2. SCRIVERE NELLA MIGRAZIONE
2.1 Quando la migrazione si intreccia con l’esperienza di scrittura
2.1.1 La voce degli altr
Il noto scrittore svedese Björn Larsson, afferma che
la letteratura dà speranza a coloro che non ne hanno, dà voce a chi non ce l’ha, o a chi è ridotto al silenzio, ispira fiducia a coloro che ne sono privi, difende la dignità di ciascuno costantemente e incessantemente denuncia l’abuso di potere e l’ingiustizia, a prescindere dal colore politico. […] aiuta [i lettori] a esercitare la loro immaginazione, ad accendere una scintilla di speranza, anche raccontando gli orrori e i crimini commessi da esseri umani. (2012, 132)
Queste considerazioni appena esposte possono essere estese con efficacia anche all’esperienza creativa della scrittura messa in atto dagli immigrati nella società d’arrivo, esperienza che nasce generalmente dal bisogno di ricostruire la propria identità lacerata a seguito della vicenda migratoria, e che si manifesta attraverso il ricorso alla lingua della nuova realtà.
Scrivere significa disegnare una mappa della propria vita, delineare un intimo spazio geografico, colorare un paesaggio interiore (Bruno 2006, 367-369); scrivere nella migrazione significa dare spazio e centralità alla voce degli altri, quella voce che non viene raccolta da un autore nativo, ma espressa direttamente.
C’è bisogno di far sentire la mia voce, dal momento che io posso parlare di me meglio di quanto nessun altro possa fare. C’è bisogno che si senta la mia voce. Non racconto solo del mio dolore. Voglio farvi sapere la mia storia, la quale non deve essere narrata da chi ritengo possa essere altro o, peggio ancora, il mio colonizzatore […]. Non devo essere celebrata da chi pensa di dire la mia storia meglio di quanto possa fare io stessa. […] Voglio essere io a dire come mi chiamo. (2001, 53)
La scrittura migrante nasce quindi dal desiderio di far sentire la propria voce, ma anche di stabilire un dialogo con gli altri, di rivendicare un posto e un ruolo nella comunità ospite: ciò spiega come in un certo senso è la lingua che sceglie lo scrittore migrante e non viceversa, in quanto l’uso della lingua del paese d’arrivo è contingente al contesto in cui ci si trova; una lingua che è allo stesso tempo «the instrument of visibility and the object of appropriation» (Parati 1999b, 13-42: 15).
Laura Barile e Antonio Prete sostengono che
La lingua è ospitale: non ha pregiudizi, non si chiude a riccio nell’alveo della propria identità, dei propri classici. La lingua si offre a coloro che, trovandosi ad abitare le sue terre, le sue città, a lei si rivolgono non solo per comunicare con gli altri e farsi intendere dagli altri, ma anche per appropriarsi di una tradizione che è fatta di scritture, di rappresentazioni della vita, delle sue pulsazioni e contraddizioni, del suo dolore. (2009, VII-XII: VII)
Proprio «l’ospitalità della lingua dovrebbe essere un paradigma per quell’altra, più generale, ospitalità che invece uomini e istituzioni stentano a praticare» (Barile, Prete 2009, VII-XII: VIII).
Ed è così che gli scrittori migranti si rivolgono agli autoctoni, per rendere nota la propria presenza, per aprire il loro sguardo e la loro mente, per avvicinarli alla conoscenza di qualcosa di nuovo, e anche per far sì che loro stessi si vedano in una prospettiva diversa; agli immigrati della loro stessa comunità, per condividere con loro esperienze e sensazioni e per far sì che questi possano identificarsi e
riconoscersi nelle loro narrazioni; agli immigrati di altra provenienza, per aprire un confronto con chi come loro sono “figli” dell’esperienza migratoria.
Significative in tal senso risultano le parole dello scrittore di origine iraniana, attivo in Italia, Younis Tawfik che, richiamando il motto cartesiano cogito ergo
sum, esplicita come grazie alla scrittura trovi una sua collocazione nella vita:
Affermo e confermo la mia esistenza: sono vivo. Scrivo, dunque sono
vivo, continuo a vivere, ho una visione profonda della vita, sono
consapevole del mondo in cui vivo, conosco i dolori del mondo e le gioie. Faccio parte di questa vita e mi rendo partecipe con la scrittura ad essa. (2005, 37 corsivo mio)
La voce dei migranti, segno concreto della loro esistenza, è superiore ad ogni cosa, non conosce confini, non ha limiti e vivrà per sempre, come ben dimostra Pascal D’Angelo in questo passaggio di Son of Italy (1999):
Ma il cozzare del piccone e il tintinnare del badile, chi lo sente? Solo lo sguardo austero del caposquadra si accorge di me. Quando scende la notte e il lavoro si ferma, badili e picconi restano muti, e la mia opera è perduta, perduta per sempre. Se però scrivo dei bei versi, allora quando la notte scende e io poso la penna, la mia opera non andrà perduta. Resterà qui, dove oggi voi potete leggerla, come altri potranno leggerla domani. Invece nessuno, né oggi né domani, leggerà mai quello che ho fatto col badile e il piccone. (90)
Dunque, il testo letterario si inserisce in un tempo che non ha confini: si afferma nel presente, parlando a volte del passato, con l’intento di lasciare un segno e di aprirsi al futuro. Allo stesso modo il testo si inserisce in uno spazio, che a sua volta ingloba un altro spazio, ovvero il tessuto delle parole, che crea una forma d’arte, da cui può nascere uno spazio di dialogo, dove individui appartenenti a contesti culturali e linguistici differenti e trasportati dalla forza dell’emozione possono riconoscersi o possono imparare a conoscersi.
Gli scrittori migranti – attraverso la letteratura intesa come patria comune e priva di confini (Mauceri 2006, 80), come spazio di integrazione ed inclusione, come mezzo per inserirsi nella società e provare ad emergere in essa – dimostrano che può esistere un punto di unione fra più culture, anche se molto lontane e differenti fra loro, un punto d’unione che genera ricchezza, che incita al dialogo e a un senso di apertura e di conoscenza reciproca. Come osserva Christiane Albert, le loro opere privilegiano «les identités multiples et pluriculturelles de façon à rendre compte du contexte multiple et pluriel dans lequel évoluent les écrivains migrants» (2008, 68).
Sabrina Brancato, nell’introduzione al testo da lei curato Afroeurope@n
Configurations. Readings and Projects (2011b), in cui riflette su alcuni punti
chiave della produzione letteraria degli africani in Europa, spiega questa forza delle scritture migranti nel mettere in contatto due continenti e di far dialogare le culture:
Beyond the important contribution they make in terms of aestheting innovation, it is crucial to acknowledge the potential that these writings offer to the dialogue between Europe and Africa and to the formation and consolidation of a new notion of Europe, seen not only as plural but also as effectively transcultural, a Europe finally recognising in its historical, ethnic, political and cultural identity the presence of strong influences from Africa as well as from global African diasporas. (1-15: 6)
Brancato mette anche in luce il filo d’unione tra passato, presente e futuro:
Afroeuropean narratives reveal a Europe which has always been transcultural. […] These literatures do not only write the present and the future of Europe, but also the Europe of the past, that is, they rewrite European history bringing to light what does not emerge in dominant narratives. They sheld light on the historical interaction of two continents. (2011b, 1-15: 9)
l’oeuvre littéraire est un moyen de connaissance car elle a le pouvoir d’exprimir le réel dans toutes ses extensions et possède de ce fait un povoir de dévoilement de ce qui se cache derrière les apparences. L’écrivain migrant participe donc à la quête de nouvelles intelligibilités en proposant des formes inédites d’écriture et en développant des thématiques nouvelles. […] il se trouve en situation de relater, en tant que témoin, et de porter un regard étranger sur des situacions occultées par un vision trop familière. (2008, 69)
La scrittura di migrazione funziona quindi come uno strumento di conoscenza su più fronti, sia per lo scrittore che per il lettore, come ben sintetizza Kossi Komla-Ebri in un’intervista:
La letteratura della migrazione non si limita ad essere uno strumento di conoscenza degli e per gli altri ma è anche conoscenza di se stessi. […] La nostra identità non è un fenomeno statico, essa si sviluppa in modo dinamico e si afferma nello scambio e nell’incontro con l’altro. La nostra identità è un percorso continuo. […] Scrivere allora significa ricostruire se stessi per inserirsi nei parametri del “qui ed ora” come in un atto di auto-legittimazione per far nascere quell’individuo nuovo che si auto- percepisce per urlare la propria verità.29
Nato in Togo nel 1954 ed emigrato in Italia nel 1974, dove si laurea in Medicina e Chirurgia a Bologna, per poi specializzarsi a Milano in Chirurgia Generale, Kossi Komla-Ebri oltre ad essere medico, è uno scrittore di spicco nell’ambito della migrazione in Italia, e considera la letteratura, come riporta Valentina Acava Mmaka,
lo spazio virtuale all’incontro, alla conoscenza, all’educazione alla differenza perché dà l’opportunità di immergersi in altri mondi e modi di vivere, permettendo di “decentrarsi”: uno strumento e percorso alla
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Mal…d’Africa…Mal…di Europa. Intervista a Kossi Komla-Ebri, rilasciata alla redazione di «Voci dal silenzio», è reperibile online,
conoscenza, una via d’uscita dall’etnocentrismo delle “culture superiori”. (Acava Mmaka 2003, online)
Lo scrittore migrante, dunque
s’inscrit dans une radicalité nouvelle, une sorte de espace interstitiel de l’entre deux qui ne reproduit pas les formes et modèles de l’occident et cherche à rendre compte d’un monde fragmenté et chaotique. Il fait donc de la literature un espace de médiacion culturelle entre le local et le global et joue un rôle de révélateur des fragilités et des remises en questions des identités. (Albert 2008, 69)
Gli immigrati che scrivono assumono quindi un ruolo antropologico nuovo, in quanto capovolgono il binomio classico in cui l’uomo civilizzato osserva l’uomo
selvaggio (Piazza 2002, online), decostruendo lo sguardo tradizionale occidentale
e offrendo una lettura diversa del mondo rispetto a quella proposta dagli imperial
eyes.30
Si attiva quindi lo stesso intento della teoria postcoloniale, in cui si de-centra il pensiero occidentale, si smantella il binomio centro-margini, si rifiutano opposizioni dogmatiche, dando spazio al punto di vista del colonizzato e privilegiando l’ibridità (Cimitile 2010, 37-56: 39).
Riguardo alla capacità dei testi migranti di decolonizzare lo sguardo occidentale, tornano di nuovo utili le parole di Sabrina Brancato:
Afroeuropean literatures crucially contribute to Europe’s mental decolonisation. They outline a path to go beyond the still dominant patterns of charity, paternalism and exoticism, and to formulate instead an effective idea of equatily and dignity, and implement a conception of citizenship and belonging no longer based on ancestral cultures but on the
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Si fa riferimento al testo di Mary Louise Pratt (1992) Imperial Eyes. Travel Writing and
Transculturation dove, ripercorrendo gli scritti e le esperienze di esploratori e viaggiatori europei
inevitably transnational and transcultural experience of the people who inhabit Europe today. (2011b, 1-15: 10)
Come scrive Graziella Parati, la produzione letteraria degli scrittori migranti consiste infatti in «a possible agent of social change, able to articulate what is absent from domination narratives» (2005, 89).
Grazie all’immigrato che prende voce cambia il focus del testo letterario: lo straniero da oggetto delle narrazioni ne diviene soggetto attivo, cosicché «la sua presa di parola fa irrompere nel presente una inestricabile trama di corporeità- soggettività-autonomia» (Derobertis 2007, 30).
In questo modo si smentisce anche lo stereotipo dell’immigrato umile, ignorante e incapace di esprimersi, rivalutando, al contrario, il suo livello di acculturazione, il suo talento e la sua formazione culturale, evidenziando come anche lui, come qualsiasi uomo, ha una voce e prova emozioni e sentimenti che può trasmettere direttamente al pubblico di lettori. Giuliana Bruno riconosce infatti come i migranti viaggiano con una speciale valigia, il bagaglio emozionale (2006, 361) e, come evidenzia Patrizia Calefato nell’Introduzione all’edizione
italiana della Critica della ragione postcoloniale della teorica indo-statunitense
Gayatri Spivak, la loro capacità di parlare significa agire, essere socialmente riconoscibili e interpretabili, non essere subalterni (Calefato 2004, 7-15: 13).31