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L’oralità: una forma de ser, un modo de vida

3. LA SCRITTURA DELLA MIGRAZIONE AFRICANA IN SPAGNA

3.2 La tradizione africana: tra oralità e scrittura

3.2.1 L’oralità: una forma de ser, un modo de vida

In Africa, quando un vecchio muore, brucia un’intera biblioteca.

(Amadou Hampâté Bâ)

Come si è constatato in altri punti di tale lavoro, i migranti portano con sé il proprio bagaglio culturale, ed è per questo che sembra opportuno proporre alcune brevi considerazioni sul legame fra la lingua e l’identità dell’individuo e di un popolo e – in merito all’ambito di ricerca analizzato – esporre alcune riflessioni sulle peculiarità della tradizione orale africana, per poi vedere come questa si riflette nella pagina scritta.

La lingua è uno dei primi elementi identificativi di un popolo, infatti, «attraverso la lingua si costituisce e si manifesta l’identità di un’esperienza collettiva della realtà nella quale si riconoscono quanti appartengono all’unità etnica di un popolo e sono accomunati per discendenza storica in una nazione» (Carrano 1989, 11-53: 34); dunque lingua, società e cultura sono fortemente legate tra di loro.

Lavorare sulla scrittura della migrazione implica prendere in esame questi aspetti, come suggeriscono le parole dell’espressione stessa: scrittura quindi lingua, migrazione quindi società e culture.

Si è già avuto modo di fare una riflessione sulla lingua usata dagli scrittori migranti nelle loro opere, ovvero quella del paese d’arrivo; proprio in questo contesto si attivano spesso processi di transfer linguistico.

Come sostiene Francisco Moreno Fernández,

en el caso de la inmigración, es habitual que los inmigrantes, al usar la lengua o variedad de la nuova comunidad, acusen la presencia de transferencias lingüísticas desde la lengua materna: cuando se producen movimientos de población, se da lugar a la aparición de fenómenos de sustrato, que consisten en la pervivencia de rasgos de la lengua de la etnia de origen. (1998, 64)

Steven G. Kellman specifica come «colonialismo e migrazione hanno spinto centinaia di scrittori di ogni parte dell’Africa a muoversi e a scrivere, nella diaspora, in una lingua diversa da quella d’origine» (2000, 56); in questo modo hanno arricchito con un’altra lingua il già variegato bagaglio linguistico che avevano alle spalle, e non esitano a lasciar filtrare la loro plurima padronanza linguistica, colorando il testo in lingua europea con l’introduzione di parole in lingua nativa.

Come spiega María Isabel Fernández García, «el cambio de código asume la función de una marca de identidad étnica que consolida y presupone, a su vez, una sensación de pertenencia emotivo-cultural» (2006, 72), e così si produce una «mezcla de códigos (code-mixing), en la que aparecen elementos de una lengua [o de más lenguas] mientras se está usando básicamente una lengua diferente» (Fernández 1998, 242): un incontro di lingue che si traduce in incontro di culture e di individui (Santangelo 2013, 11-46: 21-22).

In tal modo, i testi sembrano celebrare feste delle lingue, dove le lingue, come dei personaggi veri e propri, entrano in scena, si snodano e si articolano, rinnovando il codice linguistico occidentale (Vanvolsem 2011, 1-14: 13), dando al testo colore, rilevanza e autenticità, senza distruggerne la struttura lessico- grammaticale in lingua europea (Bandia 2008, 113).

In questo clima di “feste linguistiche” e di rinnovamento giocano un ruolo rilevante i colori delle parole, perché, come afferma Kossi Komla-Ebri, dietro a ogni parola c’è un’immagine, con sfumature proprie a seconda delle sfere di influenza:

L’avvento di uno spazio linguistico nuovo di linguaggio ibrido, creolo col tempo arricchirà la lingua italiana, rivisitata, rielaborata, rifecondata e contaminata, perché distillata in significati diversi tramite vissute sensibilità venute d’altrove. Perché le nostre parole sono colorate e germogliano su immagini del nostro subconscio ormai radicato sulla nostra identità plurima. Se per tanti la parola neve si colora nell’immagine di una distesa bianca per taluni si vestirà col brivido del freddo e del ghiaccio. Se per molti la parola fuoco si colora di rosso, per alcuni evocherà calore e sudore. Ma questo mutamento avverrà col tempo… perché “pian piano maturano le banane”. (2009, 1-9: 4)

Questo intreccio di modelli e di codici si deve sia al desiderio di dare un tocco di “africanità” – nel nostro caso di studio – anche a livello linguistico, a ciò che si sta scrivendo, sia alla relatività linguistica, ovvero all’impossibilità, in alcuni casi, di rendere un certo termine in un’altra lingua, a causa di uno scarto culturale, poiché «solo la lingua etnica può tradurre correttamente l’immaginario di un popolo» (Brunzin 1998-1999, 84).

Infatti «non esistono due lingue che siano sufficientemente simili da essere considerate come rappresentanti della stessa realtà sociale. I mondi in cui vivono differenti società sono mondi distinti, non sono semplicemente lo stesso mondo con etichette differenti» (Sapir 1972, 58).

Ma, come affema Paul F. Bandia nell’interessante volume che propone la letteratura afroeuropea come un caso di studio per la teoria della traduzione postcoloniale, «writing is not just transcribing local patterns of speech into an alien language, but also stylizing oral characteristics for the written medium. There is hardly any separation between writing and orality» (2008, 29).

Gli africani che raggiungono la Spagna, ma anche altri territori europei, manifestano infatti l’intenso legame con la dimensione orale, tanto che Sonia Sampayo racconta a sua madre dei suoi amici africani, come persone ricche di quell’arte che trasmettono attraverso la danza, la musica, il canto, la poesia:

Encontraba exótico que mis amigos fueran negros, pero no preguntaba más. Yo le contaba de sus danzas africanas y sus andanzas en España.

Tenían unas vidas duras, difíciles de imaginar. Habían llegado aquí sin nada, sólo traían consigo su oficio de griots, como se les conoce en Senegal. (Sampayo 2010, 30)

La dimensione orale consiste in una necessità interna che tuttavia non sempre può esternarsi pienamente, in quanto la voce e la parola orale non sempre sono sufficienti, risentendo della pressione sociale della realtà d’arrivo, dove gioca un peso rilevante la scrittura. Dunque, nell’ambito della produzione letteraria degli autori africani è importante prendere in esame anche la presenza dell’oralità, elemento portante della loro cultura, in quanto «en el África negra, la Palabra es la fuerza capital que produce toda vida» (Munguí Aguilar 2010, 1-10: 3), e per questo, come spiega Alioune Tine, «la littérature africaine se définit comme un littérature située entre l’oralité et l’écriture» (1985, 99-121: 99), dove l’influenza dell’oralità è indispensabile per definire la letteratura africana stessa (Tine 1985, 99-121: 100).80

Una tradizione che può trovare una sua collocazione anche sotto la dicitura di “letteratura orale”, un’espressione che in un certo senso può sembrare paradossale, visto che il termine “letteratura” si associa a ciò che è scritto, ma non del tutto inappropriata, dal momento in cui la presenza di regole proprie dell’oralità, fa sì che sorga quella che Amadou Koné definisce una écriture de

l’oralité (1993, 42):

Mais on peut sans doute parler de littérature car les textes oraux dont il s’agit répondent à des critères d’oeuvres élaborées dans une forme et avec des intentions différentes de celles du langage de la communication courante. (Koné 1985, 21)

Jorge Marcone specifica quali sono alcune norme dell’oralità:

la inscripción del discurso oral en la “literatura oral” se rige por las normas más “duras” para todo aquello que es distintivamente oral: la

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presencia de la voz, la relación con la situación comunicativa, la dimensión pragmática, la interpretación del discurso de acuerdo a otras convenciones y presupuestos, etc. (1997, 147)

Il critico sottolinea inoltre come il “carattere letterario” della tradizione orale si riscontri nella sua capacità creativa e immaginativa:

A lo que “literatura” en “literatura oral” se refiere [...] es a la propiedad de “creación” e “imaginación”, o al hecho de ser textos que cumplen una funciòn específica: son resultado de una actividad relativamente especializada y diferenciada de otras prácticas discursivas. (Marcone 1997, 146)

A ciò si aggiunge, come individua Jacques Chevrier, la presenza di regole di recitazione ben precise, che addirittura possono riguardare i tempi, i periodi dell’anno e i luoghi della narrazione, ma anche la maniera di concatenazione delle forme narrate (2003, 17 e 25).

Altra regola consiste nell’impiego di formule di apertura e di chiusura in un testo narrato, che hanno la funzione di attirare l’attenzione dell’ascoltatore, di introdurlo nel mondo dell’immaginazione e di congedarlo dall’atmosfera sovrannaturale (Chevrier 2003, 18; Bottegal et al. a cura di 1997, 87).

Scenari immaginari creati dalla tradizione orale che tuttavia hanno un forte potere sociologico e politico, essendo specchio della società, riflesso di modelli di vita, eco di strutture, relazioni e conflitti (Chevrier 2003, 26 e 28), anche perché «il narratore prende ciò che narra dall’esperienza» (Benjamin 2011, 19), rafforzando così il concetto secondo cui «il rapporto con un testo letterario è sempre occasione per un rapporto con se stessi e con gli altri» (Bottegal et al. a cura di 1997, 21). Dunque l’attività del narrare «es mucho más que una profesión liberal, digna, respetada y cada vez más reconocida socialmente, es una forma de ser, un modo de vida» (VC 177).81

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D’ora in avanti, il testo Una vida de cuento, appartenente al corpus delle opere letterarie analizzate in questo lavoro, verrà indicato con la sigla VC.