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ECCEZIONI ALLA REGOLA: LA X TAVOLA, LE SEPOLTURE IN URBE E LA TRADIZIONE SUI FUNERA PUBLICA

Raramente possediamo documenti relativi alle procedure che regolavano i funerali, cosa che del resto si ripete per buona parte dei riti romani: gli archivi dei sacerdoti, depositari di questo sapere, sono andati perduti e solo trattati come quello contenuto nel secondo libro del de legibus di Cicerone ci permettono di conoscere in modo dettagliato le norme relative ai sepulcra.

I riferimenti per questa parte del testo sono sia Platone e i grandi legislatori greci, in particolare Solone e Demetrio Falereo, sia le leggi delle XII Tavole, che i contemporanei dell’oratore erano ancora in grado di citare a memoria.146

Nel mondo romano tombe e riti funerari ricadevano nell’ambito della religio, sfera di competenza, a partire da Numa, del collegio dei pontifices, che avevano il compito di spiegare a chi li consultava «le norme tradizionali sulla sepoltura dei morti».147

Allo ius pontificale spettava chiarire «quae finis funestae familiae, quod genus sacrificii Lari verbecibus fiat, quem ad modum os resectum terra obtegatur, quaeque in porca contracta iura sint, quo tempore incipiat sepulchrum esse et religione teneatur».148 Accanto a questo diritto di carattere ‘religioso’, ne esisteva uno civile: alla religio sepulcrorum dei pontefici si affiancò alla metà del V secolo a.C. lo ius sepulcrorum della città, stabilito dai Decemviri.

Dopo aver chiarito i due ambiti di competenza, Cicerone ricorda che le disposizioni sui funerali erano poche, ma ben note a tutti: esse infatti facevano parte di un sapere largamente diffuso ancora all’epoca dell’autore, che trovava la sua formulazione giuridica nella X Tavola delle leggi. La prima norma menzionata dall’oratore è quella che qui interessa. Vi è contenuto il divieto di seppellire e cremare all’interno del pomerio: «Hominem mortuum, inquit lex in XII, in urbe ne sepelito neve urito».149 Tale disposizione sembra riprendere e sancire una pratica arcaica che trova conferma nella documentazione archeologica a Roma stessa, dove negli anni centrali del VII secolo a.C. scompaiono le ultime sepolture infantili collegate ad abitazioni nell’area centrale

146 A

MPOLO 1984, p. 84. Sulle leggi delle XII Tavole si vedano gli articoli di sintesi diTOHER 1986,pp. 301-326; BERNARDI 1988,pp. 415-425; D’IPPOLITO 1988,pp. 397-413; SCHIAVONE 1988, pp. 545-574.

147

Plut., Numa 12, 1. L’autorità dei pontefici è fatta risalire a Numa: Liv. 1, 20, 7; Cic., de rep. 4, 8;

tuscul. 1, 12, 27; CIL VI 10675 = ILS 8386; 1884; 2963 = ILS 8382. Cfr. Dig. 11, 8, 5, 1.DE VISSCHER 1963, p. 142-150.

148 Cic., de leg. 2, 22, 55. 149

del Foro Romano.150 Le spiegazioni chiamate in causa da antichi e moderni per giustificare tale provvedimento sono il timore di incendi, motivi igienici, di spazio e religiosi in genere. Da quanto detto nelle pagine precedenti appare chiaro che il corpo del defunto costituiva un elemento contaminante non solo per la famiglia colpita dal lutto, ma per l’intera società e doveva pertanto essere escluso dal limite sacro della città, all’interno del quale non c’era posto neppure per divinità infere, straniere e per tutto ciò che aveva a che fare con la guerra.151

Tuttavia non mancarono eccezioni alla regola, come ricorda Attico facendo riferimento ai clari viri «qui post XII in urbe sepulti sunt».152 Chi sono i clari viri a cui si accenna? Cicerone risponde alla domanda dell’amico riportando esempi puntuali: «Credo, Tite, fuisse aut eos, quibus hoc ante hanc legem virtutis causa tributum est, ut Poplicolae, ut Tuberto, quod eorum posteri iure tenuerunt, aut eos, si qui hoc, ut C. Fabricius virtutis causa soluti legibus, consecuti sunt».153 Alcuni uomini illustri, come Publicola e Tuberto, avevano ricevuto l’onore di una sepoltura in urbe (e quindi di carattere pubblico), trasmissibile ai loro discendenti, prima della promulgazione delle leggi delle XII Tavole e questo spiegherebbe il mancato rispetto della norma, ancora non codificata. Diverso e collocabile in epoca storica, il caso di Fabrizio Luscino, console nel 282 e nel 278 a.C., uomo noto per la sua onestà, saggezza e dignità.

È opportuno soffermarsi prima di tutto sulle notizie relative ai funera più antichi, che si collocano nei primi decenni di vita della Repubblica. La notizia riportata nel de legibus sulla concessione di una tomba in città a Valerio Publicola trova conferma nelle narrazioni di altri autori, come Livio, Dionigi di Alicarnasso e Plutarco.

La tradizione letteraria su Publicola non è tenuta in grande conto dagli studiosi che si occupano dei funerali, in quanto figura il cui profilo sconfina nel mito.154 A ciò si deve aggiungere che molti episodi che lo riguardano sono generalmente attribuiti alla penna

150

AMPOLO 1984, pp. 81-83, con bibliografia precedente.

151 Sul pomerio e le sue esclusioni rituali si veda il Cap. IV. 3.

152 Cic., de leg. 2, 23, 58: «Quid, qui post XII in urbe sepulti sunt clari viri?».

153 Cic., de leg. 2, 23, 58: «Credo, Tito, che si sia trattato di coloro ai quali tale privilegio fu conferito

prima della promulgazione delle leggi in riconoscimento della loro virtù, come Publicola e Tuberto, privilegio che i loro discendenti conservarono per diritto, e di coloro che, come Fabrizio, esonerati dall’obbedire alla legge, lo conseguirono a causa della loro virtù» (trad. L. Ferrero - N. Zorzetti, ed. UTET 1986).

154

Si veda l’affermazione di Arce, secondo il quale Silla fu il primo romano a usufruire di un funus

publicum: ARCE 1988, p. 17. Un’ampia trattazione sul mito di Publicola nel contesto della fondazione della Repubblica in ARCELLA 1985 e ARCELLA 1992, che giunge fino a scindere la figura del primo console da quella del Publio Valerio attestato dall’epigrafe di Satrico, individuando nell’uno e nell’altro aspetti mitici, che nulla permettono di dire sulla loro esistenza storica.

di uno storico appartenente alla gens Valeria e di conseguenza ritenuto poco attendibile: Valerio Anziate.155 Tali posizioni di scetticismo sono rimaste invariate anche in seguito al ritrovamento del lapis Satricanus, importante epigrafe venuta alla luce durante gli scavi del tempio di Mater Matuta a Satrico e datata tra la fine del VI e gli inizi del V a.C.156 Senza voler entrare in merito a una discussione complessa e fuorviante rispetto ai fini che si pone la presente ricerca, è necessario sottolineare che in questo controverso documento, la cui frammentarietà ha prodotto un gran numero di diverse integrazioni e interpretazioni, compare chiaramente il nome di un Publio Valerio, che risulta in qualche modo collegato a una sodalitas dedita al culto di Marte.157 Di questi elementi non c’è ragione di dubitare. La coincidenza cronologica e onomastica tra il primo console della Repubblica e il Publio Valerio nominato nella dedica hanno condotto quindi a ipotizzare una loro probabile identità: il lapis Satricanus testimonia l’esistenza storica di un personaggio appartenente alla gens Valeria e attivo nei dintorni di Roma negli anni immediatamente successivi alla cacciata di Tarquinio il Superbo. Malgrado i dubbi espressi da una parte della corrente storiografica ipercritica e i tentativi di ricondurre nell’ambito del mito l’esistenza di Valerio Publicola, la dedica di Satrico sembra portare in direzione opposta e conferma il ruolo di primo piano svolto a Roma da un esponente di questa famiglia sabina tra la fine del VI secolo e gli inizi del V a.C. Non ci sono pertanto validi motivi per non prendere in considerazione la documentazione letteraria relativa ai suoi funerali.

Publicola, secondo la tradizione, avrebbe ricevuto un funus publicum a causa della sua grande povertà, che impediva alla famiglia di rendergli gli onori funebri dovuti, e una sepoltura all’interno della città.158 Dionigi di Alicarnasso e Plutarco ci dicono che fu cremato e sepolto nei pressi del Foro Romano, ai piedi della Velia, laddove si trovava

155 W

ISEMAN 1996, pp. 117-139. Si veda la posizione più moderata di RICHARD 1994, che fa risalire parte delle informazioni su Publicola attribuite a Valerio Anziate alla tradizione familiare dei Valerii. Queste sarebbero state tramandate per via orale o attraverso documenti d’archivio: Valerio Anziate avrebbe in parte rielaborato e avvalorato tali tradizioni, senza tuttavia inventare nulla.

156 Lapis Satricanus 1980; L

A ROCCA 1984, pp. 12-20; ARONEN 1989, pp. 19-39. La bibliografia aggiornata sul lapis Satricanus si trova in WAARSENBURG 1997;LUCCHESI-MAGNI 2002.

157

COARELLI 1995B, pp. 210-211. L’esistenza di sodalitates arcaiche collegate all’organizzazione gentilizia e attive ancora nei primi decenni del nuovo ordinamento repubblicano è dimostrata, indipendentemente dal lapis Satricanus, dagli studi di Richard sui Fabii e la sconfitta al Cremera: RICHARD 1988;RICHARD 1989; RICHARD 1989A; RICHARD 1990.

158

anche la sua abitazione.159 Si tratta del primo esempio di bustum documentato dalle fonti letterarie: l’area in cui il corpo fu cremato, fu la stessa che ne ospitò la tomba.160 Il luogo fu considerato dagli antichi uno ƒerÒn e l’onore di una tale sepoltura fu concesso anche ai suoi discendenti, che tuttavia decisero di rinunciare a tale diritto ereditario.161

In questi due autori si legge chiaramente la saldatura tra la tradizione sulle sepolture in urbe e quella relativa ai funera pubblica, permettendo di ipotizzare l’origine di questi ultimi da quelle: il funus publicum, come abbiamo già sottolineato, in epoca storica prevedeva non solo che lo Stato si facesse carico delle spese della cerimonia, ma anche l’attribuzione di una tomba su suolo pubblico. Più precisamente possiamo affermare, sulla base della discussione in Senato per gli onori postumi da decretare a Servio Sulpicio Rufo, che la concessione di un sepulcrum publicum era prioritaria rispetto ai funerali di Stato, che ne discendevano quasi come un esito necessario.

Quanto alla colletta popolare destinata a raccogliere il denaro necessario a garantire un funerale degno dei suoi meriti e - aggiungerei, del suo rango - a Publicola, difficilmente si può prendere in considerazione la sua storicità.162

I primi decenni di vita della Repubblica, infatti, videro l’emergere di personaggi carismatici, pronti ad assumere su di sé il compito di colmare il vuoto di potere lasciato dalla monarchia: nelle narrazioni giunte fino a noi il ritratto di Publicola, dipinto ora come onesto cittadino, ora come novello aspirante alla tirannide, dà il segno della confusione e della difficoltà di stabilire un nuovo ordine sociale e politico.163 Esponente di una delle gentes più in vista di Roma in quegli anni, fu uno dei primi consoli dopo la cacciata dei Tarquini e secondo una tradizione antica sarebbe stato l’autore dell’espropriazione delle terre regie, a seguito della quale l’ager Tarquiniorum avrebbe

159 Dion. Hal., Ant. Rom. 5, 48, 3: «kaˆ cwr…on œnqa ™kaÚqh kaˆ ™t£fh [….] ™n tÍ pÒlei sÚnegguj

tÁj ¢gor©j ¢pšdeixen ØpÕ OÙel…aj». Sulle case dei Valerii: COARELLI 1983, pp. 79-89.

160 Bustum era il termine antico per indicare il sepulcrum: è il luogo dove il corpo è bruciato e sepolto.

Cfr. Serv., ad Aen. 11, 201: «Bustum dicitur in quo mortuus conbustus est, ossaque eius ibi iuxta sunt

sepulta. Alii dicunt, ubi homo combustus est, nisi ibidem humatus fuerit, non esse ibi bustum, sed ustrinum»; Fest. 29 L: «Bustum propie dicitur locus in quo mortuus est combustus et sepultus, diciturque bustum, quasi bene ustum; ubi vero combustus quis tantummodo, alibus vero est sepultus, is locus ab urendo ustrina vocatur». Il bustum si differenzia dall’ustrinum in quanto quest’ultimo non è area di

sepoltura, ma solo di cremazione. Vedi anche Corp. Gloss. VII 386: «locus ubi comburantur corpora».

161 Dion. Hal., Ant. Rom. 5, 48, 3.

162 Così Wesch-Klein, che nel suo studio indica nei funera ex aere collato i precedenti dei funera publica:

WESCH-KLEIN 1993, pp. 6-9.

163

preso il nome di campus Martius.164 La sua casa, costruita sulla Velia in posizione dominante rispetto al Foro Romano, occupava secondo Cicerone il luogo stesso della reggia di Tullo Ostilio.165 Se anche non vogliamo accettare in toto la tradizione su questo personaggio, è innegabile che i Valerii rivestirono una posizione di primo piano negli anni successivi alla caduta della monarchia: ne consegue che la loro presunta povertà risulta quanto meno da mettere in dubbio.166

Se questo è quanto possiamo dire sulla base delle testimonianze letterarie e del lapis Satricanus per i primi anni della Repubblica, un indizio interessante a conferma di un legame dei Valeri con l’area della Velia ancora nel I a.C. viene dalla documentazione archeologica. Nel 1875, all’angolo nord-occidentale della Basilica di Massenzio fu trovato un frammento dell’elogio di M. Valerius Messalla Niger (console nel 64 a.C.), in cui compare anche il nome del figlio M. Valerio Messalla Corvino (cos. suff. 31 a.C.).167 Interpretato ora come iscrizione riferibile a una tomba, ora come pertinente a un monumento onorario, sembra in ogni caso indicare l’esistenza di un’area legata alla memoria dei Valerii nelle vicinanze del Foro, laddove la tradizione letteraria collocava domus e luogo di sepoltura della gens.168

Il funus di P. Postumio Tuberto dovette essere più o meno contemporaneo a quello di Publicola e risulta ugualmente avvolto nelle nubi della più antica storia romana repubblicana: console nel 505 a.C., combatté contro i Sabini, sconfiggendoli ben due volte.169 Per i suoi successi militari ricevette l’onore della prima ovatio, cerimonia che a partire dal 503 a.C. e fino al 396 a.C. sostituì il trionfo, i cui legami con i re etruschi evidentemente erano sentiti come troppo stretti negli anni in cui si cercava di dare un

164 Si veda in proposito C

OARELLI 1997, pp. 113 e 136-148. Per l’ager Tarquiniorum: Dion. Hal., Ant.

Rom. 5, 13, 1-3; Liv. 2, 5, 2; Fest. 440 L; Plut., Publ. 8, 1-3; Zosim. 2, 3, 3.

165 Cic., de rep. 2, 53: «P. Valerius [...] aedis suas detulit sub Veliam, posteaquam, quod in excelsiore loco Veliae coepisset aedificaret, eo ipso ubi rex Tullus habitaverat, suspicionem sensit moveri».

166 Sappiamo quanto poco chiari siano stati in realtà gli inizi della Repubblica e in alcune fonti appare

evidente il tentativo di personaggi come Publicola di sostituire il proprio potere personale a quello del re, tanto da venir tacciati di aspirazione alla tirannide: COARELLI 1983, pp. 56-89; LA ROCCA 1984, pp. 15- 16.

167 L

ANCIANI 1876; HENZEN 1876.

168

DEGRASSI 1937, n. 77, pp. 55-56; CASTAGNOLI 1946, p. 160; RICHARD 1994, n. 58, p. 420; VERZAR- BASS 1998, pp. 404-406. La tradizione sull’abitazione di Publicola può essere posta a confronto con la scoperta di una casa arcaica, individuata negli strati sovrastanti alla necropoli del Foro, alle pendici della Velia. La costruzione e la vita di questo edificio, a cui sembrano collegarsi alcuni ricchi suggrundaria arcaici, vengono a collocarsi tra la fine del VII e quella del secolo successivo:COARELLI 1983, pp. 80-82.

169 Plin., N.H. 15, 125: «Bellicis quoque se rebus inseruit, triumphansque de Sabinis P. Postumius Tubertus in consulatu, qui primus omnium ovans ingressus urbem est, quoniam rem leniter sine cruore gesserat, myrto Veneris Victricis coronatus incessit». Cfr. Dion. Hal., Ant. Rom. 5, 47, 2. COARELLI 1983, pp. 87-88.

nuovo assetto allo Stato romano.170 L’unico a riportare la notizia sulla concessione di una sepoltura pubblica - della quale tuttavia non abbiamo motivi di dubitare - è Cicerone. Di conseguenza è difficile aggiungere qualcosa a questa scarna menzione. Il terzo e ultimo esempio ricordato nel de legibus, quello di C. Fabrizio Luscino, si colloca agli inizi del III a.C. e quindi sembra porre meno problemi riguardo alla sua veridicità storica. Malgrado i due secoli di distanza con Publicola e Tuberto e l’entrata in vigore delle leggi delle XII Tavole - una della quali come abbiamo visto era indirizzata a regolamentare vari aspetti del rituale funerario, compreso quello chiamato in causa - anche in questo caso, come nei due precedenti, il mancato rispetto della norma è giustificato dall’oratore virtutis causa, espressione che rimanda ai decreti di concessione di funus publicum noti dalla documentazione epigrafica del I a.C., sui quali mi riservo di tornare in seguito.171

La tradizione riportata da Cicerone nella Nona Filippica e nel de legibus permette di avanzare due ipotesi di lavoro: la prima è quella di una discendenza dei funera publica dalle più antiche sepolture in urbe, che fin da Publicola sembrano legarsi strettamente a essi. La seconda nasce da una constatazione, che ha tuttavia bisogno di ulteriori elementi di conferma: la presenza di una interruzione nell’attribuzione di un tale onore tra la fine del VI e gli inizi del III a.C. richiama alla mente l’analoga frattura che si riscontra nella concessione del trionfo negli stessi secoli, riconducendo in via ipotetica la tradizione sulle sepolture all’interno della città al periodo regio.

Per verificare entrambe queste proposte è necessario prendere in considerazione e indagare le notizie relative alla concessione di funera publica, provenienti da altri autori antichi, collocabili nell’arco di tempo evidenziato sopra sulla base delle informazioni forniteci da Cicerone.

Se seguiamo un ordine cronologico, così come ricostruito nel dettaglio da Wesch-Klein, tale onore, dopo Publicola e Tuberto, fu concesso ad Agrippa Menenio Lanato (493

170 Nell’ovatio si deve riconoscere probabilmente una forma di trionfo ‘pre-etrusco’: B

ONFANTE WARREN 1970, pp. 50-57; COARELLI 1988, pp. 430-432. In uno studio recente Firpo sembra mettere in dubbio non solo la realtà storica dei trionfi celebrati iussu populi nel V e nel IV secolo a.C., ma anche quella delle

ovationes ricordate tra il 503 e la fine del III secolo a.C.: FIRPO 2007, in particolare p. 115, n. 76.

171 Si veda il testo dell’iscrizione sul sepolcro di C. Publicio Bibulo (ILLRP 357): «C. Poplicio L. f. Bibulo aed(ili) pl(ebis) honoris/ virtutisque caussa senatus/ consulto populique iussu locus / monumento quo ipse postereique / eius inferrentur publice datus est». VALVO 1990.

a.C.).172 Proprio la tradizione antica su questo funerale spinge la studiosa a ipotizzare una discendenza dei funera publica dai funerali in cui le collette liberamente raccolte dal popolo venivano a porre rimedio alla povertà di personaggi che si erano guadagnati, con le loro azioni a favore dello Stato, la stima dei cittadini. Pertanto la documentazione letteraria relativa merita un’attenzione particolare.

Livio dice esplicitamente che, mancando i soldi per un funerale degno dell’uomo che aveva consentito il rientro della plebe a Roma dopo la secessione, il popolo raccolse un sesto di asse a testa per provvedere a essi: «extulit eum plebs sextantibus conlatis in capita».173 Il racconto di Dionigi di Alicarnasso è più articolato e ricco di dettagli preziosi. Vi si legge, a introduzione, che Agrippa Menenio Lanato fu sepolto a spese pubbliche: «kaˆ aÙtÕn œqayen ¹ pÒlij dhmos…v[…]».174 Da quanto appare a un primo approccio, sembrerebbe quindi essersi trattato di un funus publicum in piena regola.

Di seguito, tuttavia, Dionigi fa alcune precisazioni nel racconto, soffermandosi sullo svolgimento degli eventi prima descritti in maniera sintetica. La povertà di questo meritevole cittadino romano non avrebbe permesso che un misero funerale. I tribuni allora si rivolsero al popolo, chiedendo di raccogliere il denaro necessario per una cerimonia degna delle sue azioni. «Maqoàsa de; toàq' ¿ boul¾ di' a„scÚnhj tÕ

pr©gma œlabe kaˆ œkrine m¾ kat' ¥ndra ™ranismù tÕn ™pifanšstaton `Rwma…wn periide‹n qaptÒmenon, ¢ll' ™k tîn dhmos…wn ™dika…wse tÕ ¢n£lwma genšsqai

to‹j tam…aij ™pitršyasa t¾n ™pimšleian».175

Fin qui le fonti: il popolo, desideroso di rendere i dovuti onori a colui che aveva permesso il rientro in città della plebe, su proposta dei tribuni, raccolse il denaro per il funerale, ma l’iniziativa fu bloccata dal Senato, che impose la sua autorità concedendo un funus publicum. I soldi raccolti furono resi al popolo, che li donò ai figli del defunto.

Da qui trae spunto la riflessione di Wesch-Klein. La studiosa propone il confronto con la narrazione fatta da Plutarco dei funerali di Publicola, sottolineando la presenza anche in questa circostanza di una iniziativa popolare di colletta per consentire lo svolgimento

172 Liv. 2, 33, 11; Dion. Hal., Ant. Rom. 6, 96; Val. Max. 4, 4, 2; Aur. Vict., de vir. ill. 18, 7; Apul., Apol.

18. BROUGHTON 1952, p. 590.

173

Liv. 2, 33, 11.

174 Dion. Hal., Ant. Rom. 6, 96, 1.

175 Dion. Hal., Ant. Rom. 6, 96, 3: «Venuto a conoscenza di ciò, il Senato fu preso da vergogna e decise

che non avrebbe permesso che il più illustre dei Romani fosse sepolto con una colletta popolare, ma ritenne opportuno che le spese ricadessero sull’erario e ne affidò la cura ai questori».

di un funerale adeguato all’importanza del personaggio.176 Questa osservazione la conduce a ipotizzare che al tempo di Dionigi di Alicarnasso la tradizione sui più antichi funerali ex aere collato si fosse fusa con il modello dei funerali a spese dello Stato. Ne conclude che i funerali ex aere collato, nella tradizione elaborata dagli storici tardi, furono descritti e concepiti come funera publica e, pertanto, che tali collette di denaro altro non fossero che un primo stadio dei secondi, attestati in età tardo-repubblicana e