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Principio di laicità e libertà religiosa nei rapporti di lavoro: il caso Ewedia e Chaplin c Regno Unito e il caso

“La neutralità degli spazi pubblici nella giurisprudenza CEDU”

3. La neutralità religiosa nello spazio pubblico e nei luoghi di lavoro

3.2 Principio di laicità e libertà religiosa nei rapporti di lavoro: il caso Ewedia e Chaplin c Regno Unito e il caso

Ebrahimian c. Francia

La CEDU ha dovuto affrontare la delicata questione riguardo all’eventuale contrasto tra libertà religiosa di un dipendente e le esigenze del datore di lavoro legate alla produzione ed alla autonomia organizzativa. E’ evidente dunque la necessità di operare un bilanciamento tra interessi contrapposti, bilanciamento che nella maggior parte dei casi coinvolge i giudici a causa della mancanza di una normativa ad hoc (sia nel lavoro privato che pubblico).

Una prima vicenda al vaglio dei giudici di Strasburgo è stato il caso Ewedia e Chaplin c. Regno Unito: i ricorrenti hanno adito la CEDU ( ricorsi n° 48420/10 e 59842/10) lamentando la lesione degli artt. 9 e 14 della Convenzione.

La signora Ewedia, dal 1999, ha lavorato part-time come membro del personale del check-in per la British Airways; la compagnia richiedeva al personale di indossare, come uniforme, una camicia a collo alto ed una cravatta, non ammettendo la visibilità di gioielli, a maggior ragione se questi venivano indossati per motivi religiosi.

Tuttavia, in seguito al cambiamento della divisa, che prevedeva una camicetta aperta e un foulard da indossare a discrezione della dipendente, la signora Ewedia ha deciso di mostrare la propria collana con la croce, richiamando l’attenzione dei superiori che le hanno ricordato il divieto di indossare apertamente simboli religiosi così come prescritto dal codice di

175 vestiario dell’azienda290

. La norma in questione era finalizzata, infatti, all’impostazione laica dell’azienda, nel rispetto della libertà religiosa di ciascun cliente.

La compagnia aerea, esaminando l’istanza della signora Ewedia di poter indossare la croce cristiana, non ha concesso alcuna deroga, in base al fatto che la religione cristiana non imponeva di indossare alcun simbolo; inoltre, l’azienda ha proposto alla hostess di svolgere un ruolo di natura amministrativa che non imponeva di indossare l’uniforme e che non prevedeva il contatto col pubblico. La signora Ewedia ha rifiutato di cambiare mansione e ha mantenuto la propria posizione nel voler indossare la croce; di fronte a tale presa di posizione, la compagnia ha sanzionato la dipendente con l’esonero dal lavoro e la sospensione dello stipendio.

Diverso è il caso Chaplin che, pur riguardando sempre il contrasto tra uniformi e simboli religiosi, il divieto di indossare gioielli o altri accessori, anche di natura religiosa, era motivato non da ragioni di laicità del luogo di lavoro, ma da esigenze di salute pubblica. Alla signora Chaplin, infermiera in un ospedale inglese, era stato vietato di indossare la collanina con la croce che portava da anni, visto che la nuova divisa prevedeva una maglietta con scollo “a V”. Il divieto dell’ospedale di indossare qualsiasi gioiello e accessorio era dovuto a esigenze di salute visto che essi potevano recare lesioni ai pazienti; tuttavia, l’ospedale prevedeva deroghe al divieto per particolari esigenze di vestiario legate alla fede. La richiesta dell’infermiera di

290 Tuttavia, il codice di vestiario dell’azienda derogava tale divieto qualora il lavoratore fosse tenuto ad indossare simboli religiosi in virtù di specifici obblighi imposti dalla religione (quali il velo islamico o i braccialetti d’argento dei Sikh).

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ottenere una deroga è stata rigettata dall’azienda ospedaliera poiché incompatibile con le esigenze sanitarie dell’ente; inoltre, è stato proposto alla richiedente (che ha rifiutato) di la possibilità di indossare una maglia a collo alto sotto cui portare la collana, o di inserire una piccola croce nel tesserino di identificazione.

Le ricorrenti hanno adito la CEDU per violazione della loro libertà religiosa. La Corte, con sentenza del 15 gennaio

2013291, ha concluso, nella vicenda Ewedia, per l’accoglimento

del ricorso: i giudici hanno sostenuto che, nei rapporti di lavoro privato, viene espressamente riconosciuto il diritto dei dipendenti di manifestare il proprio credo e che lo Stato può essere ritenuto responsabile per la lesione della libertà religiosa nella misura in cui non le abbia garantito strumenti idonei per far valere le proprie pretese e non abbia effettuato un bilanciamento dei diritti coinvolti. Visto che non sussiste una normativa che disciplina le modalità con cui i simboli religiosi possano essere indossati sul luogo di lavoro, la Corte ha aggiunto che era doveroso compiere un bilanciamento fra gli interessi della compagnia aerea e della ricorrente: nella sentenza si conclude che, se pur l’interesse alla neutralità dell’azienda fosse legittimo, tuttavia questo aveva un’importanza inferiore rispetto al bisogno della donna di indossare la croce. Inoltre, il simbolo aveva dimensioni ridotte tali da non poter inficiare l’immagine professionale della dipendente e dell’azienda, nonché l’aspetto economico della stessa.

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Tuttavia, non è mancato chi292, all’interno della Chambre, ha espresso il suo parere contrario all’accoglimento del ricorso: è stato infatti sostenuto che la British Airways, di fatto, si è limitata ad applicare il regolamento sul vestiario proprio della compagnia, peraltro senza sanzionare la dipendente con il licenziamento per cui, non si potrebbe configurare una violazione dell’art. 9 visto che il fine perseguito dal datore era legittimo (neutralità religiosa del servizio e dell’azienda) e la limitazione proporzionata a tale scopo293.

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La dissenting opinion è stata espressa congiuntamente dai giudici Bratza e Bjorgvinsson. Il ricorso è stato accolto con 5 voti favorevoli su sette.

293 Della stessa opinione è la Corte di Giustizia UE che, nelle vesti dell’avvocato generale Kokott, ha concluso nel comunicato stampa del 31 maggio 2016 che “ove il divieto si basi su una regola aziendale generale, secondo cui sono vietati segni politici, filosofici e religiosi visibili sul luogo di lavoro, tale divieto può essere giustificato al fine di realizzare la legittima politica di neutralità religiosa e ideologica perseguita dal datore di lavoro”. Le conclusioni dell’Avvocatura generale ( che, pur non essendo vincolanti per la decisione finale, tuttavia nella maggior parte dei casi rappresentano una anticipazione della sentenza) riguardano il caso della Sig.ra Samira Achbita, di fede musulmana, la quale era occupata come receptionist presso la società belga G4S Secure Solutions, che fornisce servizi di sorveglianza e sicurezza nonché di accoglienza. Quando, dopo tre anni di attività presso tale impresa, ha insistito di poter indossare in futuro un velo islamico al lavoro, è stata licenziata, in quanto presso la G4S è vietato portare segni religiosi, politici e filosofici visibili. Con il sostegno del centro belga per le pari opportunità e la lotta al razzismo, la medesima ha citato per danni la GS4 dinanzi ai giudici belgi, rimanendo soccombente nei primi due gradi di giudizio. La Corte di cassazione belga, attualmente investita della controversia, chiede alla Corte, in tale contesto, precisazioni quanto al divieto, previsto dal diritto dell’Unione, di discriminazioni fondate sulla religione o sulle convinzioni personali. L’avvocato generale Kokott ritiene tuttavia che sia pacifico, in linea di principio, che il divieto di cui trattasi sia idoneo a conseguire la finalità legittima perseguita dalla G4S di neutralità religiosa e ideologica. Siffatto divieto risulta anche necessario alla realizzazione di tale politica imprenditoriale.

Nel caso Bougnaoui, l’avvocato generale UE Sharpston è giunto ad una diversa conclusione. La Sig.ra Asma Bougnaou, ingegnere progettista della società francese Micropole, nel giugno 2009 ha ricevuto una lettera di licenziamento, in cui ne veniva spiegato il motivo: alcuni clienti erano stati infastiditi dal velo e, proprio per evitare le lamentele della clientela, la società , sin dal colloquio di assunzione, le aveva richiesto di non indossare tale indumento durante le ore di servizio nel rispetto del principio di neutralità della azienda, nell’interesse e a fini dello sviluppo dell’impresa.

Nelle conclusioni dell’avvocato generale del 13 luglio 2016, si legge che il licenziamento derivante dal porto del velo islamico sul luogo di lavoro non solo costituisce una violazione della libertà religiosa, ma contrasta con la politica anti- discriminatoria e della parità di trattamento in materia di assunzione e di condizioni

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Riguardo alla vicenda Chaplin, i giudici di Strasburgo non hanno ravvisato una violazione dell’art. 9 della Convenzione, in quanto, nel bilanciamento tra diritto alla manifestazione religiosa della dipendente e le necessità di igiene e di salute dell’ospedale, prevalevano quest’ultime, anche perché la salute pubblica costituisce uno dei limiti espliciti dell’art. 9.2. È stato infatti sottolineato nella sentenza che il codice di vestiario adottato dall’ospedale era conforme a quanto indicato dalle direttive del Ministero della Salute in ragione della protezione della salute dei malati e della riduzione di rischi di infezioni.

Altro caso in tema di neutralità religiosa dei luoghi di lavoro è stato quello riguardante Christiane Ebrahimian, una cittadina francese di fede musulmana la quale era stata assunta, a tempo determinato, nell'ambito del servizio ospedaliero pubblico come assistente sociale nel reparto psichiatrico di Nanterre Hospital e sociale Care Centre ( "HSCC"), un istituto di cura pubblico gestito dal Comune di Parigi.

Nel novembre del 2000 il direttore delle risorse umane ha informato la ricorrente che il suo contratto non sarebbe stato rinnovato, per via del suo rifiuto di togliere il velo e delle relative lamentele dei pazienti.

Il direttore delle risorse umane ha inviato a Ebrahimian un promemoria con il parere del Consiglio di Stato del 3 maggio 2000, secondo cui mentre la libertà di coscienza dei pubblici di lavoro ( direttiva UE 2000/78). Secondo l’avvocato generale, il codice di abbigliamento di un’azienda che impone una stretta neutralità costituisce una discriminazione diretta o indiretta, che può essere giustificata solo se si persegue un obiettivo legittimo, come gli interessi commerciali dell’azienda, e se la misura è proporzionata allo scopo. Nel caso di specie, l’avvocato non ravvisa uno scopo legittimo e la proporzionalità del divieto.

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dipendenti va garantita, il principio della laicità dello stato impedisce loro di esercitare il diritto di manifestare il proprio credo religioso durante lo svolgimento del loro lavoro; di conseguenza, indossare un simbolo visibile di un'appartenenza religiosa costituisce violazione dei doveri del dipendente pubblico un promemoria con il parere del Consiglio di Stato del 3 maggio 2000, secondo cui mentre la libertà di coscienza dei pubblici dipendenti va garantita, il principio della laicità dello stato impedisce loro di esercitare il diritto di manifestare il proprio credo religioso durante lo svolgimento del loro lavoro;

di conseguenza, indossare un simbolo visibile di

un'appartenenza religiosa costituisce violazione dei doveri del dipendente pubblico.

La dipendente, ha ricorso al tribunale amministrativo il quale ha rilevato che la decisione di non rinnovare il suo contratto era stata presa in conformità con i principi di laicità e neutralità dei servizi pubblici. La decisione dl tribunale è stata poi confermata dalla Corte di appello e dal Consiglio di Stato.

Con ricorso n° 64846/11, è stata adita la CEDU per la presunta violazione dell’art. 9 della Convenzione; con sentenza del 26 novembre 2015294, la Corte di Strasburgo non ha ravvisato una violazione dell’art. 9 in quanto ha rilevato che l’ indossare il velo veniva considerato dalle autorità come un'ostentazione della propria religione, incompatibile con la necessità di neutralità che incombe sui dipendenti pubblici nell'esercizio delle loro funzioni. La ricorrente ha ricevuto l'ordine di osservare il principio di laicità sancito dall'articolo 1 della

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Costituzione Francese e l’obbligo di neutralità che deriva da quel principio. Secondo i giudici nazionali, era stato necessario per sostenere il carattere laico dello Stato e, quindi, di proteggere i pazienti ricoverati in ospedale da qualsiasi rischio di influenza o di parzialità nel nome del loro diritto alla propria libertà di coscienza; la necessità di tutelare i diritti e le libertà degli altri - che è, rispetto per la religione di tutti - ha costituito la base della decisione in questione. La Corte ha constatato che le autorità nazionali non avevano superato il margine di apprezzamento nel constatare che non vi era alcuna possibilità di conciliare convinzioni religiose della signora Ebrahimian con l'obbligo di astenersi dal loro manifestarsi, e nel decidere di far prevalere l'esigenza di neutralità e imparzialità dello Stato.

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CONCLUSIONI

La legittimità della presenza dei simboli religiosi nelle sedi pubbliche rispetto al principio di laicità è questione di estrema importanza a cui tutti gli Stati democratici dedicano grande attenzione; la laicità dello Stato richiede che le istituzioni pubbliche, quali rappresentanti dell’ordinamento, debbano rimanere neutrali, nel senso che debbano rimanere immuni dalla contaminazione di fattori confessionali per il mantenimento della più ampia imparzialità dello Stato nei confronti del fenomeno religioso.

In particolare, nell’ordinamento italiano la discussione incentrata su tale tema è tutt’oggi aperta vista la mancanza di un legislazione attuale con riguardo sia all’esposizione del crocifisso presso le istituzioni pubbliche sia all’esibizione personale di un segno religioso quale espressione del diritto di manifestare all’esterno il proprio credo ai sensi dell’art. 19 Cost. In Italia, il principio di laicità, elevato a principio supremo dell’ordinamento con sentenza n° 203/89 della Corte Costituzionale, è stato concepito con la finalità di realizzare l’uguaglianza tra le confessioni (art. 8 Cost.) e la libertà religiosa dei singoli (art.19 Cost.): dunque la neutralità delle sedi pubbliche è richiesta dal principio di laicità in garanzia di tali principi e libertà costituzionali.

Relativamente alla presenza del crocifisso presso le istituzioni pubbliche, quali scuole e aule giudiziarie, inevitabilmente questa

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pone problemi di neutralità se al simbolo della croce è riconosciuto valore esclusivamente confessionale; in più la normativa che ne prevede la esposizione ( di cui la sentenza n° 1110/2005 TAR Veneto ne ha dichiarato la sua attuale vigenza) risale agli anni ’20 del ‘900 quando l’Italia era Stato confessionale. Tuttavia, in dottrina e in giurisprudenza, si è diffusa l’opinione per cui il crocifisso non lederebbe la neutralità delle sedi pubbliche e, piu in generale, il principio di laicità in virtù di una sua connotazione, oltre che religiosa, culturale-

civile: esso sarebbe simbolo identitario della Nazione ed

evocativo dei valori civili, quali tolleranza, rispetto ed

uguaglianza, tipici di ciascuna società democratica. Contrariamente a quanto appena affermato, c’è chi in dottrina sostiene la natura esclusivamente confessionale del crocifisso, rappresentando una lesione della laicità ( e della neutralità delle sedi pubbliche) e della libertà religiosa.

Rispetto all’esibizione personale di simboli religiosi, anche questa porrebbe problemi di neutralità: il porto di un segno confessionale potrebbe influenzare la libertà di coscienza e religiosa altrui, specialmente se esso è indossato da un funzionario pubblico. Quest’ultimo, in quanto rappresentante dello Stato, provocherebbe una lesione del principio di laicità. In definitiva, è auspicabile un intervento del legislatore: nel caso dell’esibizione soggettiva, sarebbe opportuno un bilanciamento tra libertà di manifestazione del proprio credo e neutralità del servizio pubblico in garanzia del più ampio principio di laicità dello Stato e della libertà religiosa di ciascuno: tuttavia, la eventuale limitazione dovrà essere legittima ai sensi dell’art. 9.2 CEDU, il quale richiede che

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l’ingerenza debba avere una base legale, debba perseguire uno scopo legittimo e debba essere proporzionata a tale scopo.

Nell’ambito dell’affissione del crocifisso, le soluzioni ipotizzabili per una risoluzione definitiva della discussione, affinchè esso non leda la laicità e la libertà religiosa, riconducono o alla legittimità del crocifisso quale simbolo identitario-civile, o alla possibilità di esporre i simboli di ogni religione (in garanzia della parità tra confessioni) o alla negazione dell’esposizione di un qualunque simbolo. Quest’ultima opzione, detta laicità per sottrazione, sembra essere quella più idonea alla tutela del principio di laicità.

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