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1. ESILIO ED EMIGRAZIONE: FORME DI SPAESAMENTO

1.2 L’esilio come condizione esistenziale

So come gli uomini in esilio si nutrano con sogni di speranza.

(Eschilo)

1.2.1 Siamo tutti esiliati?

«Come esperienza esistenziale, l’esilio è un destino universale» (2009, 8), così scrive Sabin nella premessa al suo saggio appena citato, portando come prova la cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso Terrestre, costretti all’esilio sulla terra, come «punizione per una sfrenata sete di sapere. Effettivamente, fin da Adamo ed Eva, gli esiliati sperimentano l’euforia della curiosità e della conoscenza, lo choc dell’estraniamento e il desiderio nostalgico del ritorno» (Sabin 2009, 11).

Dunque, secondo tale visione, la terra in cui viviamo sarebbe solo la nostra patria di accoglienza. E il fatto che perfino quotidianamente esercitiamo forme di spostamento e cambiamento ci porta a pensare che siamo dei continui estranei in movimento su quella terra in cui siamo stati esiliati.

Julio Monteiro Martins – particolare figura letteraria di origine brasiliana, in Italia dal 1995 – seppur usi l’accezione di migrante piuttosto che quella di esiliato, sostiene addirittura, nell’intervista-colloquio con Rosanna Morace, che

‘migrante’ è la condizione esistenziale necessaria dell’uomo contemporaneo. Siamo tutti migranti, quelli che cambiano migrano in avanti, mentre migrano a ritroso quelli che si illudono di essere riusciti a non migrare, a rimanere fermi mentre ogni cosa si spostava, pietrificati quando in verità si sbriciolavano, preoccupati di aggrapparsi a origini e radici che gli sfumavano fra le dita. (Morace 2011b, 121-135: 130)3

Rushdie scrive infatti: «tutti noi attraversiamo frontiere, siamo tutti degli emigrati» (1994c, 297-306: 303), e Nicola Chiarappa, in modo del tutto similare, sostiene che «l’uomo è un migrante, la migrazione è una costante antropica. L’uomo si sposta alla scoperta di favorevoli contesti materiali e ambientali, di un diverso ordine esistenziale, spesso alla ricerca di una emancipazione e di una curiosità culturale» (2010, 51-79: 53).

Chiarappa sottolinea che fin dalle sue prime origini l’uomo ha sperimentato forme di mobilità, sia aggregata che singola, sia volontaria che involontaria (2010, 51-79: 53); tali spostamenti si verificano tuttora nella nostra società, dove sempre più individui lasciano il proprio paese, i propri spazi, la propria famiglia, le proprie abitudini per trasferirci altrove, per un periodo più o meno lungo, esercitando forme di allontanamento dalla patria, intesa sia nel suo significato primario di luogo natale, sia come bagaglio di esperienze e vicissitudini.

Remo Bodei, invece, seppur “confondendo” le categorie di “emigrazione” ed “esilio”, sposta in modo interessante l’attenzione sulla dimensione temporale, affermando:

Siamo tutti emigranti, emigranti nel tempo, oltre che, talvolta migranti nello spazio. L’esilio riguarda, infatti, ognuno di noi, perché, ad ogni momento veniamo tutti inesorabilmente espulsi dal tempo finora vissuto, dal nostro passato. Siamo quindi tutti emigranti nel tempo, continuamente in transito, attraverso l’evanescente passerella del presente, dall’irrecuperabile vita trascorsa al futuro ancora ignoto. Per sapere che siamo sempre noi abbiamo bisogno di ricordare per congiungerci al

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A tale monografia si rimanda anche per conoscere Monteiro Martins e la sua produzione letteraria, vasta ed eterogenea, in lingua portoghese e italiana.

passato ma, insieme, abbiamo bisogno di dimenticare per aprirci al futuro. (2012, 9-14: 11)

In un’epoca in cui si sperimentano continui scambi e contatti, tale condizione esistenziale sembra quindi particolarmente forte e sentita, seppur bisogna ammettere che il termine “esilio” troppo spesso viene usato in modo inappropriato, abbracciando anche quelle situazioni in cui lo spostamento non è affatto indotto da chi governa il paese natale, ma avviene per scelta.

Si dovrebbe essere più precisi e parlare almeno di “esilio volontario” o di “autoesilio”, anche se a mio parere è più opportuno usare il termine “emigrazione”, proprio perché il termine “esilio” rimanda comunque a un cammino coatto.

Dunque, anche se talvolta si è costretti a lasciare il proprio mondo a causa di situazioni complesse ed incerte, come precarie condizioni economiche e lavorative, ciò consiste sempre e comunque in una scelta, non in una spinta da parte delle forze politiche.

Tuttavia, in queste esperienze traumatiche, si nasconde la «posibilidad de inventar un espacio mundial inédito» (Nancy 1996, 36), dove affiora anche una sorta di “emigrazione/esilio culturale”, grazie alla dislocazione da un posto all’altro di valori, tradizioni, usanze.

Nei protagonisti di questi viaggi nasce così una forma di rinnovamento, del pensiero, della lingua e della letteratura, dando vita a ciò che Manuel Alegre designa come «un nuevo enraizamiento» (1996, 115).

1.2.2 La letteratura è esilio?

Se si pensa alla letteratura come ad una traslazione delle idee dell’autore in parole, come ad un viaggio della sua mente verso la pagina bianca, come ad un concretizzarsi del suo pensiero astratto, possiamo considerarla una forma di esilio, o meglio, una forma di emigrazione: la letteratura è di per sé il regno della libertà, in quanto lo scrittore ha la facoltà di decidere di cosa parlare. Inoltre, l’idea

dell’emigrazione si riscontra nel fatto che colui che scrive va sempre alla ricerca – attraverso la creazione artistica – di una propria dimensione interiore, di uno spazio in cui ritrovare sicurezza e stabilità, ma anche di una spinta per allacciarsi al mondo esterno.

Seguendo tale prospettiva, è ovvio concordare con il pensiero di Sante Matteo, secondo il quale «l’uso del linguaggio è di per sé una migrazione, un movimento di uscita dal mondo materiale per entrare in quello concettuale» (2003, 25-39: 33) e proprio per questo lo scrittore è sempre un migrante, indipendentemente dalla sua provenienza e dal luogo in cui scrive (Matteo 2003, 25-39: 34).

Anche Alessandro Corio e Ilaria Vitali parlano del tratto di estraneità che caratterizza la scrittura: «L’écriture est toujours un pays étranger, un lieu de perte des repères quotidiens, une quête de soi qui doit passer inévitablement par un ailleurs – qu’il soit géographique, linguistique ou “intérieur”» (2010, 3).

L’attività della scrittura, seppur nel suo costante oscillare tra vari spazi, si può leggere come strumento per ravvicinare l’uomo al mondo, quell’uomo che si sente sempre più perduto e solitario nel caos della società odierna e che, essendo senza punti di riferimento, decide di prendere la penna in mano per ridisegnare il proprio spazio e riconquistare il suo posto nel mondo.

Tutto ciò si rivela ancora più forte in quegli scrittori che vivono in una realtà diversa da quella di origine, laddove è proprio l’esperienza personale ad offrire spunti all’immaginazione creativa e l’esercizio della scrittura serve ancora di più a sfumare le lacerazioni del proprio animo, a ristabilire un proprio equilibrio, diventando luogo di meditazione e ricomposizione, oltre ad interpretare una funzione sociale, «come quella di un ponte di parole e di immagini che deve unire gli uomini al di là delle differenze e dei pregiudizi introiettati per l’eccessivo “isolazionismo” culturale» (Gialloreto 2011, 10).

Enrico Lucca – sostenendo quanto rilasciato in un’intervista da Edmond Jabés a Loredana Bolzan – afferma che l’esilio dello scrittore rappresenta «il momento iniziale della vita di un’opera» (Lucca 2011, 85), infatti:

Quando diciamo di aver fatto un libro, in realtà l’abbiamo perduto; è vero che l’avevo dentro di me se ho potuto scriverlo, ma dal momento che è uscito l’ho perduto. […] Ma la perdita è anche guadagno: non si può fare,

creare qualcosa senza perderla nello stesso tempo, ma se non l’aveste data, se non l’aveste persa, non l’avreste scritta; quindi si perde e si guadagna insieme. (Bolzan 1987, 93)

Tale constatazione si ritrova con forza nella scrittura autobiografica, dove si scrive per se stessi ma ci si apre anche al mondo esterno. Il soggetto infatti esprime e racconta la propria vita attraverso un’attività narrativa che, seppur sorge dalla propria interiorità, nel momento in cui si fissa sulla pagina e si rende nota, come avverte Duccio Demetrio, si apre e si rivolge all’altro (2006, 11), dato che la scrittura, anche la più individualista e segreta, è sempre e comunque un atto di socializzazione (Demetrio 1998, 38).

Quindi, come sostiene Gabriele Bizzarri, l’esilio, oltre ad esere un’esperienza biografica trasversale che accomuna le vite di vari scrittori, può anche essere considerato

un topos letterario, quasi una mise en abyme o un mito fondativo della scrittura, chiamata a riflettere dolorosamente – metaletterariamente? – una situazione di ontologico scollamento (quello tra soggetto e oggetto, tra istanza creativa e contesto d’indagine), nonché a porsi come traguardo ideale proprio il tentativo – chiaramente comunicativo – di franquear el

puente. (2008, online)

Come afferma Said, infatti, l’esilio può essere una condizione metaforica, che coinvolge anche quegli scrittori che sono attivi nella realtà in cui sono nati, quando

vivono in perenne contrasto con la società e pertanto perfettamente estranei, veri e propri esuli, per quanto attiene privilegi, potere e onori. Il modello che segna la rotta dell’intellettuale come outsider ha nell’esilio il suo esempio per elezione, in quanto condizione che non consente di sentirsi mai perfettamente a proprio agio. (1995, 64)

Nell’intellettuale che sfugge alle convenzioni, al conformismo, al consenso, all’integrazione, si riconoscono quindi i tratti dell’esule, in quanto è proprio dalla marginalità che scaturisce la libertà, quella libertà che permette di dare spazio alle «avventure del coraggio: a rappresentare il cambiamento, a essere sempre in cammino e non acquietarsi mai» (Said 1995, 74).

Anche se per lo più si considera l’abbandono della patria solo come perdita e frantumazione, parlare della letteratura come forma di esilio/emigrazione, ci suggerisce il contrario, in quanto scrivendo non si perde nulla.

Fin qui si è proprio tentato di dimostrare come la scrittura aiuti a recuperare e ad acquistare qualcosa, ad arricchirsi. Ecco perché è opportuno interpretare il distacco dalla terra natale non solo come esperienza dolorosa e traumatica, ma anche in luce positiva, come una cerniera fra più realtà ed orizzonti, che offre la possibilità di conoscere qualcosa di nuovo. Ed è proprio la scrittura che diviene il luogo d’arrivo, stabile, solido, sicuro, in cui trovare rifugio e riparo.

Significative risultano allora le parole dell’aforisma del noto scrittore italiano di romanzi d’avventura Emilio Salgari: scrivere è viaggiare senza la seccatura dei

bagagli.