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Modelli di ruolo e attività comunicative dell’interprete in ambito medico

CAPITOLO I L’INTERPRETAZIONE TELEFONICA IN AMBITO MEDICO: TRATT

X. Modelli di ruolo e attività comunicative dell’interprete in ambito medico

La ricerca in interpretazione ha dedicato ampio spazio alla questione del ruolo dell’interprete e all’etica professionale98, tra sforzi descrittivi e prescrittivi, in un equilibrio non sempre facile tra ciò

spontaneità, oralità e immediatezza, che limitano le scelte dell’interprete; si scontra poi in parte con il principio dell’efficacia comunicativa, che individua nel raggiungimento dello scopo (auspicabilmente condiviso) dell’interazione l’obiettivo dell’interpretazione stessa; e va problematizzato ulteriormente ricordando che Venuti scrive dalla posizione del traduttore che traduce da una lingua subalterna (l’italiano) verso una lingua egemonica e colonizzatrice (l’inglese), dovendo quindi scontrarsi con un rapporto asimmetrico tra lingue e letterature che non è applicabile a tutti i contesti; allo stesso modo, Pollitt e Haddon studiano l’interpretazione di lingua dei segni, in cui l’interprete ha un potere intrinseco, in quanto udente, sul cliente sordo. Nel caso dell’interpretazione telefonica in ambito medico, riteniamo che altre strategie siano più funzionali per colmare quelle asimmetrie che possono impedire la comprensione reciproca o incapacitare il paziente: scioglimento dei malintesi culturali, ascolto attivo attraverso l’interpretazione dei fattori paralinguistici, indagine dei silenzi ed esplorazione di eventuali dubbi in fase di chiusura della comunicazione.

97 La metafora dell’interpretazione che ruota attorno ai concetti di trasparenza-opacità è ripresa anche da Gile (2009: 35),

che afferma: “the need to make choices when Translating is incompatible with transparent neutrality as implicitly taught in school translation”. La lettera maiuscola di “Translating” indica l’attività traduttiva scritta e orale.

98L’esistenza di una etica condivisa dalla comunità degli interpreti contribuisce alla costruzione non solo di una identità

professionale individuale e collettiva, ma anche al consolidamento di una più generale percezione di professionalità, definibile come “gaining and maintaining credibility as an occupational group towards the public and those served” (Rudvin 2007 in Kalina 2015: 66). Si nota qui come l’etica serva quale criterio valutativo (nelle mani sia di colleghi, sia

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che nella pratica avviene e ciò che dovrebbe avvenire99 (Corsellis 2008). Aspirazione dell’elaborazione teorica è allora render conto delle attività complesse svolte dall’esperto linguistico all’interno di un evento comunicativo interpretato. L’aggettivo “complesse” definisce al contempo le attività svolte dall’interprete e le situazioni in cui agisce. L’ambito in cui l’interprete si muove può essere difatti descritto come un “ill-structured knowledge domain” (Spiro et al. 1992), ossia un ambito del sapere caratterizzato da due fattori: la necessità di applicare contemporaneamente molteplici strutture concettuali complesse (schemi, prospettive, principi organizzatori) nella risoluzione di casi o esempi; e la variabilità interna a ciascun caso degli elementi e delle interazioni tra concetti.

L’impossibilità di definire soluzioni riproducibili in maniera invariata corrisponde alla natura dei problemi affrontati dall’interprete, che si possono definire come dilemmi etici, se per decisione etica intendiamo “a decision that is made between two or more possible right, but competing, solutions that arise in a situation in which the person is torn between two or more conflicting ethical principles or guidelines. An ethical decision, then, involves determining which solution is ‘most right’ within a particular setting” (Hoza 2003: 10). Di questa definizione si possono evidenziare tre aspetti fondamentali: la natura situata della scelta etica, che non può prescindere dal setting e dallo scopo dell’evento comunicativo in atto; la responsabilità, non espressa esplicitamente ma implicita, inerente alla capacità decisionale dell’interprete posto di fronte a scelte altrettanto realizzabili, ma non ugualmente valide e con conseguenze potenzialmente molto diverse; e la molteplicità delle possibili risoluzioni del problema, propria di un compito complesso.

Ne emerge quindi una sostanziale impossibilità di definire rigidi protocolli comportamentali che possano essere applicati alla risoluzione di problemi: i codici deontologici, che rappresentano tali

di clienti) il cui scopo è – anche – sostanziare le scelte interpretative e tutelare l’interprete, rendendo “trasparente” (ivi) e giustificato il suo operato agli occhi degli utenti del servizio.

99 Rientra in questo campo, come sottolineato da Corsellis (2008), una problematica spinosa, che riguarda gli studi di caso

che hanno come protagonisti interpreti non formati (come nel caso di Angelelli 2004a, Cheng 2015, Lee 2007, per fare esempi qui riportati). Pur non volendo dare un giudizio generico sulle capacità dei professionisti coinvolti, una mancanza di preparazione tecnica e teorica in interpretazione può condurre a comportamenti inefficaci o inadeguati dal punto di vista deontologico. Corsellis (2008) evidenzia la difficoltà di basare una produzione teorica sul ruolo e le attività legittime su studi descrittivi che analizzano il comportamento di tali interpreti. Ci sembra del resto che tale osservazione sia valida nel momento in cui si prescrivono modelli di ruolo; la validità di questi studi ci sembra restare confermata laddove vengano osservate strategie traduttive e vengano, allo stesso tempo, problematizzate, con riferimento alla loro efficacia e alle loro conseguenze. Più in generale, un ulteriore ambito in cui questo tipo di indagini resta valido è l’analisi del vissuto percepito dagli interpreti e dai loro utenti nell’ottica di individuare criticità migliorabili per una definizione condivisa di qualità.

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protocolli, sono difatti da prendere come un insieme di linee guida da utilizzare quale punto di riferimento (in particolare, a nostro giudizio, nella formazione degli interpreti – cfr. Kalina 2015), senza però aspettarsi che questi possano contemplare una soluzione a tutte le infinite problematiche e variabili insite nella professione (Prunč 2012; Hale 2008). Un buon punto di partenza, tuttavia, è l’elaborazione di modelli di ruolo relativi a setting specifici, quale invocata da diverse voci (Prunč 2007 in Kalina 2015). Tale esigenza nasce anche dall’ingombrante eredità che pesa sui codici deontologici attuali, nati per essere applicati all’ambito dell’interpretazione di conferenza (Cox 2015; Rudvin, Tomassini 2008; Angelelli 2008; Kalina 2015), che tante divergenze presenta rispetto ai vari setting dell’interpretazione dialogica. Il mantenimento di tali codici, i valori che ne emergono (come l’invisibilità e l’imparzialità), le attività giudicate possibili e accettabili all’interno di un incarico risultano spesso incompatibili con la pratica quotidiana dei professionisti che lavorano in contesti giuridici (ambito caratterizzato da un dibattito vivace e da tratti altamente specifici100), medici e dei servizi pubblici. Noi ci concentreremo qui sui modelli elaborati attorno al setting medico, cui si è interessata gran parte dell’indagine sul ruolo in letteratura: tale contesto è difatti attraversato da asimmetrie di fondo che interrogano l’interprete, come la presenza di diversi diritti conversazionali tra l’uno e l’altro partecipante primario. Già da questa prima, fondante asimmetria scaturisce un dilemma etico: l’interprete deve colmare questo differenziale di potere, schierandosi a fianco dell’utente più vulnerabile (per appartenenza linguistica e per posizione sociale) o limitarsi a una traduzione strettamente linguistica?

Le proposte di ruolo prodotte in ambito medico tentano di fornire una risposta a questo interrogativo fondamentale. Modelli di ruolo antinomici come il conduit e l’advocate hanno ricevuto ampio interesse dalla letteratura come le due epitomi dei comportamenti interpretativi con minima e massima agentività; tuttavia, l’elaborazione metaforica attorno al proprio ruolo sviluppata dalla comunità professionale degli interpreti dialogici si distribuisce piuttosto su un continuum che va da forme di maggior passività ad altre più proattive (Rudvin, Tomassini 2011).

Anche nella didattica, ha ricevuto ampio spazio il modello di ruolo del conduit (Reddy 1979, cfr.

supra), che limita le tipologie di intervento dell’interprete censurando le sue espressioni di agentività.

Benché tale modello sia stato pervasivo, e si ritrovi ancora oggi nelle idee di ruolo e di qualità nutrite

100 La natura conflittuale degli interessi dei partecipanti e la necessità legale di ricevere una testimonianza di prima mano, non mediata, sono due caratteristiche che contribuiscono a rendere complesso sia il mandato, sia il dibattito sul suolo dell’interprete in ambito giuridico.

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dagli interpreti con diversi livelli di formazione101, non ne esiste una definizione largamente condivisa. Nella piramide dei ruoli di Niska (2002), esso viene posto alla base della piramide, il gradino precedente a quello del clarifier, un ruolo in cui sono ammesse le spiegazioni di termini “tecnici o culturali102”; l’autrice dà alla collocazione del conduit alla base dello schema un valore quantitativo: si tratterebbe difatti del modello di ruolo e della strategia interpretativa più diffusi.

Figura 1. Piramide dei ruoli (Niska 2002)

Bot (2009) sfuma invece la definizione per sfuggirne la connotazione più strettamente meccanicistica, inserendo all’interno delle attività possibili in questo ruolo la spiegazione di termini opachi all’uno o all’altro parlante.

Si pone invece in maniera diametralmente opposta, negando la validità di tale modello e delle strategie corrispondenti, Mason (2009), per cui la figura dell’interprete che tale modello propone è depotenziata, impotente: nella risposta traduttiva meccanicistica a uno stimolo sta la figura dell’interprete come non-persona, nella definizione goffmaniana (1990 [1959]) del termine: presente sulla scena ma impossibilitata a manifestarsi attraverso la parola. “Servi, anziani, bambini, matti” (ivi) sono categorie sociali disconosciute: individui le cui parole hanno minore (o nessun) valore, il cui ruolo nella conversazione è deprivato di ogni potere. E così accade per l’interprete, la cui parola esprime una parola altrui, la cui presenza è negata.

101Cfr. Cheng (2015) per il disagio manifestato dagli interpreti telefonici nei confronti delle strategie interpretative che

prevedono una maggiore agentività e visibilità. Cfr. §V, supra.

102 Ci sembra che si possa accostare il trattamento traduttivo di queste due tipologie di termini solo nel caso in cui oggetto della spiegazione siano unicamente i termini di carattere culturale, e non altri elementi che possono rappresentare notevoli differenze culturali tra il paziente e l’esperto, come usi, abitudini, credenze, riferimenti, preferenze di cura.

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Diversamente da Niska (2002), però, Mason (2009) e Bot (2009) considerano il modello del conduit nella sua accezione più stringente come fondamentalmente irrealizzabile: un concetto iperbolico che si distanzia notevolmente dalla pratica autentica e che, nelle parole di Bot (2007: 81) conduce a una “definition of interpreting that is based on text reproduction in which the problematic nature of the relationship between the ‘original’ spoken words and their translation is de-emphasized”.

Ciò che rende problematico questo modello di ruolo è la visione della comunicazione che lo sottende, intesa come passaggio di un messaggio statico dall’uno all’altro interlocutore, senza che sia prevista né una negoziazione del significato, né un vissuto o una disposizione apportati dai partecipanti, né una elaborazione idiosincratica del contesto comunicativo.

In contrapposizione a questo modello di comunicazione e di interpretazione collocate in un “social vacuum” (Wadensjö 1998; Angelelli 2008), nascono modelli di ruolo che riconoscono l’interprete come partecipante a pieno titolo all’interazione, nonché come attore sociale (Wadensjö 1998; Merlini 2009) che porta con sé idee, appartenenze, identità.

Proprio qui sta, a nostro avviso, la “pericolosità” insita nella presenza di un interprete, e la responsabilità che accompagna questo ruolo e che deve essere trasmessa e problematizzata in sede didattica. L’interprete è difatti una persona terza (un “mal nécessaire”, come lo definiva un interprete eccellente del passato, Jean Herbert; cfr. Falbo 2004) con un accesso privilegiato ai significati linguistici e culturali di due mondi che non possono altrimenti comunicare; lungi dall’essere un partecipante invisibile, sembra piuttosto un potente attore da invisibilizzare, costringendolo in dinamiche di ruolo neutralizzanti. Laster e Taylor (1994) affermano che il modello prescrittivo del

conduit a questo serva: a regolamentare il ruolo e le attività dell’interprete nel tentativo di imbrigliare

il suo potere. La stessa opinione viene espressa da Pointurier (2016), da una prospettiva però opposta: l’autrice spiega il prevalere di questa metafora come strategia difensiva messa in atto dagli interpreti stessi per sottrarsi alle responsabilità103 insite nel proprio compito: per anestetizzare la consapevolezza degli effetti del proprio agire.

La contraddizione chiave potere-impotenza racchiude in sé i termini di altri conflitti valoriali: visibilità-invisibilità, interpretazione-trasmutazione, (multi)parzialità-imparzialità. Ciò è particolarmente evidente nel ruolo espresso dall’advocate, che rappresenta il vertice della piramide di Niska (2002). La figura dell’advocate trova giustificazione nel riconoscimento del differenziale di potere inerente alla relazione terapeutica, asimmetria impossibile da sradicare ma potenzialmente compensabile attraverso delle azioni autonome da parte dell’interprete: così facendo, questi si schiera

103 Ricordiamo qui che Rudvin e Tomassini (2011) indicano un alto livello di responsabilità come una delle caratteristiche

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con il paziente, cercando di valorizzarne la voce e di contrastare potenziali derive burocratiche o razziste dell’istituzione (Niska 2002)104.

Lo schierarsi dalla parte del partecipante fragile e/o fragilizzato, nel tentativo di abbattere gli ostacoli culturali e ripristinare una orizzontalità dei parlanti, viene tuttavia considerato “rischioso” (Kalina 2015: 76, traduzione di chi scrive), poiché “le competenze richieste per questo travalicano di molto la conoscenza linguistica, e sono affini a quelle di un esperto interculturale. Ma, nella maggior parte dei casi, l’interprete non ha la conoscenza propria di un esperto culturale”. Anche Pöchhacker (2008) è scettico: benché la figura del mediatore e quella dell’interprete possano coesistere in una sola persona, agire in tal senso senza una formazione specifica e certificata è da considerarsi un comportamento potenzialmente a rischio.

Non di solo rischio, tuttavia, si tratta: Hale105 (2007) condanna la pratica dell’advocacy poiché creerebbe un ulteriore squilibrio, stavolta a vantaggio del paziente allofono a fronte dei pazienti monolingui che non riceverebbero un simile supporto nella loro relazione terapeutica, pure minata dalle stesse asimmetrie conoscitive. Simile il parere di Corsellis106 (2008), che, pur riconoscendo la vulnerabilità della persona immigrata a fronte di un sistema non solo incomprensibile linguisticamente, critica fortemente l’advocacy come comportamento poco professionale. Tra le attività che Corsellis individua come tipiche di tale ruolo, ricordiamo: “selecting and formulating information to be exchanged in ways which they personally think might suit the purpose better, tidying up an other-language speaker’s utterances so that they sound more coherent, adding information to messages explaining medical terms and procedures, adding advice and opinions … and screening out information such as that deemed by the interpreter to be irrelevant or culturally inappropriate” (Corsellis 2008: 43, corsivo di chi scrive).

104 L’interpretazione che Niska dà di questo ruolo è particolarmente impegnativa e militante: l’interprete che scelga di assumere questo ruolo interverrebbe difatti a favore del proprio cliente anche al di fuori dall’incarico in senso stretto. 105 Hale (2007) ha in generale una visione critica delle attività comunicative che prendono in considerazione una dinamica interazionale forte tra interprete e utente e dei modelli di ruolo che le legittimano. L’autrice, difatti afferma: “when interpreters are insecure about their professional status and competence they tend to undermine their work as interpreters and attempt to take on roles they consider to be more important, such as acting as pseudo-welfare workers, health workers or para-legals”. (Hale 2007: 167). Questa prospettiva mette tuttavia l’accento su un ulteriore problema: il riconoscimento (e l’autoriconoscimento) dell’esperto linguistico come professionista.

106 Corsellis è una delle prime autrici a dedicare un testo all’interpretazione per i servizi pubblici (termine da lei stessa coniato per l’inglese public service interpreting), il cui scopo principale è rafforzare la professionalità dell’interprete in questo ambito, cercando di mettere un freno alla pratica consuetudinaria di ricorrere a staff bilingue, a familiari di pazienti alloglotti, a interpreti-mediatori non professionisti, ma bilingui con varie competenze linguistiche.

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Il giudizio di accettabilità nei confronti di queste pratiche è variabile: alcune vengono anzi richieste dal cliente istituzionale (cfr. Angelelli 2004a)107, come l’attività di selezione degli argomenti e delle informazioni pertinenti all’incontro medico; o sono anzi considerate strategie adeguate ai fini dell’efficacia comunicativa, come la variazione di registro atta a favorire una miglior comprensione tra paziente e terapeuta (che Hale 2008 indica come un esempio di advocacy).

Solo parzialmente dissimile è la definizione di Kalina (2015, con riferimento ad Andres 2009), per cui l’advocacy consiste nel portare all’attenzione di uno dei partecipanti delle circostanze che non sono state (linguisticamente108, aggiungiamo noi) comunicate dall’altro, se per “circostanze” l’autrice si riferisce a elementi culturali che costituiscono possibili fonti di fraintendimento o di conflitto tra i partecipanti.

Una parallela critica all’advocacy ha ricevuto la sua prima espressione nell’ambito dell’interpretazione per le lingue dei segni, per cui il ruolo dell’advocate era stato originariamente concepito. La problematicità attribuita a questo posizionamento ha però segno opposto rispetto alle perplessità già viste: a essere nominato come eticamente controverso è il potere che assume su di sé l’interprete, privandone non la parte istituzionale, ma il cliente sordo. L’interprete, facendosi voce del cliente sordo, diviene l’unica persona in grado di emettere giudizi su quanto vada effettivamente reso comprensibile e sia, quindi, al contempo problematico e rilevante.

La letteratura in interpretazione per le lingue dei segni è particolarmente prolifica attorno alla questione del ruolo, anche a causa della spinosa relazione tra interprete udente, appartenente alla comunità dominante, e cliente sordo, la cui cultura viene spesso negata dalla comunità udente, che vi vede non l’espressione di una specificità, ma una penosa condizione di disabilità. Non stupisce quindi che il ruolo proposto dalla ricerca in quest’ambito sia quello di “alleato109” (Baker-Shenk 1990) o

107 Una inchiesta condotta da Pöchhacker (2000) in Austria, che ha coinvolto più di seicento medici, ha però riportato il

risultato opposto: l’omissione da parte dell’interprete di elementi presenti nel discorso del paziente costituisce l’unico comportamento considerato inappropriato.

108 Non banale è, nel nostro caso, l’aspetto delle informazioni trasmesse attraverso fattori non linguistici e non verbali:

esse fanno a pieno titolo parte dei significati e dei contenuti del discorso da interpretare. In quanto tali, pongono particolari difficoltà, in termini che sono prima di tutto interazionali, prima che cognitivi, all’interprete telefonico.

109 Si tratta dello stesso termine utilizzato nella lotta per l’emancipazione Nera per indicare i bianchi che appoggiavano,

senza però volerle sovradeterminare, le azioni dei Neri in lotta, o per indicare gli uomini che supportavano, anche materialmente (ad esempio organizzando un servizio di babysitting) le iniziative delle femministe. Baker-Shenk proviene dallo stesso contesto linguistico – quello statunitense – che ha elaborato questa particolare accezione del termine.

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“partner110” (Baker-Shenk 1986), ossia di un interprete che sostiene il cliente sordo consentendo la sua libera espressione all’interno dell’ambiente comunicativo: un modello di ruolo che si distingue per il tentativo di mettere il potere dell’interprete al servizio dei partecipanti, senza che esso divenga una forma di sopraffazione.

Tra tutti i modelli e le metafore di ruolo qui nominati, riteniamo che meriti di essere segnalato per la sua natura sfaccettata e dinamica il modello di van Verrept e Bot111 (2013). I due autori individuano un continuum i cui poli si distinguono per il livello di visibilità e coinvolgimento dell’interprete nel processo psicoterapico. Gli autori prendono in considerazione il setting della psicoterapia mediata da interprete, ma riteniamo che i modelli di ruolo proposti possono essere considerati validi anche per gli interpreti che lavorano in altri settori dell’ambito medico, poiché si distinguono a seconda dell’autonomia dell’interprete e della sua visibilità come attore dell’interazione e non quale mero accessorio. I due autori tratteggiano una serie di interpretazioni di ruolo possibili: la prima metafora è quella dell’invisible interpreter/translation machine (la “macchina” è una variante della metafora del conduit. Cfr. anche Baker-Shenk 1991), per poi passare all’interactive interpreter. Nonostante l’attributo metta l’accento sull’interattività, Bot e van Verrept sottolineano che questo ruolo, caratterizzato dalla possibilità di esplorare il messaggio del partecipante primario e chiedere chiarimenti, pende maggiormente dalla parte del conduit piuttosto che verso l’intercultural mediator che rappresenta il gradino successivo in termini di autonomia e di autorialità: se le domande dell’interprete sono orientate a comprendere “l’intenzione del parlante”, l’interprete agisce come interactive interpreter; se interviene come partecipante a pieno titolo, introducendo elementi di propria iniziativa, si comporta come un mediatore interculturale. L’ultima descrizione di ruolo definisce l’interprete come co-therapist, che crea una solida alleanza all’interno della relazione medica con lo psicoterapeuta. Questo ruolo, che acquisisce nell’ambito della salute mentale un suo significato particolare (non scevro da rischi, come sottolineano i due autori), può essere paragonato alle attività svolte in un incontro medico da un interprete particolarmente proattivo.

Nonostante la peculiarità e la delicatezza del setting considerato, l’interesse di questo modello è in realtà dato dalle sue premesse, che individuano “various role interpretations available” (Bot 2007), con un accento sulla dinamicità del concetto di ruolo: il ruolo viene considerato come un atteggiamento mutevole, che può variare all’interno dell’interazione a seconda delle diverse attività comunicative e dal posizionamento, anch’esso dinamico, dell’interprete; la seconda suggestione che

110 Cfr. Appendice, scheda “Oppressore o partner: l’interprete di lingua dei segni come modello per l’interprete di

persone appartenenti a minoranze”, usata nella seconda sperimentazione (qui indicata come Labo2).