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CAPITOLO I L’INTERPRETAZIONE TELEFONICA IN AMBITO MEDICO: TRATT

IV. Il discorso medico come discorso istituzionale asimmetrico

L’interpretazione in ambito medico accoglie al suo interno situazioni comunicative assai variegate, che vanno dalla prenotazione di un servizio, alla visita diagnostica, al follow-up, alla comunicazione di notizie infauste (e molto altro, con pazienti di varie età, generi, provenienze, condizioni fisiche e mentali); ciascuna di queste situazioni pone all’interprete difficoltà diverse. E tuttavia, nel loro insieme condividono una comune fisionomia, che risulta evidente da un approfondimento della natura istituzionale di questo tipo di discorso dalle caratteristiche ben precise.

Tre sono i macrotratti individuati da Drew, Heritage (1992; Heritage 1997) che distinguono il discorso istituzionale: l’orientamento di almeno uno dei partecipanti verso un obiettivo o un’attività associata alle proprie identità istituzionali; la presenza di vincoli specifici relativi ai contributi ritenuti accettabili (e quindi possibili) da parte di almeno uno dei partecipanti; l’esistenza di frameworks e procedure tipiche del singolo contesto istituzionale. Il discorso medico (interpretato e non) si distingue tuttavia da altri tipi di parlato istituzionale, come il discorso giuridico, per una minore rigidità nell’assegnazione dei turni (Amato 2017) e per la natura potenzialmente empatica e non antagonistica dell’attività discorsiva, due fattori che vanno a influire sia sulle attività svolte dall’interprete, che deve regolare i turni di parola in maniera più attiva, sia sul ruolo che svolge di intermediario tra i partecipanti

39 Un esempio particolarmente significativo è dato dall’ospedale Ramón y Cajal di Madrid, che fornisce un servizio di

assistenza al paziente in ingresso in quattro lingue, un servizio di interpretazione telefonica simultanea, un supporto alla traduzione di documenti svolto dai mediatori culturali e un software multilingue interattivo usato nella rete interna dell’ospedale.(http://www.madrid.org/cs/Satellite?language=es&pagename=HospitalRamonCajal%2FPage%2FHRYC_ home, ultimo accesso: 03/04/19). Un altro esempio eccellente, questa volta in ambito non europeo, è dato dal California Stanford University Hospital, un ospedale universitario caratterizzato da una utenza fortemente diversificata a livello linguistico. Di quattrocento appuntamenti al giorno per cui è necessario il supporto di un interprete, duecento avvengono in modalità presenziale e i restanti duecento sono equamente distribuiti tra interpretazione telefonica e in videoconferenza (A. Villagran, comunicazione presentata allo Shift in Orality Final Multiplier Event: Remote interpreting: Shaping present

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Una prima divergenza nei formati partecipativi degli interlocutori si ha nell’orientamento di un parlante, il medico, con l’istituzione che contiene l’interazione. Questo allineamento consiste in una sovrapposizione tra obiettivi dell’istituzione e obiettivi del medico, la cui identità individuale è circoscritta e alimentata dall’istituzione in cui questi esercita il proprio ruolo e che gli conferisce in quanto suo rappresentante un’autorità situazionale40 (Amato 2007); a tale condizione il paziente, che rappresenta unicamente se stesso (Pöchhacker 2004), non può in alcun modo accedere. Nella sua esigenza di risposta a una domanda personale e significativa, la domanda di salute, il paziente si trova al contrario collocato nella parallela dimensione della dipendenza situazionale: desidera una cura a cui non può provvedere da solo (Amato 2007)41.

Il disequilibrio nell’autorità situazionale si riflette anche nel diverso carico emotivo portato all’incontro. Heritage (1997) ne fa una classe a parte di asimmetrie: le asimmetrie nella competenza interazionale e istituzionale. Ciò che per il paziente è un evento unico e potenzialmente angosciante, è per il medico una procedura routinaria; ciò che per il paziente è ignoto (il protocollo che guida le azioni del terapeuta), per il medico è una prassi consolidata e quotidiana.

Il secondo tratto, legato alla presenza di vincoli discorsivi ben determinati, esprime un’ulteriore manifestazione di asimmetrie, ben segnalata da Alexieva (1997), che individua il differenziale di potere non solo nell’affiliazione istituzionale di uno degli interlocutori, ma anche nelle sue conoscenze specialistiche non condivise42. Il terapeuta, portatore dell’autorità epistemica, incarna un Sapere solo parzialmente accessibile al paziente che appartiene a una cultura altra, quella dei “profani”43. Le differenze nella familiarità con le norme comunicative, le procedure istituzionali e l’oggetto del sapere medico risultano quindi in una “unequal capacity to control how texts are produced, distributed and consumed (and shaped)” (Fairclough 1995). In tal modo l’incontro è

40 O potere istituzionale (Rudvin, Tomassini 2011).

41 Questo aspetto della relazione medico-paziente, che poggia sul rapporto tra autorità situazionale e dipendenza

situazionale, viene letta da alcuni (ten Have 1999, Heritage 1997) come un rapporto di richiesta/erogazione di servizio, in cui il medico è l’agente istituzionale e il paziente il cliente. Tale lettura ci sembra però, pur nella sua giustezza descrittiva, negare la vulnerabilità del paziente e i tratti asimmetrici inerenti allo scambio comunicativo, che contribuiscono a minare la visione di una relazione paritetica tra un richiedente e un fornitore.

42 Corsellis (2008) nomina il potere come fattore che può caratterizzare la comunicazione in ambito medico: “There may

also be imbalances of power to be addressed, arising from the amount of shared knowledge” (Corsellis 2008: 29). L’autrice, tuttavia, non specifica come queste asimmetrie possano o debbano essere gestite dall’interprete.

43 Ciò è tanto più vero per la persona straniera, che non padroneggia né la lingua, né i sistemi di cura del paese ospitante,

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pervaso da asimmetrie conoscitive di carattere strutturale che trovano fondamento nei ruoli e nei diritti all’accesso al sapere (Heritage 1997) che ai ruoli sono collegati: accade difatti che l’interazione sia organizzata attraverso specifiche strutture comunicative in modo da costruire la figura dell’“esperto” e quella del suo contraltare, il “profano”, il cui spazio comunicativo viene limitato (quantitativamente) o marginalizzato (qualitativamente). Al contempo, il paziente stenta a portare alla luce la propria esperienza e le proprie conoscenze, seppur pertinenti all’obiettivo dell’interazione; quando ciò avviene, spesso queste conoscenze vengono attribuite esplicitamente dal paziente a un incontro con un altro esperto (ten Have 1999).

L’organizzazione tipica del discorso medico rimanda al terzo punto della triade individuata da Heritage (1997): essa costituisce una impalcatura ben precisa che circonda l’incontro medico. La procedura prevista per la visita diagnostica segue dei passaggi fissi che costituiscono il protocollo del terapeuta o dell’operatore, passaggi espressi attraverso azioni discorsive che possono essere considerare una forma di ibridazione tra parlato spontaneo e programmato (Angelelli 2004a). Tali passaggi (o fasi) sono stati descritti per la prima volta da Byrne e Long (1976); noi utilizzeremo qui però la terminologia di Robinson (1998; Stivers 2002; Robinson 2003; Robinson, Heritage 2005), che individua le medesime fasi:

1. Apertura;

2. Presentazione del problema; 3. Raccolta delle informazioni; 4. Diagnosi;

5. Terapia; 6. Chiusura.

Ogni fase prevede specifiche attività discorsive (Levinson 1992) organizzate in sequenze: saluti nelle parti 1 e 6, domande e risposte nelle fasi 2 e 3, valutazioni e spiegazioni mediche nella fase 4 e istruzioni relative alla cura nella fase 5 (Amato 2017).

In ciascuna fase si svolgono determinati tipi di attività che “presuppon[gono] l’esistenza di una determinata serie di vincoli per i partecipanti, soprattutto in termini di contributi, cioè azioni, possibili o quantomeno accettabili nell’attività in questione, in virtù delle sue forze costitutive di natura culturale, sociale e comunicativa (gli obiettivi)” (Bendazzoli 2010: 56). Le fasi divergono quindi per livello di spontaneità, tempo a esse dedicato, intervento dei partecipanti e scopi, e sono regolate dal regista dell’interazione, il medico.

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prassi tipiche di altri tipi di conversazione44, dove nella prima fase i partecipanti agiscono salutando e presentandosi, affermando in tal modo il proprio diritto a partecipare all’interazione: si assiste quindi a una forma di rivendicazione dello status di partecipante.

La seconda fase è caratterizzata dall’esposizione, da parte del paziente, di una problematica che deve essere valutata in quanto doctorable (Robinson, Heritage 2006), ossia riconosciuta come valida motivazione per il ricorso al servizio del terapeuta.

La terza fase prevede il medico nel ruolo di questioner e il paziente in quello di answerer (Drew, Heritage 1992; Heath 1992; Fairclough 2003). È in questa fase che si esprime più chiaramente il genere dell’incontro medico come “intervista” (Ainsworth-Vaughn 2001), con uno dei partecipanti legittimato a porre domande e l’altro nella posizione di dover rispondere. In questa fase assistiamo allo scontro delle due voci tipiche dell’incontro medico: la “voice of the world”, in cui il paziente trasmette ciò che più gli o le preme e che fa parte del suo vissuto di malattia, e la “voice of medicine” (Mishler 1984), che seleziona i contenuti rilevanti per il conseguimento dell’obiettivo di cura. La quarta e quinta frase differiscono per la maggior probabilità di un intervento attivo da parte del paziente, più rara nella fase della diagnosi rispetto al momento della prescrizione terapeutica. Si può osservare che le azioni discorsive espresse nelle fasi finora descritte accentrano l’interazione sulla figura del medico. Il discorso medico rappresenta difatti una “conversazione diseguale” (Orletti 2000), in cui un partecipante che gode di maggiori diritti conversazionali dirige l’interazione attraverso la selezione del parlante, degli argomenti e delle azioni.

Nel colloquio medico, sono diversi i modi attraverso i quali il terapeuta o l’interprete possono così regolare i contributi del paziente all’interazione45, ad esempio limitando lo spazio di parola del

44 Sacks, Schlegoff e Jefferson (1978) considerano la strutturazione del parlato non spontaneo (di cui quello istituzionale

è un esempio) come una variazione del modello di base, costituito dalla conversazione.

45 La questione delle asimmetrie discorsive è affrontata dal paradigma della Comunicazione centrata sul paziente (Engel

1988; cfr. Appendice, scheda “La comunicazione centrata sul paziente”). Tale modello conduce a considerare la relazione medica come un’alleanza terapeutica in cui medico e paziente sono attori che processano insieme l’esperienza di malattia e in cui il paziente viene considerato parte attiva nella propria terapia. Il paziente viene riconosciuto come portatore di un sapere unico, legato al vissuto individuale della malattia: in questo modo, si colma parzialmente l’asimmetria epistemica che caratterizza l’impostazione tradizionale dell’incontro medico-paziente in biomedicina. Si tratteggia così una nuova visione della cura che prende il nome di Medicina narrativa. Il termine attesta l’importanza data alla soggettività del paziente e al dialogo tra paziente e curante: il paziente emerge dal ruolo di oggetto dell’informazione per farsi soggetto all’interno di una comunicazione (Foucault 1975). Per il medico, fuoriuscire da una valutazione stringente degli argomenti ritenuti pertinenti e rinunciare all’esclusività del ruolo autorevole significa minare in parte le caratteristiche del discorso istituzionale; ciò produce inoltre importanti conseguenze sullo svolgimento del lavoro all’interno dell’istituzione, a riprova degli effetti dell’organizzazione delle attività discorsive sullo svolgimento della missione dell’istituzione: la

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paziente o impostando un recipient design (Schegloff 1972) escludente attraverso scelte lessicali, grammaticali, sintattiche fortemente verticalizzanti che aumentano il gradiente epistemico (Niemants 2015) tra esperto e profano.

Queste caratteristiche ritornano anche all’interazione medica mediata, caratterizzata dalla presenza di un ulteriore partecipante all’interazione, l’interprete: un partecipante sui generis che rappresenta l’esperto linguistico e comunicativo in grado di accedere a entrambi i sistemi linguistici e culturali di riferimento46. Nel suo attraversare la cultura specialistica e quella profana, l’interprete contribuisce a selezionare i contributi pertinenti di entrambi i partecipanti e a setacciare i turni del paziente alla ricerca delle informazioni ritenute pertinenti ai fini dell’incontro. In questo senso, l’interprete detiene un controllo sull’accesso alle informazioni (da parte di entrambi i partecipanti) o a un servizio (da parte del paziente), un ruolo che lo investe di una particolare autorità situazionale e comunicativa. A questa si aggiunge un’autorità epistemica data dalla condivisione, seppur parziale, del sapere medico che deriva dalla familiarità con la terminologia e le procedure terapeutiche.

I diritti conversazionali dell’interprete sono non solo superiori a quelli del paziente, ma tali da consentire all’interprete di gestire almeno in parte la comunicazione conferendo ad altri il diritto di esprimersi (Iglesias Fernández 2017) grazie anche al ruolo di coordinamento svolto. Selezionando gli argomenti e regolando il flusso delle informazioni, l’interprete assume il ruolo di gatekeeper

relazione medico-paziente diviene più individualizzata e personale, rendendo così più complessa l’intercambiabilità della figura del terapeuta; i tempi dell’incontro si dilatano e richiedono al medico una maggior capacità di adattamento alle richieste del paziente, nonché conoscenze più ampie, in grado di dare risposte differenti alle differenti esigenze terapeutiche. Problematizzando questa nozione e adattandola alla dimensione dell’incontro interpretato, è stato chiesto agli studenti di analizzare i contesti delle simulazioni e trovare soluzioni traduttive che portassero a uscire dall’impasse legata alla passività del paziente espressa sotto forma di silenzi o di risposte minime. Accanto a un’analisi delle strategie possibili nel corso dell’interpretazione telefonica per assicurare una buona erogazione del servizio, è però altrettanto necessario interrogarsi sull’opportunità, lo spazio e le conseguenze degli interventi dell’interprete. Anche il modello della Comunicazione centrata sul paziente deve essere una idea a cui ispirarsi e non una rigida cornice da applicare a tutte le interazioni: non tutti i pazienti, difatti, possono desiderare una propria centralità, preferendo affidarsi all’esperto.

46 Si è notato che l’interprete tra lingue affini non sempre procede alla traduzione di quanto detto, se i partecipanti danno

segno di comprensione: “[l]es manifestations directes de compréhension font de la traduction une réponse non pertinente et déterminent de ce fait la renégociation de l’activité de l’interprète. Comme le dit Anderson (2012), l’interprète paraît se mettre en “stand-by”, vigilant sur la compréhension dans l’interaction et n’intervenant que pour contribuer à co- construire un terrain commun” (Niemants 2015: 71). Tuttavia, non è possibile per l’interprete telefonico procedere agilmente a questa attività di monitoraggio silente: la comunicazione telefonica abbisogna di una maggior chiarezza e linearità nella distribuzione dei turni a causa della mancata co-presenza dei partecipanti all’interazione.

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(Davidson 2000). Tale ruolo può accompagnarsi a un allineamento47 con la parte istituzionale, privilegiandone gli interessi, gli obiettivi, i valori che si esplicano anche a livello comunicativo nell’interazione con la persona che richiede il servizio. Da parte dell’interprete, tale allineamento può essere esplicitato nella frase di apertura e di autoidentificazione. Angelelli (2004a) ha analizzato questa formula di apertura per individuare il posizionamento dell’interprete nei confronti dell’istituzione del paziente. “Sono qui per aiutarla”, “Sono l’interprete dell’ospedale”, “Sono il suo interprete” sono piccole frasi che diventano routinarie, ma che rivelano la percezione di sé dell’interprete e porzioni della sua condizione lavorativa: dipendente dell’istituzione, freelance, dipendente di una società erogatrice del servizio che ha sviluppato protocolli e procedure comunicative più o meno stringenti.

Un’ulteriore manifestazione dell’allineamento dell’interprete con l’una o l’altra parte sta nell’eventuale esplorazione dello stato emotivo del paziente e nel modo in cui le sue istanze (dubbi, timori, contrarietà) vengono riportate o rimosse dalla resa dell’interprete. Potendo discriminare tra elementi più o meno rilevanti per l’interlocutore istituzionale, l’interprete funge di fatto da filtro tra i due interlocutori, privilegiando il buono svolgimento della procedura o decidendo di ammettere la validità degli argomenti fatti emergere o suggeriti dal paziente. Così come nel discorso medico monolingue è il terapeuta a selezionare gli argomenti che sono ritenuti “dottorabili” (doctorable; cfr. Robinson, Heritage 2006), così nel discorso medico interpretato l’interprete seleziona ciò che è giudicato “interpretabile”, che si tratti di informazioni fattuali o collegate a uno stato emotivo o a un orientamento del paziente.

47 Con una prospettiva più strettamente didattica, Wenger (2010) indica tre modalità di partecipazione e identificazione

(chiamate, in un testo precedente dello stesso autore, modes of belonging, “modalità di appartenenza; cfr. Wenger 1998) a un’attività all’interno di una comunità di pratiche. Tali modalità descrivono i possibili atteggiamenti partecipativi di un individuo (studente, interprete…) all’interno di un sistema il cui senso, come il senso della propria presenza nel sistema, deve essere elaborato. Le tre modalità sono: 1) coinvolgimento (“engagement”): la prima e più tipica modalità che riguarda il prendere parte a un’attività, che ciò sviluppi una identità legata alla partecipazione, o meno; 2) immaginazione: l’individuo che prende parte a un’attività costruisce delle immagini di sé in quel contesto, del contesto in senso ampio, di altri individui impegnati in quella stessa attività, contribuendo così alla definizione di un immaginario e di un sapere rispetto alla pratica; 3) allineamento: l’individuo contribuisce attivamente alla gestione dell’attività, anche in piccola parte. L’allineamento conduce alla creazione di relazioni di identificazione che strutturano il sé, come il rispetto di un codice deontologico. Interessante l’affermazione di Wenger a proposito del significato dell’allineamento: “alignment […] is not mere compliance or passive acquiescence; it is not a one-way process of submitting to external authority or following a prescription. Rather it is a two-way process of coordinating perspectives, interpretations, actions, and contexts so that action has the effects we expect” (Wenger 2010: 181-2). Quest’ultimo punto ci sembra corrispondere all’allineamento dell’interprete nei confronti dell’uno o dell’altro partecipante.

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