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L’interpretazione telefonica come interazione tecnologizzata: la questione della presenza sociale

CAPITOLO I L’INTERPRETAZIONE TELEFONICA IN AMBITO MEDICO: TRATT

V. L’interpretazione telefonica come interazione tecnologizzata: la questione della presenza sociale

La pratica dell’interprete telefonico è spesso accostata a quella presenziale, da cui si differenzierebbe per la (macroscopica) assenza degli stimoli visivi. Tuttavia, l’interpretazione telefonica non è una interpretazione in presenza condotta “alla cieca”: al contrario, è una modalità interpretativa a sé stante con le sue peculiarità e le sue strategie di risoluzione dei problemi, che vanno poi a influire sulla natura della performance e sul ruolo dell’interprete. Tali peculiarità sono dovute al mezzo tramite il quale la comunicazione avviene, e che rappresenta un elemento significante nella costruzione del contesto e nella strutturazione dell’interazione: nel suo svolgersi grazie, attorno e con una tecnologia, l’interpretazione telefonica si configura infatti come una forma di “technologized interaction” (Hutchby 2001), in cui la comunicazione è mediata sia dall’interprete che dalla tecnologia. L’interprete deve gestire l’aspetto linguistico, culturale e affettivo della comunicazione, a cui si aggiunge l’organizzazione dei turni di parola, all’interno di un contesto in cui la tecnologia altera la struttura della comunicazione stessa. Tale trasformazione, tuttavia, non si configura come una rigida imposizione di forme e modi del comunicare sugli utenti, bensì come una relazione dialettica tra i vincoli del mezzo e gli orientamenti degli utenti alle risorse che esso rende disponibili.

Questa descrizione della relazione tra tecnologie e utenti non è però condivisa dalla totalità degli approcci teorici, che si distinguono al contrario per una diversa interpretazione del ruolo, dell’impatto e della natura delle tecnologie in relazione con i loro utilizzatori48.

Da un lato, le prospettive che rimandano a forme di determinismo tecnologico (Chandler 1995) individuano nelle tecnologie un elemento distinto dalle relazioni sociali, a cui esse impongono una forma che gli utenti, passivamente, recepiscono. La trasformazione delle forme comunicative generata dalle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione diviene così un cambiamento estrinseco; l’essere umano quale attore sociale non potrebbe intervenire in alcun modo,

48 L’Actor-Network Theory propone una visione della relazione tra essere umano e tecnologie (e ogni altra componente

del contesto) all’insegna della più totale reciprocità. Tale strumento metodologico (o teorico: per la difficoltà dell’Actor- Network Theory a definirsi in questo senso, cfr. Latour 1999 in Devaux 2017) evidenzia il ruolo di ogni elemento (animato, inanimato o astratto) all’interno di una rete. Secondo questo approccio (che considereremo metodologico), ogni elemento inserito in una rete riceve la propria identità dalla partecipazione alla rete e ha potenzialmente uguale peso nella costruzione di una situazione (Hutchby 2001), al di là di ogni esercizio di volontarietà: poiché l’effetto è prodotto non solo dall’azione, ma anche dall’esistenza di un elemento della rete, si annulla la tradizionale distinzione tra umano e non umano (o anche animato/inanimato, concreto/astratto). Non è l’unica categoria di analisi sociologica a essere rifiutata: l’Actor-Network Theory rifiuta le dicotomie tradizionali tra macro/micro, ordine/disordine, sviluppo temporale/staticità (Latour 1997).

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entrando con esse in una relazione di reciproco scambio: le tecnologie sarebbero piuttosto il prodotto dell’ingegno dei loro creatori, che ne plasmano la forma e ne indirizzano l’effetto.

Poster (1995) esprime molto nettamente una simile visione del mondo nell’identificazione di tre “ere” della comunicazione umana: a quella originaria, caratterizzata dall’oralità, segue la seconda era, in cui l’avvento della scrittura ha consentito lo sviluppo della scienza e del razionalismo, con le loro rappresentazioni “oggettive” del mondo; la diffusione della comunicazione tecnologizzata segna invece la terza e ultima era, in cui le comunicazioni a distanza vanno a instillare negli utenti una sensazione di disgregazione del Sé, distribuito in ambienti diversi e non sempre occupati dal proprio corpo fisico. Ridotto sembra essere lo spazio per una riappropriazione o rivisitazione sia del Sé, sia delle tecnologie da parte dell’utente.

A questo determinismo tecnologico, che pecca di fatalismo nel negare possibili modifiche in itinere alle tecnologie e al loro uso grazie alla creatività degli utenti, si può opporre la visione di Grint e Woolgar (1997). I due autori considerano le tecnologie come un testo che entra in una relazione interpretativa con i propri utenti: un testo che è stato scritto dagli inventori e sviluppatori, ma che resta passibile di interpretazioni da parte degli utenti. Tali interpretazioni si sviluppano come processi non vincolati di negoziazione del significato (Hutchby 2001), resi possibili dal fatto che le tecnologie, pur privilegiando la scelta di alcune interpretazioni o letture, non detengono alcuna caratteristica intrinseca. Questo sarebbe il caso del telefono, introdotto sul mercato dapprima come strumento per trasmettere musica a distanza, poi per facilitare l’organizzazione del lavoro (imprenditoriale per gli uomini, casalingo per le donne); a queste proposte di utilizzo si contrappongono le interpretazioni degli utenti, in particolare femminili, che trasformano il telefono in quello che, oggi, è principalmente: una tecnologia della socialità (Hutchby 2001) che consente l’esistenza di relazioni personali a distanza.

Tale approccio antideterminista, che nega l’esistenza stessa di caratteristiche intrinseche degli oggetti per privilegiare lo sguardo creativo e creatore che su essi si posa, è però da considerarsi problematico. Realmente il processo di negoziazione del significato è totalmente aperto alle interpretazioni degli utenti? Non esiste nessun vincolo materiale o progettistico all’uso e alla ricontestualizzazione dell’uso di un oggetto?

Un concetto terzo riesce a conciliare l’esistenza di vincoli fisici propri della tecnologia con un suo impiego aperto a interpretazioni (più) libere o, quantomeno, scarsamente prevedibili. Si tratta della nozione di affordance, elaborata da Gibson (1979) in risposta alla psicologia della Gestalt di Koffka (1935), che prevede l’insussistenza di un qualsiasi valore (o valenza) di un oggetto al di fuori di quello che l’utente vi attribuisce. Gibson sostiene invece che le entità possiedano delle caratteristiche la cui salienza dipende sì dall’utilizzatore, ma che ne consentono, o limitano, gli utilizzi, limitando così

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anche le interpretazioni dell’utente. In relazione a un oggetto si crea allora un sapere collettivo sulle sue potenzialità e sui suoi usi tipici che viene trasmesso ai membri di una comunità attraverso un processo di acculturazione (Hutchby 2001).

Il concetto di affordance, quindi, rende possibile lo scambio dialettico tra interpretazione dell’utente ed esistenza di caratteristiche proprie di una tecnologia che ne rendono più pertinenti, ed efficaci, alcuni utilizzi rispetto ad altri. Ciò consente di individuare delle regolarità di utilizzo di una tecnologia che influenzano la comunicazione che si svolge attorno e attraverso essa; al contempo, non viene negato l’apporto creativo dell’essere umano che trasforma le proprie modalità comunicative in modo da rendere funzionale l’interazione tecnologizzata49.

In questo senso, ciascuna tecnologia presenta delle caratteristiche tipiche che possono essere analizzate rispetto alla loro capacità di impattare sulla comunicazione, rendendola più o meno distante rispetto alla comunicazione presenziale.

La prima caratteristica della comunicazione telefonica in quanto tale è, come abbiamo visto, l’assenza di fattori visivi50: si tratta di una interazione monosensoriale (Thüne, Leonardi 2003) in cui tale mancanza può influenzare fortemente la percezione di presenza e di presenza sociale dei partecipanti. La nozione di presenza è legata al sentirsi all’interno di un particolare ambiente, in particolare virtuale, nonostante si sia presenti fisicamente in un altro luogo (Witmer, Singer 1998); si tratta quindi di un concetto applicabile alla videoconferenza e a tutte le esperienze di un vissuto all’interno di uno spazio ricreato attraverso vari tipi di tecnologie, più o meno immersive (Moser-Mercer 2005). Per quel che riguarda la comunicazione telefonica, non è tanto la presenza di sé a mancare, ma la presenza

49 L’utilizzo dell’Analisi Conversazionale come cornice teorica e strumento metodologico, proposto da Hutchby nel suo

testo e utilizzata anche nel presente studio, è complementare a questo approccio. L’Analisi Conversazionale individua infatti delle regolarità e delle categorie identitarie interne alla conversazione che non sono però definite a priori, ma dalle scelte comunicative dei parlanti nell’interazione, riuscendo così a conciliare l’esistenza di procedure strutturali con la creatività umana nell’utilizzo delle risorse comunicative.

50 Rosenberg (2007) si pone invece in contrasto con questa ipotesi. Per l’autore, a rendere peculiare l’interpretazione

telefonica non è l’utilizzo di una tecnologia che media la comunicazione, bensì la moltiplicazione, la varietà e l’imprevedibilità degli incarichi che quel tipo di tecnologia rende possibili. Benché si tratti indubbiamente di fattori che caratterizzano l’interpretazione telefonica e ne costituiscano elementi di difficoltà, ci sembra che non si possa comunque ignorare la relazione tra persona e tecnologia, che produce forme nuove di interazione per il solo fatto di modificare elementi contestuali dell’interazione, introducendovi vincoli specifici che portano all’elaborazione di specifiche strategie comunicative. Rosenberg si concentra su una dimensione superordinata di problemi, legata al raggiungimento degli scopi comunicativi dei parlanti, senza addentrarsi nelle strategie puramente comunicative che l’interprete mette in atto a un livello sottostante per risolvere le difficoltà dell’evento mediato.

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dell’Altro, o presenza sociale, definibile come “the degree of salience of the other person in a mediated communication and the consequent salience of their interpersonal interactions” (Short et al. 1976: 65), oppure, con una definizione orientata alle affordances del mezzo, “the ability of the users to perceive each other” (Fägersten, 2010: 178).

Se ciascun mezzo offre minori o maggiori possibilità di trasmettere segnali non orali, e questi segnali sono legati alla percezione della presenza dell’Altro in una interazione significante, allora la comunicazione telefonica si caratterizza per un’assenza di indici visivi, ossia per la sua “cuelessness” (Rutter 1987). L’assenza di indici in grado di farci ricostruire il contesto in cui l’altro si trova caratterizza i mezzi comunicativi a bassa densità contestuale51 (Zuiderent et al. 2003) in cui la comunicazione è distribuita, frammentata (Iglesias Fernández 2017b): una frammentazione che riecheggia la frammentazione del Sé lamentata da Poster (1995), per cui le identità non sono più ancorate al corpo fisico della persona, e si disgrega così anche la percezione dell’Altro.

Rutter (1987), tuttavia, suggerisce che non tutti gli indici abbiano pari rilievo: alcuni indici potrebbero essere più utili ai fini della comunicazione e della relazione, mentre altri, meno pertinenti a tale scopo, perdono rilevanza; i parlanti prestano allora attenzione solo agli indici significativi, ignorando gli altri, e costruiscono la comunicazione sulla base delle informazioni disponibili.

Del resto, l’assenza di indici come causa diretta di un indebolimento della presenza sociale è stata messa in dubbio da diversi autori. Non sarebbe, cioè, l’assenza di indici a scatenare una percezione lacunosa dell’Altro, bensì la distanza psicologica (Rutter 1989) tra gli interlocutori.

Secondo Rutter (ibidem), infatti, la distanza psicologica è la variabile che media tra l’assenza di indici e la percezione della presenza sociale, variabile che dipende da altri fattori oltre all’assenza stessa di indici: lo scopo dell’evento comunicativo, la relazione tra gli interlocutori, il livello di familiarità con

51 Un modello analogo è quello della media richness (Daft, Lengel 1984), che analizza la misura in cui un mezzo consente:

1) la trasmissione di indici di carattere multisensoriale; 2) un feedback immediato e non asincrono; 3) l’uso di un linguaggio spontaneo, non artificioso; 4) un focus sulla persona. In questo caso, il telefono sarebbe un mezzo abbastanza povero (“lean”) dal punto di vista della comunicazione multisensoriale, ma sincrono; per quel che invece riguarda la possibilità di utilizzare un linguaggio spontaneo non alterato dall’impiego del mezzo, i pareri sono divisi, ma seguiamo Hutchby (2001) che dà parere affermativo. Questo modello viene però messo in dubbio da Thurlow, Lengel e Tomic (2004), che lo considerano fondato su una nozione erronea, ossia l’esistenza di un deficit interno alla comunicazione tecnologizzata rispetto alla presunta bontà di ogni tipo di comunicazione presenziale. A questa visione, gli autori oppongono una prospettiva opposta: la “povertà” di un mezzo sarebbe a volte ricercata attivamente dagli utenti perché più rispondente alle proprie esigenze comunicative. Sarebbe questo il caso dell’e-mail, degli sms o di altri tipi di messaggi solo testuali per interrompere una relazione o affrontare argomenti scomodi o dolorosi.

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il setting 52. Rutter cita un esempio interessante, il caso dei numeri verdi di ascolto, in cui l’assenza di indici, consentendo l’anonimato, promuove invece la vicinanza psicologica e l’intimità.

Tale intimità prende delle forme particolari e proprie al mezzo attraverso il quale la comunicazione avviene: Hutchby (2001), nel sottolineare l’efficienza della comunicazione telefonica nonostante i suoi limiti sensoriali, ricorda il paradosso insito nella comunicazione telefonica: l’assenza del corpo fisico dell’Altro, e la sua comparsa solo tramite una voce leggermente distorta, creano uno stato di anomalia in cui la sensazione di intimità53 è vissuta come contemporaneamente presente e assente: se da un lato l’alterazione dei parametri vocali ci segnala una non-presenza del nostro interlocutore, dall’altro sentiamo innegabilmente la sua presenza nell’interazione e nella relazione tecnologizzate, il che ci porta a ignorare i segnali che indicano una distanza tra il Sé e l’Altro in quanto contraddittori e non pertinenti.

Hutchby (ibidem), del resto, critica l’idea di una relazione tra assenza di indici e deterioramento dell’intimità tra gli interlocutori: questi ultimi sarebbero al contrario in grado di esprimersi spontaneamente nonostante l’assenza di fattori visivi e prossimali nelle modalità che sono proprie alla comunicazione telefonica e che permettono comunque una ordinata gestione dei turni nella comunicazione. Ciò rappresenta, del resto, la nostra esperienza ordinaria della conversazione monolingue mediata dal telefono.

Tuttavia, se prendiamo in considerazione gli studi realizzati attorno alla comunicazione interpretata da remoto (Braun, Taylor 2012; Leeman Price et al. 2012), non possiamo ignorare i risultati che puntano a una maggiore difficoltà di coordinamento da parte dell’interprete e, quindi, a una forte divergenza di questo tipo di comunicazione rispetto alla comunicazione telefonica monolingue.

52 È stata dimostrata (Ko 2006; Moser-Mercer 2005) l’esistenza di una correlazione tra il livello di familiarità ed

esperienza degli interpreti con un contesto di interpretazione da remoto, e la loro percezione di affaticamento. Ciò che sembra variare non è la qualità dell’interpretazione, che gli interpreti riescono a mantenere, ma il costo cha la stessa qualità in termini di ricorso alle capacità cognitive e percezione di affaticamento. Interessante in tal senso è un esperimento condotto sotto l’egida delle Nazioni Unite (in Moser-Mercer 2003) che misurava i livelli di stress degli interpreti in una conferenza da remoto attraverso il prelievo di campioni di saliva. Significativamente, i risultati delle analisi non indicavano alcuna manifestazione fisiologica dello stress, in contrasto con la percezione degli interpreti. Tale risultato (accanto alla curva di apprendimento riportata in Ko 2006, v. supra) ci consente di ipotizzare l’importanza di una formazione specifica per gli interpreti da remoto, non soltanto per quel che riguarda la gestione delle risorse cognitive.

53 Hutchby (2001) utilizza l’espressione “intimacy at a distance” per caratterizzare questa forma di prossimità tra individui

collocati in ambienti geograficamente distanti. L’espressione è stata coniata da Horton e Wohl (1956 in Hutchby 2001) per descrivere l’integrazione nelle proprie vite emotive di personaggi televisivi da parte del pubblico, all’epoca in cui la diffusione della televisione negli Stati Uniti diventava un fenomeno di massa.

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Ci sembra quindi che si possa avanzare l’ipotesi di una difficoltà generata non dalla comunicazione telefonica in quanto tale, ma dalla configurazione tipica della conversazione telefonica mediata dall’interprete. L’introduzione di un terzo interlocutore (che da un lato consente, dall’altro ostruisce, il rapporto diretto tra i partecipanti primari) rappresenterebbe quindi l’elemento di rottura con il buono svolgimento della comunicazione telefonica monolingue. A nostro giudizio, la moltiplicazione degli individui coinvolti contribuisce a una ridotta presenza sociale a causa dell’introduzione di un elemento perturbante nell’identificazione del contesto comunicativo dell’interlocutore, dei partecipanti e dei loro contributi. Questa criticità produce degli effetti sull’organizzaizone del discorso, come si può evincere da uno studio di caso condotto da Rutter (1989) sulla comunicazione telefonica tra un numero di partecipanti superiore a due in un setting educativo. L’autore analizza un seminario in conferenza telefonica con un piccolo gruppo di apprendenti, individuandovi una maggior tendenza a una forte strutturazione della comunicazione. A differenza del parlato in aula, i turni risultavano difatti rigorosamente organizzati secondo il pattern tutor-studente-tutor-studente.

Rutter attribuisce questa maggior strutturazione dei turni alla maggior distanza percepita tra i partecipanti, che acuisce le percezioni di ruolo. A nostro avviso, tuttavia, si tratta piuttosto di una strategia di risoluzione dei problemi messa in atto dal tutor di fronte alla complessa gestione di una comunicazione in cui il numero dei partecipanti non è quello “previsto” dalla normale comunicazione telefonica e in rottura, quindi, con le affordances tipiche del mezzo. La configurazione anomala renderebbe perciò necessaria l’individuazione e l’applicazione di strategie di gestione ordinata dei turni per prevenire incomprensioni e confusione tra gli interventi dei partecipanti.

Questa forte strutturazione, percepita come un distacco rispetto alla spontaneità della comunicazione telefonica monolingue, non deve però offuscare l’esistenza anche in quest’ultima di procedure conversazionali peculiari, diverse dalla conversazione in presenza e che passeremo ora in rassegna allo scopo di individuare frequenze d’uso che possono essere identificate anche nell’interazione mediata telefonicamente.

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