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I passaggi dell’apprendimento e la componente motivazionale

CAPITOLO II APPROCCI METODOLOGICI E FILOSOFICI ALLA DIDATTICA

II. I passaggi dell’apprendimento e la componente motivazionale

Un processo dinamico di co-costruzione della conoscenza interroga aspetti non meramente cognitivi, ma anche affettivi e relazionali. Il punto di partenza è il Sé, con il suo vissuto, le sue conoscenze pregresse, le sue aspettative, i suoi desideri: un Sé che non resta in isolamento, ma che mette alla prova le proprie ipotesi in una dimensione sociale, dibattendo con altri le proprie idee e aprendosi a un confronto in cui lo studente, esprimendosi, conosce ciò che pensa e lo struttura meglio per poter essere compreso dagli altri. È in questa apertura alla dimensione sociale che sta un momento fondamentale: nel disvelamento di sé, delle proprie idee ed emozioni139 nei confronti della collettività, lo studente si espone a forme molteplici di interpretazioni del sapere, alle molteplici prospettive di

139 Con Bruner (1988), riconosciamo l’impossibilità di scindere la dimensione cognitiva da quella affettiva (e, per

aggiungere un’ulteriore sfumatura, relazionale): l’autore, citando a sua volta Edward Tolman, afferma che: “… una teoria che non riconoscesse questa circostanza finirebbe per ‘annullare l’animale entro il pensiero’” (Bruner 1988: 131). Pensare, conoscere, sentire, agire sono meccanismi inerenti al fatto stesso di apprendere, che non possono essere dissezionati e suddivisi in singole componenti per coltivarle separatamente, o per favorirne alcune a scapito di altre. Per l’autore, pensiero, emozione e azione sono considerate come manifestazioni attive di un individuo all’interno di un sistema culturale (Bruner 1988), come posizionamenti di un individuo nei confronti di ciò che sta imparando e facendo: la relazione dello studente con le attività e gli obiettivi è più proficua quando questa relazione non è passiva né funzionale al raggiungimento di un obiettivo estrinseco, ma quando lo studente si immerge nel compito a un livello più profondo.

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una collettività. La costruzione della conoscenza si fa quindi più completa nella forma della co- costruzione, che passa attraverso un processo di interpretazione, condivisione, negoziazione dell’esperienza e del sapere a partire dalle conoscenze e dal vissuto pregressi.

Il processo di apprendimento si discosta quindi da una modalità di ricezione (apparentemente) passiva, tipica del paradigma oggettivista, di cui va tuttavia confutata la presunta inattività del soggetto che “riceve” la conoscenza nel corso della lezione frontale. Un soggetto in ascolto può sempre intervenire su quanto apprende, metterlo in relazione con le conoscenze passate ed elaborare il tutto costruendo un sapere nuovo e personale. Al contempo, l’apprendimento non si esaurisce nella pratica, nel “learning by doing”. Come affermano Niemants e Cirillo (2017: 15), imparare significa anche “osservare, discutere, decostruire, notare e, infine, prendere parte al processo di ricerca” (ivi, traduzione di chi scrive).

La differenza principale tra approcci erogativi e approcci sociocostruttivisti risiede dunque non in una dicotomia ascoltare/agire, quanto piuttosto nel ruolo che si chiede, più o meno esplicitamente, agli studenti di ricoprire: nel nostro caso, l’apprendente è chiamato a sviluppare una capacità di analisi del compito, del contesto e della propria performance sotto forma di un dialogo con il formatore, con i pari e con se stesso; passaggi in cui lo studente esercita competenze cognitive e metacognitive140 in un contesto sociale, di gruppo o nella forma uno-a-uno, attività che coinvolgono lo studente in modi e livelli diversi. L’alternanza tra momenti individuali e collettivi consente di dedicare spazio alla globalità dell’esperienza del singolo studente, riuscendo a unire disposizioni e conoscenze passate, presenti e future in un ciclo di apprendimento che non ha, potenzialmente, un termine preciso. L’apprendimento ha come punto di partenza il vissuto presente (l’esperienza di apprendimento) e si riallaccia poi alle conoscenze passate e alla storia dello studente (Kiraly 2000), per proiettarsi verso un futuro in cui, non più allievo-apprendista, lo studente diverrà membro della comunità dei professionisti. Tale ciclo mette in gioco processi cognitivi e affettivi diversi: l’analisi del vissuto presente, il paragone con quanto già si conosce, l’elaborazione di un eventuale scarto tra il sapere passato e l’interpretazione che lo studente dà della nuova esperienza, la strutturazione di questa interpretazione in un discorso argomentativo, l’ascolto e il confronto con i pari e con il formatore, la riflessione a posteriori su quanto è stato detto e motivato.

È in questa sollecitazione del Sé presente, passato e futuro dello studente che si innesta una sfera fondamentale per l’apprendimento: la dimensione motivazionale. Secondo la teoria dei Sé possibili (Markus, Nurius 1986), in ogni essere umano convivono tre tipologie di rappresentazioni del Sé: il

140 Anche nelle attività che vogliono sviluppare le competenze metacognitive si può mantenere una dimensione sociale

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Sé attuale (chi siamo in questo momento della nostra vita), il Sé ideale (chi vorremmo essere), e il Sé imperativo (chi dovremmo, a nostro giudizio, diventare). La distanza tra le rappresentazioni dell’identità futura e quella attuale motiva (Higgins 1987) ad agire (studiare, applicarsi, lavorare) per colmare questo vuoto. È però fondamentale che questo nuovo stato, in cui lo scarto tra il Sé ideale o imperativo e il Sé attuale viene (almeno parzialmente) colmato, faccia parte delle rappresentazioni del Sé coltivate e desiderate: lo studente, cioè, deve desiderare di divenire un interprete professionista, di entrare a far pienamente parte di una comunità professionale142.

Il radicamento della motivazione nel desiderio di divenire chi vogliamo essere, che riconosce l’importanza dei desideri e delle aspirazioni dello studente, rimanda a sua volta alla teoria dell’autodeterminazione di Deci e Ryan (1985a e b). Autodeterminarsi significa poter scegliere in maniera non condizionata: attività scelte, che rispondono a esigenze o desideri personali, vengono percepite come proprie; attività imposte da un agente esterno, che non riescono a divenire rilevanti per la vita dello studente, costituiscono invece forme deboli di motivazione, stati passeggeri del meccanismo motivazionale: al termine della imposizione esterna, tale motivazione estrinseca scema se non corrisponde ai propri obiettivi.

In questo senso, motivazione a scegliere e locus del controllo interno (la percezione di poter controllare lo svolgimento di una data esperienza) vanno di pari passo, plasmando diversi stati motivazionali. Questi divergono per il grado di identificazione con il compito, percepito come più o meno “proprio” e rilevante, e per la capacità dello studente di autoregolarsi, ossia di modulare il proprio impegno e il proprio lavoro in direzione del raggiungimento di un obiettivo, la cui natura varia a seconda dello stadio motivazionale. Deci e Ryan (1985a e b) propongono una “scala dell’autodeterminazione” che mostra l’identificazione del Sé con il compito e il livello di motivazione corrispondente. La rappresentazione della motivazione come una scala, fatta di gradini diversi, sta a indicare che la motivazione non è un parametro binario (presente/assente), ma può essere declinata lungo un continuum, aumentare o diminuire a seconda delle circostanze interne o esterne.

Lo stadio alla base della scala è rappresentato dall’assenza di motivazione: il compito è percepito come irrilevante, voluto da altri, incapace di farci esperire una nostra competenza. Lo stadio dell’identificazione è nullo: la persona esprime un “Non sono”. “Non sono” un interprete, non sono interessato, non sono capace, non sono attivo in questa esperienza. Lo studente non si impegna, non prova soddisfazione, non partecipa.

142 La consapevolezza di questo desiderio può costituire, a sua volta, una forma di metamotivazione (Moè 2010) e

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Il passaggio successivo si incentra sull’adesione alle richieste eterodirette di un insegnante (o di un’altra figura che rappresenta l’autorità, in grado di indirizzare e controllare il nostro operato). La motivazione è estrinseca, corrisponde allo stadio del “Devo”. “Devo” studiare per poter ottenere un buon voto o una lode, per superare l’esame, per evitare una punizione: tutti passaggi che pongono un obiettivo al di fuori della sfera interiore, rendendolo dipendente dal giudizio o dalle sollecitazioni altrui. Se proseguiamo nella scala della motivazione, i passaggi successivi corrispondono, prima, a una regolazione introiettata di carattere imperativo (“Dovrei”) e poi a una regolazione per identificazione, in cui l’obiettivo da raggiungere è riconosciuto come rilevante per il Sé (“Vorrei”). “Vorrei” riuscire nel compito, essere competente, esprimermi in questa attività, cimentarmi. Lo stadio successivo è caratterizzato da una regolazione integrata, in cui gli obiettivi del compito sono percepiti come parte di ciò che è importante per la nostra soddisfazione personale, per colmare dei bisogni intrinseci, per soddisfare le esigenze del Sé: “Voglio”. Infine, l’apice della scala delle motivazioni è la motivazione intrinseca: “Sono”. “Sono” un interprete in nuce, “sono” uno studente che sta lavorando per conquistare la rappresentazione ideale o imperativa del mio Sé futuro. Io “sono” quello che sto facendo, mi identifico con l’attività, ne traggo una soddisfazione che nasce dal potermi esprimere in qualcosa di altamente rilevante.

La teoria dell’autodeterminazione poggia su tre bisogni presenti in ciascun individuo, la cui soddisfazione genera appagamento e benessere. Si tratta dei bisogni di autonomia, competenza e relazione. Autonomia nel poter scegliere a che cosa dedicarsi; competenza nell’esprimere una propria capacità; relazione nell’agire in un contesto sociale, con l’Altro.

Questi bisogni – in particolare il bisogno di competenza e il bisogno di relazione – possono essere raccolti e coltivati grazie alle pratiche didattiche che caratterizzano l’educazione sociocostruttivista. Si tratta dei momenti denominati modelling, coaching, scaffolding e fading, che accompagnano la trasformazione del ruolo del formatore da fulcro della lezione a guida143 degli apprendenti.

Il termine inglese scaffolding (Vygotskij 1978), che significa “impalcatura”, rende bene l’idea: il formatore costruisce, attraverso attività e feedback formativo, un percorso in cui lo studente passa a

performances sempre più complesse in sempre maggiore autonomia, con una riduzione

dell’intervento del formatore. Nelle prime fasi l’intervento può essere rappresentato da una

performance (Kiraly 2000), che consente il modellamento di ruolo (o modelling): assistendo144 alla

143Il termine “guida” riecheggia in una diffusa metafora di ruolo nella didattica, che contrappone il tradizionale “sage on

the stage” al collaborativo “guide on the side” (Anderson 2004; Kiraly 2000 per un uso in contesto dei due termini). 144 Lave (in Collins et al. 1989) ribadisce il ruolo dell’osservazione come un primo cruciale passaggio nell’acquisizione delle competenze da parte dell’apprendista: l’osservazione del compito eseguito da un esperto servirebbe difatti agli

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prestazione di un professionista, o agli interventi correttivi del professionista alla propria

performance, lo studente osserva i processi euristici che sottendono le scelte e le strategie messe in

campo145. Poiché novizio ed esperto differiscono per il modo in cui affrontano un problema (Jacobson 2001), il principale compito del formatore sta nel proporre una modalità di lavoro su una questione complessa. Ciò significa prima di tutto saper porre le domande giuste, agli studenti e a se stesso (Skaaden 2013), domande che avvicinano alla comprensione del problema e, quindi, alle sue possibili e diverse risoluzioni, piuttosto che fornire una ricetta o strategia prefissata da riprodurre invariabilmente.

Man mano che lo studente costruisce le proprie competenze146, l’intervento del formatore può modificarsi ed esprimersi in suggerimenti, rimandi a materiale significativo, spiegazioni inerenti alla produzione teorica della comunità professionale di riferimento, incoraggiamenti (coaching): il formatore si produce quindi in modalità di gestione della comunicazione, di supporto emotivo e di

studenti a creare un proprio schema del compito da svolgere prima di tentare in prima persona. Lave individua tre passaggi dell’apprendimento: l’osservazione, l’apprendistato (coaching) e la pratica; Collins (1989) sottolinea che gli stessi passaggi possono essere descritti dal punto di vista delle azioni del formatore, e corrispondere al modellamento, all’apprendistato e alla dissolvenza (fading).

145Due autori nel campo degli studi sull’expertise, Bereiter and Scardamalia (1993), sottolineano l’importanza di tre

tipologie non strategiche di conoscenza, definite informale, impressionistica e di autoregolazione. La prima nasce dalle nostre interazioni con la realtà circostante; la seconda dalle intuizioni, epifanie cognitive che nascono dalle esperienze e che non sappiamo spesso definire in maniera precisa e sistematica; e, infine, le conoscenze legate all’autoregolazione aiutano il professionista a programmare il proprio impegno in vista del completamento dell’incarico. Nell’ambito della traduzione si è cercato di indagare i processi cognitivi del traduttore attraverso le analisi delle battiture sul computer (che rivelerebbero i meccanismi mentali, le scelte fatte e scartate) e i Think-Aloud Protocols (TAPs), in cui il traduttore che partecipa allo studio descrive verbalmente i propri pensieri mentre affronta il testo da tradurre. Benché siano stati usati in diversi studi (Braun 2006; cfr. Kussmaul, Tirkkonen-Condit 2018), i TAPs costituiscono a nostro giudizio solo una illusoria apertura delle porte al mondo della ragione e della creatività, perché necessitano dell’esplicitazione verbale di processi cognitivi a volte de-verbalizzati e non sempre accessibili alla coscienza. Inoltre, entrambe le strategie sono negate all’interprete, che lavora in una finestra temporale che coincide, o si avvicina, alla simultaneità tra pensiero e azione. 146 Prensky (2000) propone un elenco di conoscenze e competenze, collegandole alle attività che ne consentono l’apprendimento (non tutte di natura collaborativa e/o di costruzione individuale del significato). Tra queste ultime, quelle che interessano la didattica dell’interpretazione riguardano l’apprendimento di: comportamenti, tramite l’imitazione, il feedback e la pratica; capacità valutative, attraverso l’analisi di casi, domande, scelte, il feedback e il coaching (l’accompagnamento da parte di un senior); competenze linguistiche, tramite l’imitazione, la pratica e l’immersione; procedure, tramite l’imitazione e la pratica; competenze, attraverso l’imitazione, il feedback, la pratica continua e l’aumento progressivo della difficoltà (che potremmo collegare allo scaffolding). Va sottolineata la preponderanza dell’apprendimento “pratico”, ossia in un contesto autentico in cui lo studente possa esercitarsi.

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introduzione di discorsi traduttivi che siano accettabili per le comunità professionali (Kiraly 2000) e “profane” con cui lavora, nel nostro caso, l’interprete telefonico in ambito medico.

Queste quattro tappe, a cui si aggiunge un’attenzione particolare alla dimensione metacognitiva (Trentin 2008), strutturano il processo dell’“apprendistato cognitivo”: questa espressione arricchisce nella sua formulazione metaforica lo spettro delle azioni possibili al formatore. Come suggerisce Kiraly (2000), questo tipo di intervento da parte del formatore può essere paragonato all’educazione del garzone di bottega, che lavora sotto la guida di un collega esperto147. Tra le due situazioni vi è però una differenza chiave: l’apprendista-interprete non lavora ricorsivamente su porzioni circoscritte di un’opera prima di poter accedere a un livello successivo di difficoltà; al contrario, gli studenti affrontano opere (ossia attività) dall’architettura complessa e completa, in cui il livello di difficoltà è graduato sia grazie all’intervento più o meno rilevante del formatore, sia nei termini di una semplificazione della realtà comunicativa che viene proposta allo studente (cfr. cap. III, infra). Al termine di questo percorso, l’impalcatura non è più necessaria: l’edificio sta in piedi da solo, e così lo studente; il formatore ha ridotto progressivamente il suo intervento e può ora lasciare spazio alla pratica “in solitaria” dello studente.