in questi ultimi delle strategie di resistenza (per lo più passiva) volte al mantenimento del ruolo tradizionale, in cui lo studente è

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