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CAPITOLO II APPROCCI METODOLOGICI E FILOSOFICI ALLA DIDATTICA

II. Le attività didattiche

II.3 La lezione on-line

II.3.3 Il journal de l’étudiant

Non tutti i diari sono uguali: essi si distinguono infatti per le ragioni che spingono l’autore a impugnare la penna, per gli obiettivi che si desiderano raggiungere, per la presenza o meno di un lettore (noto o anche solo ipotizzato), per una sua eventuale valutazione in un contesto educativo. L’obiettivo determina quindi la forma e il contenuto del diario, anche all’interno dell’ambito della diaristica in un contesto di apprendimento. Gli scopi per cui un diario viene proposto come attività didattica possono difatti essere svariati, quali “una maggior profondità nella qualità dell’apprendimento, sotto forma di pensiero critico o di un atteggiamento inquisitivo; … il potenziamento … del sé professionale nella pratica; … il potenziamento del valore di sé che ci si attribuisce, in direzione di un proprio empowerment223; … la possibilità di dare una ‘voce’ a coloro

che non sono bravi a esprimersi” (Moon 1999, traduzione di chi scrive). Tutte queste possibilità si radicano nel ruolo attivo dello studente, che, nello scrivere il diario, ha la possibilità di manifestare e sviluppare delle competenze metacognitive, relazionandosi in una nuova maniera a una situazione e a una esperienza passata. Questo movimento oscillatorio tra presente, passato e futuro224, tra le azioni che abbiamo compiuto e gli effetti di quelle azioni sul contesto, sugli altri partecipanti e su noi stessi (Dewey 1916) non solo si inserisce nell’ambito delle competenze metacognitive proprie del professionista efficace (Schön 1983), ma è parte costitutiva dell’essere persona. “[E]ssere una persona ha inevitabilmente un carattere interpretativo” (Stanghellini 2017: 40, corsivo dell’autore), poiché grazie alla possibilità di produrre uno sguardo eccentrico su di sé, l’essere umano ritorna su ciò che

223Moon (1999) parla di “self-empowerment”. Nel nostro caso, abbiamo sottolineato l’importanza del diario come

occasione di dialogo potenziante con la formatrice, ritenendo che l’apprezzamento di sé passi attraverso l’apprezzamento di un’altra persona, in particolare se questo Altro rappresenta la figura dell’esperto.

224 Sollecitato dalla presenza di un Sé imperativo o ideale dello studente in relazione con la professione, o con il suo progetto di vita, cfr. Stanghellini (2017).

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ha fatto e cerca di ricostruire il suo passaggio attraverso le esperienze vissute per conferire loro un senso.

L’essere umano non è quindi solo soggetto agli eventi, ma soggetto degli eventi: egli (o ella) contribuisce a plasmarli, e deve rendere conto a se stesso del modo in cui ne è plasmato. Ciò avviene grazie alla narrazione interiore, che recupera le esperienze e le struttura in una forma ordinata, coerente con le narrazioni che riguardano il Sé. L’identità narrativa (Ricoeur 1990), l’insieme di narrazioni che strutturano il Sé e la sua relazione continuata con il mondo, è quindi il costrutto che ci consente di mettere in dialogo il noto (anche nella rappresentazione e nell’immagine di sé) con l’alterità, l’ignoto in noi stessi o nel contesto che ci circonda, dando quindi un senso ai vissuti esorbitanti e consentendo di integrare la polarità insita nell’identità umana tra persistenza e cambiamento nel corso del tempo (Stanghellini 2017).

Il diario autoriflessivo rappresenta uno spazio in cui la struttura narrativa dell’identità si incarna in una narrazione specifica, oggettivata dall’atto dello scrivere, estratta dalla propria interiorità e resa accessibile, prima di tutti a chi scrive. Obiettivo del diario è permettere allo studente non solo di stabilire un rapporto tra teoria e pratica, ma di integrare gli aspetti molteplici della sua personalità (intra- e interpersonali, cognitivi, emotivi, professionali; cfr. Bruno, Dell’Aversana 2016) in una forma significante e coerente.

Il processo stesso della scrittura consente di dare all’esperienza una forma che può essere facilmente ripercorsa molteplici volte, mettendo così in relazione passato, presente e futuro; il diario rappresenta difatti sia un archivio del passato, in cui eventi e vissuti sono ripresentati in una forma organica, sia il luogo in cui essi sono ripercorsi, rielaborati e trasformati (Boud 2001). Questo chiama tuttavia in causa un nodo cruciale: la natura privata, o meno, del diario. Affinché la riflessione non riproduca passivamente meccanismi cognitivi o emotivi già da tempo ingranati nello studente, ma riesca a innescare ragionamenti nuovi attraverso uno spostamento del proprio punto di vista, può essere sufficiente l’atto dello scrivere e del riflettere in solitaria?

Riteniamo che la risposta a questo interrogativo sia negativa. Lo studente in interpretazione, alle prese con una disciplina complessa, che lo o la mette in gioco a livelli profondi, può non riuscire a distinguere nella propria performance gli elementi più o meno funzionali, così come la mancata conoscenza del mondo lavorativo o delle elaborazioni teoriche attorno all’etica e alla deontologia può ostacolare l’individuazione delle criticità e delle soluzioni adeguate. Non da ultimo, la presenza di emozioni a tono negativo e di un scarso senso di autoefficacia possono essere un ostacolo difficilmente superabile da soli. Non ci troviamo qui d’accordo con Boud (2001: 12) quando afferma che solo i sentimenti o le emozioni positivi debbano essere “celebrated as it is these which will enhance the desire to pursue learning further”, giacché riteniamo che non l’emozione, ma dei costrutti

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superiori regolino l’approccio dello studente all’apprendimento, quali l’attribuzione del locus di causalità, la teoria dell’intelligenza nutrita dallo studente225 e – soprattutto – la percezione di autoefficacia, che consente di affrontare anche eventi ritenuti temibili, ed effettivamente temuti, osservandoli però sotto l’angolazione della sfida. Tuttavia, una percezione lacunosa di autoefficacia può essere nominata, affrontata e, si spera, superata grazie all’intervento potenziante di un Altro significativo, come un pari o, a maggior ragione, un formatore. “Soffrire”, del resto, serve soltanto se “produce conoscenza” (Cioran 1956 in Demetrio 2003: 29): se ci consente, cioè, di capire quali sono le nostre fragilità e le nostre mancanze, e come possiamo lavorare su di esse per colmarle o considerarle sotto un nuovo punto di vista.

Queste riflessioni ci hanno indotto a modificare l’approccio al journal de l’étudiant tra la prima e la seconda sperimentazione, accanto all’osservazione di numerose istanze di richiesta di feedback alla formatrice sia in forum che in chat nel corso del Labo1.

In entrambi i laboratori, il journal è stato proposto come attività asincrona, individuale, on-line. Al termine della lezione, la studente che ha svolto il ruolo dell’interprete durante la simulazione redige un proprio diario autoriflessivo in cui dimensione emotiva e cognitiva vanno di pari passo. La studente indaga le proprie emozioni prima, durante e dopo la performance accanto alle scelte traduttive messe in pratica, di cui analizza l’efficacia. A seguito di questa autovalutazione a posteriori, solo nel secondo Laboratorio le studenti hanno ricevuto un commento formativo immediato.

Nel corso del Labo1, le studenti avevano a disposizione un journal privato, uno spazio individuale e strettamente personale che la formatrice avrebbe osservato solo alla fine del corso. Obiettivo di questa scelta era garantire alle studenti un luogo di riflessione intima e dove l’orientamento alla valutazione sarebbe stato minimizzato, così come il possibile imbarazzo dovuto al disvelamento di sé di fronte alla formatrice che si sarebbe nuovamente incontrata nel corso delle lezioni.

L’accento posto nei questionari conclusivi della stessa sperimentazione sulla necessità di un riscontro da parte della formatrice e il piacere manifestato nel riceverlo ci hanno indotto a modificare la natura del journal e a renderlo uno spazio di dialogo non più individuale e interiore, ma di confronto con la formatrice, in modo da poter accompagnare le studenti nel loro percorso con commenti precisi alla

performance e all’autovalutazione, incoraggiamenti sotto il profilo emotivo, sollecitazioni del

pensiero analitico e critico. Questa pratica costituisce una forma di relazione individualizzata uno-a- uno che può rappresentare una forma specifica di scaffolding (Kiraly 2000) nel modo in cui il

225 Le teorie dell’intelligenza si distinguono tra teorie entitarie e incrementali (Moè 2010). Nel primo caso, l’intelligenza e le abilità di una persona vengono concepite come caratteristiche innate dell’individuo; nel secondo, le abilità sono viste come il prodotto di una interazione tra il soggetto e il compito. È in questo secondo caso che l’impegno e l’esercizio vengono visti dallo studente come utili e rilevanti.

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formatore riesce a individuare gli obiettivi di apprendimento, le vulnerabilità e le specificità di un singolo studente, impostando con esso un cammino di apprendimento al contempo cognitivo ed emotivo. Da questa relazione individuale trae beneficio anche il formatore, che nell’indagine delle motivazioni all’origine delle scelte dello studente può trovare nuovi elementi che modificano, o sostanziano, il feedback formativo (Kiraly 2000; Bruno, Dell’Aversana 2016). Nell’esplicitare tali motivazioni, il journal rende inoltre visibili a studente e formatore le strutture cognitive pre-esistenti (Ally 2004), consentendo quindi di metterle in discussione e assumere nuove prospettive, una trasformazione che può ben assumere il nome di apprendimento o di crescita. L’emergere di tali strutture cognitive, l’apparire delle motivazioni consentono al formatore di creare feedback più personalizzati e completi.

Tuttavia, è necessario chiedersi su che cosa il formatore vuole soffermarsi, su quali punti il feedback sarà più preciso e completo. La valutazione delle scelte interpretative occupa sicuramente un posto di primo piano, prima di tutto poiché gli studenti hanno bisogno di conoscere con chiarezza se i propri sforzi sono andati e vanno nella giusta direzione. Tale valutazione è accompagnata da un’analisi precisa della natura del contesto, dalle conseguenze della scelta, dalle possibili altre vie alternative che si sarebbero potute prendere. In questo modo, il commento del formatore cerca di sfuggire alla dicotomia giusto/sbagliato che gli studenti desiderano, ma che ne mina la capacità critica da un lato, e l’autonomia dall’altro.

Secondariamente, abbiamo scelto di soffermarci (e abbiamo chiesto alle studenti di fare altrettanto) sugli stati emotivi che accompagnano, precedono e seguono la simulazione di un evento comunicativo interpretato. Da molti questionari esplorativi (e solo in misura minore conclusivi) emergono forme di ansia, inquietudine, preoccupazione, senso di inefficacia quando le studenti pensano all’interpretazione come disciplina accademica e come professione. La sensazione di non essere in grado di portare avanti un incarico frena molte studenti; pur non portando automaticamente a un ritiro dell’impegno (come postulato da De Beni, Moè 2000; Moè 2010), queste emozioni danneggiano la

perfomance e rappresentano un vissuto oneroso per le studenti.

Abbiamo quindi scelto di impostare una parte importante del dialogo formativo su una coppia di attività: all’analisi delle emozioni condotta dallo studente su di sé, risponde il feedback apprezzativo e continuativo da parte della formatrice. L’incoraggiamento verbale rappresenta uno dei modi in cui l’individuo può alimentare la propria percezione di autoefficacia226 (Bandura 1982 e 1986); eppure,

226Bandura, che si è occupato del processo di modificazione delle credenze negative di autoefficacia, ha indicato quattro modalità di sostegno della percezione di autoefficacia: aver svolto il compito in precedenza con successo; aver visto altre persone svolgerlo con successo (il cosiddetto apprendimento vicariante, un formato partecipativo potente ma meno

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questo tipo di intervento didattico è raro nella pratica diaristica in ambito educativo. Bruno e Dell’Aversana (2016: 2), facendo riferimento a Threlfall (2014), affermano che “[i]n educational practice, summative feedback has been commonly used in reflective journal writing. Rarely do we find any form of progressive feedback offered”.

Il dialogo formativo consiste in una modalità relazionale in cui la voce degli studenti viene raccolta, accettata, ripresentata sotto una nuova forma: questo tipo di rispetto e di riconoscimento viene accolto favorevolmente dagli studenti, con un aumento del coinvolgimento nella pratica autoriflessiva (Bruno, Dell’Aversana 2016: 3). Il formatore che persegue “un focus individuale e l’intimità della relazione” (ivi, traduzione di chi scrive) didattica accompagna lo studente in un passaggio da forme di pensiero ingenuo (nel senso freiriano del termine) a un pensiero scientifico, strutturato, che riesca a dar conto delle origini e delle conseguenze, interiori ed esteriori, del proprio agire.

Questo tipo di dialogo pedagogico, in parte maieutico, mette in campo una relazione uno-a-uno tra un novizio e un esperto, consentendo così il confronto diretto con l’approccio ai problemi tipico del professionista senior. Una simile concezione dell’autoriflessività risale al concetto, proposto da Schön (1983), del reflective practitioner, che fa riferimento a tutti i professionisti che, nel corso della propria pratica, riflettono continuamente, in maniera spesso inconscia, sulla direzione e le conseguenze del proprio agire, in una forma di autoriflessività che prende il nome di reflection-in-

action. Esempio tipico di questa autoriflessività in itinere è il docente; accanto a questo, poniamo

l’interprete, la cui self-awareness dovrebbe, nelle parole di Rudvin e Tomassini (2011) farsi anche

critical per poter meglio valutare la validità e il portato delle proprie scelte.

Per sviluppare questa abitudine, questa forma mentis professionale e sotterranea (che, si spera, può divenire abitudine di vita), il diario rappresenta una tappa intermedia, in cui lo studente diventa sempre più conscio della natura del processo o dei processi in cui è immerso e consapevole delle scelte che vengono fatte da altri e che noi stessi facciamo (Boud 2001).

L’elemento delle scelte, e delle conseguenze che esse hanno nell’incontro lavorativo e sulle persone che ci circondano, è di primaria importanza quando la pratica didattica voglia incentrarsi sulla dimensione etica del proprio agire, come studenti, come interpreti e come persone. Nelle parole di Dewey (1916: 139, corsivo dell’autore), “Mere activity does not constitute experience. It is dispersive, centrifugal, dissipating. Experience as trying involves change, but change is meaningless transition unless it is consciously connected with the return wave of consequences that flow from it. When an activity is continued into the undergoing consequences, when the change made by action is

minaccioso per lo studente); credere di poter riuscire grazie all’incoraggiamento verbale; riuscire a gestire il proprio livello di arousal, o attivazione, legato all’esecuzione del compito (Bandura 1982 e 1986).

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reflected back into a change made in us, the mere flux is loaded with significance. We learn something”.

Per assumere maggior rilevanza ai fini educativi, tali conseguenze non possono però essere unicamente descritte: è necessario riconoscerle come proprie in senso etico (Stanghellini 2017), come una manifestazione di chi si è, e assumersene la responsabilità, che per Dewey (1916) rappresenta l’essenza stessa della riflessione. L’agire si prolunga nel pensare; pensare diviene riconoscere di aver agito, e proiettarsi in un futuro in cui agirò ancora – forse in maniera diversa grazie alla riflessione intercorsa.

Dimensione pratica, etica e cognitiva si fondono nel riconoscimento che “Io, in quanto persona, non sono semplicemente situato nel mondo in un dato modo; ho anche il privilegio e la responsabilità di prendere posizione rispetto all’esser-situato … L’uomo è quell’essere che, tra i suoi compiti più importanti, ha quello di prendere posizione rispetto a se stesso (Gehlen 1940)” (Stanghellini 2017: 45, corsivo di chi scrive).

La responsabilità viene ugualmente accolta dal formatore, non solo come individuo impegnato in un dialogo, ma come persona che ha richiesto e strutturato il dialogo stesso.

Nel porre l’accento sulla dimensione emotiva e sull’espressione della propria intimità, il formatore si assume responsabilità per quanto potrà emergere, nella consapevolezza che quanto scritto, se e poiché autentico e rilevante per lo studente, deve essere rispettato e riconosciuto. Va tuttavia sottolineato che la richiesta di un disvelamento di sé in un contesto educativo è venata dalla situazione di subalternità dello studente nei confronti del formatore. Il rivelarsi, l’esporsi ha qui una natura prevalentemente unidirezionale in cui lo studente si apre in un dialogo con la figura portatrice dell’autorità, una condizione già presa in considerazione da Rogers (1942) nel suo chiedersi se figura terapeutica e figura autoritaria possano coincidere (come nel caso del docente che svolga anche funzione di

counsellor scolastico), e con che conseguenze sul dialogo terapeutico. Pur con le dovute differenze

del caso (il docente non è, né può o deve assolutamente essere, un terapeuta), l’interrogativo resta valido. Che cosa significa proporre un disvelamento di sé in un contesto accademico?

Diversi autori (Boud 2001; Bruno, Dell’Aversana 2016; Power 2012; Wallace 1995) si sono confrontati con questo aspetto nella loro trattazione della diaristica educativa, sottolineando che “[t]he more that journal writing moves into the realm of critical reflection, that is, the questioning of taken- for-granted assumptions about oneself, one’s group, or the conditions in which one operates” (Boud 2001: 13), più lo sguardo dell’Altro deve essere preso in considerazione e modulato; ciò è tanto più vero quando il diarista affronta “perplessità, dubbi, esitazioni” (Dewey 1913), “disagi interiori” (Brookfield 1987) o “dilemmi che disorientano” (Mezirow 1990; tutte le traduzioni di chi scrive).

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Per riuscire a raccogliere almeno in parte la sfida di come accogliere il disvelamento di sé delle studenti, abbiamo percorso tre strade: la prima, consentire alle studenti la libertà di scegliere se cimentarsi o meno con il journal. La stesura del journal non è stata obbligatoria: le studenti che hanno scelto di portare avanti questa attività sono state sufficientemente curiose nei confronti di un nuovo strumento di apprendimento, e desiderose di farlo. Ciò è in linea con la teoria dell’autodeterminazione di Deci e Ryan (1985 a e b; cfr. infra) che postula una relazione significativa tra la motivazione e la possibilità di scegliere autonomamente (o la percezione di poter scegliere).

Secondariamente, abbiamo impostato il dialogo formativo sull’apertura alle osservazioni della studente, il riconoscimento delle sue idee, e il feedback apprezzativo in modo da sottolineare i punti di forza dello studente, le soluzioni creative, l’impegno, l’analisi: aspetti che a volte vengono tralasciati nel commento del docente che si concentri fortemente sugli errori (Conde 2016).

Infine, abbiamo scelto in entrambe le sperimentazioni di non valutare il journal, limitando il nostro intervento al feedback formativo, senza attribuire giudizi sulla qualità del ragionamento. Tra valutazione e autoriflessività, difatti, esiste un conflitto che nasce dall’introduzione di uno strumento di autoanalisi in un contesto accademico caratterizzato da competitività e valutazione orientata alla dimensione cognitiva (Bruno, Dell’Aversana 2016); lo sguardo del valutatore può inibire l’apertura dello studente, che sente su di sé il peso della critica e del giudizio (Walker 2006), momenti che meritano di essere problematizzati e decostruiti e che restano presenti nella lezione, ma in un altro luogo, nel ciclo autovalutazione-valutazione tra pari- feedback formativo tipico della lezione sincrona in classe. Inoltre, la prospettiva di ricevere una valutazione può indurre gli studenti a orientarsi verso comportamenti percepiti come desiderabili (Wallace 1995), quali l’espressione di ciò che conoscono e l’occultamento di ciò che, invece, non sanno. Così facendo, in realtà, gli studenti corrono il rischio di vanificare l’obiettivo dell’attività, giacché “[r]eflection involves a focus on uncertainty, on perplexing events, on exploration without necessarily knowing where it will lead” (Boud 2001: 14). Abbiamo così impostato il journal come uno spazio di esplorazione e di dialogo in cui le studenti potevano orientarsi grazie ad alcuni materiali disponibili on-line nello spazio Moodle del corso: una scheda di parametri di qualità situata, tratta da Errico, Morelli (2015), discussa in classe (scheda “Qualità”, Labo1 e 2), alcune domande a cui potevano dare risposta e che prendevano in considerazione fattori tecnici, interazionali ed emotivi (scheda “Spunti per il journal de l’étudiant”, Labo1; scheda “Domande guida” Labo2) e dei modelli a cui ispirarsi (uno per punti, l’altro narrativo, nella scheda “Modelli di journal”, Labo2).

Al di là di tali indicazioni, che volevano fornire suggerimenti tematici e testuali di fronte a uno strumento nuovo, le studenti erano libere di affrontare gli aspetti che più sentivano rilevanti per sé, o di porre domande alla formatrice, il cui compito era, del resto, individuare gli interrogativi non detti

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e proporre delle modalità alternative di risoluzione. Abbiamo quindi cercato di dare rilevanza sia agli aspetti più strettamente qualitativi della performance dello studente, sia alle questioni etiche che ne scaturivano, sia alla presenza di stati emotivi, abbandonando quella che Clegg, Tan, Saeidi (2002) hanno definito “cognitive strain”, ossia l’introduzione di una visione della riflessività come una espressione puramente cognitiva, ben distante dalla complessità degli aspetti di sé che un interprete mette in gioco e che la persona autoriflessiva prende in considerazione per generare un cambiamento.

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CAPITOLO IV