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Nomi quasi impronunciabili: rinascere sotto una nuova identità

2. SCRIVERE NELLA MIGRAZIONE

2.1 Quando la migrazione si intreccia con l’esperienza di scrittura

2.1.3 Nomi quasi impronunciabili: rinascere sotto una nuova identità

Lo scarso interesse rivolto ai testi della migrazione deriva anche dal fatto di lasciarsi troppo spesso influenzare dal “quasi impronunciabile” nome dell’autore e dalle immagini di copertina che in molti casi proiettano il suo volto, ponendo in primo piano il concetto di alterità, e spingendo a considerare il testo come qualcosa di estraneo alla nostra cultura e di conseguenza di poco valore, perché nato dalla penna di un immigrato. Dunque, occorrerebbe sorvolare – almeno in un

primo momento – sugli elementi paratestuali che si caratterizzano per una dimensione pragmatica, che orienta la ricezione e influenza il lettore (Elefante 2012, 30), rischiando troppo spesso di diventare “invadenti”, e lasciarsi invece trasportare dalla lettura delle pagine del libro, che sono veri e propri contenitori di cultura.

L’impronunciabile nome dello scrittore migrante o dei personaggi da lui creati è un argomento di particolare interesse, in quanto la storpiatura e/o trasformazione del suo nome da parte del nativo sembra segnare il primo stadio di disturbo e squilibrio nella società ricevente, richiamando la necessità dell’annullamento dell’identità del migrante, costringendolo a morire e a rinascere con un nuovo nome, più facile e immediato da pronunciare. Questo tema emerge in numerosi testi della migrazione, offrendo innumerevoli spunti di lettura e di interpretazione.

In tal proposito è significativo il titolo del capitolo diciottesimo Te llamarás

Manel del romanzo El último patriarca (2008b) di Najat el Hachmi, capitolo che

si conclude con il passo in cui lo zio spiega al marocchino Mimoun, da poco arrivato a Barcellona, che al datore di lavoro «le cuesta mucho decir tu nombre, dice que a partir de ahora te llamarás Manel» (84-87: 87).

Antonio Daniel Fuentes González propone una duplice interpretazione al cambio d’identità che subisce Mimoun e che più in generale può interessare altri migranti: rifiuto nell’accettare l’altro o in forma completamente opposta predisposizione a renderlo il più possibile “simile” ai membri della comunità d’arrivo, omologandolo ai nativi attraverso la sonorità di un nome più comune agli ispanofoni (2013, 1-20: 10-11). La seconda accezione risulta discutibile, dal momento in cui si fatica a percepire un atto di solidarietà nell’imposizione di una nuova identità.

Nello stesso romanzo il cambio di nome coinvolge anche un altro personaggio di origini arabe con cui Mimoun/Manel stringerà amicizia, Hamed, difatti «todos lo conocían como Jaume, que venía de Jaime» (El Hachmi 2008b, 133).

Così si apre invece il capitolo quindicesimo di Diario de un ilegal (2002) di Rachid Nini, richiamando la difficoltà del soggetto migrante di identificarsi in un altro nome, seppur con la speranza di abituarsi al cambio di identità imposto dagli

Acabé teniendo un nombre nuevo. Miguel me llama Richard. Le parece más fácil que pronunciar mi nombre. Mi amigo también acabó teniendo otro. Todos lo llaman Raúl. Ocurre a veces que nos llama por nuestro nuevo nombre y no atendemos sino después de que lo repita varias veces. Rafael dice que, con el tiempo, nos acostumbraremos a nuestros nuevos nombres. (133-139: 133)

Stessa cosa si riscontra in La lingua di Ana (2012) di Elvira Mujčić, dove la protagonista nata in Serbia, vissuta in Bosnia e stabilitasi infine a Roma, spiega la sua difficoltà di riconoscersi nelle storpiature create fra i banchi di scuola dai suoi insegnanti. L’iniziale stupore e disagio di accettare un nome che non le appartiene, pare trasformarsi pian piano in riconoscimento delle varie stonature, come se queste costituissero un valore aggiunto, un pregio. Forse solo grazie a quest’ottica positiva, l’individuo riesce a non sentirsi soffocato e schiacciato da quei suoni che non percepisce come fondanti della propria identità:

La professoressa di sostegno parlava con il professore, non capivo nulla, tranne il mio nome e il mio cognome totalmente storpiato, tanto che anch’io stentavo a riconoscerlo. Fu la prima volta che sentii pronunciarlo in quel modo, la prima di una lunga serie di storpiature assurde. Quella prima volta rimasi impressionata ma, come succede per ogni cosa, col tempo mi abituai e non ci feci più caso. Anzi mi rassegnai ad avere varie versioni del mio cognome e non ne avvertivo più nemmeno la stonatura. (45)

Ci sono inoltre casi in cui è l’immigrato stesso a scegliere un nuovo nome, semplificato e più adatto alla cultura d’arrivo. Ne sono esempio due testi, i cui titoli sono costruiti allo stesso modo, evidenziando la necessità dell’immigrato di cancellare in Italia il proprio nome e di autorinominarsi per rinascere in una nuova identità: Chiamatemi Mina e Chiamatemi Alì.

Chiamatemi Mina (1999) di Fitahianamalala Rakotobe Andriamaro, di origine

malgascia, è un racconto che – come il passo sopracitato – si apre con la scena di un’aula scolastica in cui la bambina protagonista rinuncia a quel nome così lungo

e difficile da pronunciare per l’insegnante, per sostituirlo con un nome breve e immediato, così da evitare il trauma dell’appello e di sentirsi “normale”:

Sono passati quasi vent’anni da quando mi vergognavo del mio nome. L’appello a scuola era un vero tormento. Sgranavo col respiro e col petto quell’elenco di rintocchi nitidi dal suono via via più forte fino all’apice, il mio nome, su cui la maestra avrebbe indugiato più che sugli altri, avrebbe faticato imbarazzata e al suo disagio si sarebbe aggiunto il mio. I bambini mi avrebbero guardata. Io avrei sorriso, anticipando il resto della scena in cui la sagoma azzurra sulla lavagna formula la consueta domanda.

- Come ti chiamano di solito? - Mina.

- Mina.

Così facile, pronto all’uso, immediato e intuitivo come premere un pulsante: e d’improvviso la tensione cala. Meno male. Niente più imbarazzi né sforzi per alcuno, conoscente o meno, grazie a quei pochi fonemi accessibili ad ogni italiano dai due ai cento anni. (Rakotobe Andriamaro 1999, 149-153: 149)36

Il romanzo autobiografico Chiamatemì Alì (1991) mostra invece, fin dal titolo, come in Italia non ci sia spazio per l’autore marocchino Mohamed Bouchane, non solo perché gli italiani non riescono a pronunciare correttamente il suo nome, tanto da farsi chiamare Alì, ma anche perché il suo vero nome nasconde l’immagine di una cultura ostile: Mohamed rimanda a Maometto.

La scelta di un certo nome proprio da parte di un autore può inoltre derivare dalla volontà di criticare le forme di generalizzazione che annullano la singolarità dell’individuo, come fa lo spagnolo Rafael Torres con Yo, Mohamed. Historias

de inmigrantes en un país de emigrantes (1995). In questo libro, Mohamed, un

nome marocchino, diventa un nome generico usato indistintamente per tutti gli immigrati, che divengono in un certo senso anonimi, rinchiusi in categorie fisse e proprio «to denounce this mechanism of anonymity and fixation, however, Torres

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Il contesto scolastico non è solo lo spazio dove i ragazzini immigrati scoprono la loro “diversità” creata dal colore della pelle – come già visto in 1.5.3 – ma è anche lo spazio dove prendono coscienza di possedere un nome che crea disturbo e difficoltà ai nativi.

problematically uses this same mechanism, presenting the stories as the “stories of twenty-five Mohameds”» (Flesler 2008c, 163-194: 169).

Tutti questi diversi “giochi” sui nomi propri, modificati, storpiati o usati in modo generico, non fanno altro che costruire «il cimitero dei nomi, delle identità e delle culture» (Gaye 2013, 46), privando l’uomo della propria personalità, costringendolo ad indossare una maschera, a rinunciare al proprio “io”, poiché il nome è identità, è un elemento unico e distintivo, quel nome che tuttavia talvolta viene cambiato dall’immigrato stesso anche per sentirsi meno straniero, meno diverso, meno disprezzato, cosa più semplice per chi, come scrive Gaye, nato in Senegal e residente in Brianza, ha i tratti somatici e il colore della pelle simili ai nativi: «per l’albanese o il rumeno o l’algerino sbiancato non sarebbe difficile, per l’africano è impossibile» (2013, 27).