“La neutralità degli spazi pubblici nella giurisprudenza CEDU”
2. Limiti alla esibizione personale del simbolo religioso nelle sedi pubbliche
2.1 Neutralità degli istituti scolastici pubblic
2.1.2 L’esibizione dei simboli religiosi da parte degli studenti: i casi Leyla Sahin c Turchia, Dogru c Francia, Aktas e altri c.
Francia
La questione dell’esibizione personale del simbolo religioso nelle scuole da parte degli studenti, trova un primo intervento della Corte di Strasburgo con la vicenda Leyla Sahin
c. Turchia. La ricorrente, una studentessa della facoltà di
medicina dell’Università di Istanbul e musulmana praticante, ha adito la Corte per la violazione degli artt. 9 e 14 CEDU, essendo stata destinataria di un provvedimento coercitivo adottatato dalle autorità accademiche con cui le si negava l’accesso ad alcuni corsi perché si era rifiutata di privarsi del velo durante lo svolgimento delle attività universitarie. Il provvedimento era stato assunto in conformità alla Circolare del 23 ottobre del 1988, redatta dal vice rettore dell’Ateneo, la quale precisava che, per frequentare i corsi accademici, gli studenti avrebbero dovuto avere il capo scoperto264. Dopo aver adito, con esito negativo,
gli organi giurisdizionali interni265, la studentessa si è rivolta,
264 Nel paragrafo 12 della Circolare, si precisa che tale obbligo è previsto nel rispetto della Costituzione, della legge e dei regolamenti.
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con ricorso n° 44774/98, ai giudici EDU, ritenendo sussistente una palese violazione della libertà di manifestazione del proprio credo attraverso un provvedimento che ella riteneva discriminatorio per le studentesse musulmane; inoltre, la studentessa ha dichiarato che “il suo abbigliamento deve essere
considerato come l’osservanza di una regola religiosa” e che “il divieto di portare il foulard islamico nelle università non ha alcuna base legale”.
Il governo turco ha, invece, negato che si sia verificata la violazione dell’art. 9 CEDU, in quanto la limitazione perseguiva la tutela dell’ordine pubblico, del principio di laicità e delle libertà altrui (scopo legittimo) sui quali si fonda una società democratica (necessità dell’ingerenza); a detta del Governo resistente, la laicità “rappresenta una condizione preliminare di
una democrazia pluralista liberale”. In più, le autorità
scolastiche hanno sottolineato che il portare il foulard islamico non è vietato all’esterno dell’università: “nel settore
dell’insegnamento pubblico, considerato servizio pubblico, la laicità , di cui la neutralità delle sedi pubbliche ne è parte integrante, deve applicarsi; permettere di portare il foulard islamico nel quadro del servizio pubblico equivale a concedere un privilegio in favore dell’Islam”.
Nel giudizio di primo grado, la Chambre, con sentenza del 29 giugno 2004266, ha ravvisato la insussistenza della lesione dell’art. 9.2 CEDU, affermando la legittimità del provvedimento restrittivo perché aderente con l’art. 2 della Costituzione turca, concluso che le misure restrittive adottate in suo danno erano perfettamente legali, anche perché la legislazione scolastica consente alle autorità accademiche di disciplinare il vestiario degli studenti per la garanzia dell’ordine pubblico.
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che sancisce il principio di laicità267 dello Stato, e con il contestuale principio di neutralità delle sedi pubbliche (in questo caso della scuola); inoltre, la Corte ha aggiunto che le autorità universitarie, nel regolamentare l’uso del velo, hanno adottato misure proporzionate allo scopo da realizzare e che queste avevano una base legale: la Corte ha richiamato la sua giurisprudenza secondo cui il termine legge contenuto nell’art. 9.2 deve essere inteso in senso materiale e non formale268(tra cui rientra la circolare del 23 ottobre 1988 e lo stesso provvedimento delle autorità univesitarie).
Alle stesse conclusioni è giunta la Grande Chambre, nel giudizio di secondo grado, con sentenza del 10 novembre del 2005; ha ribadito la liceità delle limitazioni alla manifestazione del proprio credo per la salvaguardia dei principi e dei valori costituzionalmente sanciti e, in generale, del sistema democratico in Turchia.
Il secondo caso riguarda la vicenda Dogru c. Francia, nel quale una cittadina francese, di fede musulmana, ha ricorso alla Corte EDU in quanto lamentava una lesione al suo diritto di manifestare il proprio credo ai sensi dell’art. 9 CEDU.
La questione prende avvio nell’anno 1998, in cui Belgin Dogru, che al tempo aveva 11 anni, ha cominciato a presentarsi al collegio pubblico della città di Flers con il capo coperto dal velo islamico; nonostante le ripetute richieste del professore di educazione fisica di togliere il velo durante le sue ore di lezione, sostenendo la incompatibilità dell’uso del velo con la pratica
267 Nell’ordinamento turco, la laicità ha assunto il ruolo di garante dei valori democratici, quale la uguaglianza delle religioni e delle credenze che devono pacificamente coesistere fra loro, e delle libertà inviolabili come quella di religione. 268
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dell’educaazione fisica, la studentessa si è rifiutata di scoprirsi il volto, portando il consiglio d’istituto a decidere per l’esclusione definitiva della ragazza a causa della sua mancata partecipazione al corso di ginnastica. La decisione è stata poi confermata dal rettore dell’Accademia di Caen, in ossequio all’obbligo di frequenza269 e alle disposizioni del regolamento interno del collegio che prevedevano che gli alunni dovessero vestire con una tenuta che rispettasse le regole di igiene e di sicurezza e che dovessero presentarsi ai corsi di educazione fisica con una tenuta sportiva.
Al tempo, i genitori della alunna proposero ricorso presso le giurisdizioni interne, le quali hanno concluso che il comportamento della studentessa avevano oltrepassato i limiti del suo diritto di esprimere e manifestare il suo credo religioso. Con ricorso n° 27058/05, Belgin Dogru ( e non più i suoi genitori) ha adito i giudici di Strasburgo denunciando la lesione dell’art. 9 CEDU; tra le motivazioni del ricorso, la ragazza ha inserito la mancata base legale 270 della restrizione subita.
Tuttavia, il governo francese ha risposto a tale contestazione precisando che, in realtà la limitazione era stata applicata alla luce del parere n° 346893 del 27 novembre 1989 con cui il Consiglio di Stato si è pronunciato riguardo la compatibilità dell’indossare simboli religiosi nelle scuole pubbliche con il principio di laicità, sancito dalla Costituzione francese: nel
269 Art. 10 delle legge di orientamento sull’educazione n°89 del 10 luglio 1989. 270 Per la ricorrente, al tempo in cui ha subito la restrizione, non esisteva alcuna legge che legittimasse tale limitazione, ma soltanto nel 2004 è stata introdotta la legge n° 228 del 15 marzo, in applicazione del principio di laicità, disciplinante il portare simboli religiosi nelle scuole. Tale legge sulla laicità ha stabilito che “nelle scuole, collegi e licei pubblici è vietato indossare simboli o tenute con cui gli alunni manifestano in maniera plateale un’appartenenza religiosa”.
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parere si conclude che di per sé l’utilizzo di simboli religiosi non risulta lesivo del principio di laicità a meno che ciò non abbia carattere ostentatorio o rivendicativo in modo da costituire un atto di proselitismo o di propoganda che leda la libertà di coscienza e di religione altrui e la neutralità del servizio pubblico quale componente del generale principio di laicità. Inoltre, il Consiglio di Stato ha precisato che “spetta alle
autorità scolastiche, sotto il controllo del giudice amministrativo, se l’indossare di un simbolo religioso da parte dell’alunno costituisca una colpa di natura tale da giustificare l’avvio del procedimento e l’applicazione di una delle sanzioni previste dai testi vigenti, tra cui l’esclusione dall’istituto”271. Il governo resistente ha aggiunto che la restrizione subita dalla ricorrente trova il proprio fondamento anche in alcune circolari ministeriali: la prima è la Circolare del Ministro dell’educazione nazionale del 12 dicembre 1989, intitolata “Laicità, il portare
simboli religiosi da parte degli alunni e il carattere obbligatorio dell’istruzione”; nell’incipit, la circolare afferma che “la laicità, principio costituzionale della Repubblica, è uno dei fondamenti della scuola pubblica…nella scuola, ove i giovani si trovano senza alcuna discriminazione, l’esercizio della libertà di coscienza, nel rispetto del pluralismo e della neutralità del servizio pubblico, impone che l’insieme della collettività educativa viva al riparo da ogni pressione ideologica e religiosa; quando un conflitto sorge sull’indossare simboli religiosi deve essere subito intrapreso un dialogo con l’alunno affinchè, nel suo interesse e in quello del buon funzionamento della scuola, si
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165 rinunci ad indossare il simbolo”.
Una seconda circolare del Ministro dell’educazione pubblica del 20 settembre 1994 ha precisato che “non è possibile accettare a
scuola la presenza di simboli così ostentatori il cui significato è precisamente quello di allontanare certi alunni dalle regole di vita comune nella scuola”.
Tornando alle motivazioni del ricorso, la ricorrente ha sostenuto che le restrizioni contestate non erano finalizzate ( e proporzionate) ad uno scopo necessario in una società democratica; contrariamente a tali affermazioni, il governo francese ha chiarito che la misura assunta era finalizzata ad uno scopo legittimo, e cioè alla protezione dell’ordine, delle libertà altrui e della neutralità del servizio e delle istituzioni pubbliche, e che l’ingerenza era necessaria in una società democratica in quanto essa si fondava sui principi costituzionali di laicità e di uguaglianza dei sessi.
La Corte EDU, dopo aver statuito che il ricorso non è manifestamente infondato ai sensi dell’art. 35, 3°272 CEDU, è scesa nel merito della controversia . Con sentenza del 4 dicembre 2008273, la V sezione della Corte ha concluso per la mancata violazione dell’art. 9 della Convenzione, avendo ravvisato una base legale della limitazione ( art. 10 della legge di orientamento sull’educazione del 10 luglio 1989 per cui “nei
licei e nei collegi gli alunni dispongono, nel rispetto del pluralismo e della neutralità, della libertà di informazione e di
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“la Corte dichiara irricevibile ogni ricorso individuale presentato ai sensi dell’art. 34 se ritiene che il ricorso sia incompatibile con le disposizioni della Convenzione e dei Protocolli, o sia manifestamente infondato o abusivo, o il ricorrente non abbia subito alcun pregiudizio importante..”
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quella di espressione e che l’esercizio di tali libertà non può arrecare danno alle attività di insegnamento”; parere del 27
novembre 1989 del Consiglio di Stato, in cui si è posto il principio di libertà di portare simboli religiosi nell’ambito scolastico ma tale manifestazione non può arrecare danno alle attività di insegnamento, l’ordine pubblico e il buon funzionamento del servizio pubblico, e in cui si è prevista la regolamentazione interna di ciascun istituto per fissare tali principi: così il regolamento della scuola di Flers ha stabilito espressamente il divieto di simboli ostentatori che costituiscano
elemento di proselitismo o di discriminazione).
Inoltre, i giudici EDU hanno individuato uno scopo legittimo, ossia quello di salvaguardare le libertà altrui e l’ordine pubblico, e la necessarietà dell’ingerenza nella società democratica, in cui coesistenza di più religioni richiede la limitazione alla libertà religiosa per coinciliare gli interessi dei diversi gruppi e per rispettare le convinzioni di tutti. La Corte ha dunque posto l’accento sul ruolo dello Stato quale organizzatore neutro ed imparziale rispetto all’esercizio di tutte le confessioni religiose.
La sentenza Aktas e altri c. Francia274 del 17 luglio 2009
ha concluso la vicenda di sei ragazzi espulsi dalle rispettive scuole statali nell’anno accademico 2004/2005. L’espulsione era dovuta dal fatto che il primo giorno di scuola gli studenti si erano presentati indossando evidenti simboli religiosi: le ragazze con il velo islamico mentre i ragazzi con il keski (turbante portato dai Sikh). Il divieto di esibire simboli evidenti di appartenenza religiosa era posto con la legge n° 228/2004:
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questa ha inserito un nuovo comma nel Codice dell’educazione che prevede il divieto per gli studenti di scuole pubbliche di portare segni o abiti con cui manifestano ostensibilmente una appartenenza religiosa275.
Dopo essersi rivolti senza successo al Consiglio di Stato, il quale ha riscontrato che i ragazzi, indossando quel copricapo, avevano mostrato vistosamente la loro appartenenza religiosa, in violazione del divieto di legge, i ricorrenti hanno adito la CEDU rilevando una presunta lesione dell’art. 9 e dell’art. 14 (divieto di discriminazione) e lamentando che il divieto loro imposto dalle scuole comportasse una disparità di trattamento in base alla loro religione.
La Corte ha spiegato che il divieto di indossare da parte degli allievi di simboli religiosi costituiva una restrizione della loro libertà di manifestare la propria religione; tuttavia, tale restrizione ha trovato la propria base legale nella legge del 15 marzo 2004 ed ha perseguito lo scopo legittimo di tutelare i diritti e le libertà altrui e dell'ordine pubblico.
La sentenza ha nuovamente sottolineato l'importanza del ruolo dello Stato come organizzatore neutrale ed imparziale dell'esercizio delle varie religioni, fedi e credenze. Ha inoltre ribadito che uno spirito di compromesso da parte degli individui è reso necessario al fine di mantenere i valori di una società democratica.
275 La circolare di applicazione del 18 maggio 2004 precisa il campo applicativo della legge: i segni e gli indumenti vietati sono il velo islamico, la kippa ebraica e il crocifisso cristiano di dimensioni eccessive, ammettendo che gli studenti portino segni religiosi discreti, di piccole dimensioni. Tuttavia tale elenco è meramente esemplificativo in quanto la circolare precisa che il divieto è applicabile ai simboli di tutte le religioni.
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Il divieto di tutti i simboli religiosi evidenti in tutte le classi delle scuole statali si basava sul principio costituzionale di laicità, che è stato coerente con i valori protetti dalla Convenzione e dalla giurisprudenza della Corte.
Per quanto riguarda la pena di espulsione definitiva, non era sproporzionata visto che gli allievi hanno avuto la possibilità di continuare la loro istruzione attraverso corsi per corrispondenza. L'interferenza da parte delle autorità con la libertà degli alunni di manifestare la propria religione è quindi giustificata e proporzionata allo scopo perseguito. Di conseguenza, i loro reclami di cui all'articolo 9 sono state respinte in quanto manifestamente infondata.