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1. ESILIO ED EMIGRAZIONE: FORME DI SPAESAMENTO

1.5 Tabula rasa della propria identità

1.5.3 Bambini e adulti ricostruiscono il loro “corpo etnico”

1.5.3.1 Sbiancare la pelle

Come riportano Lali Cambra e Ana Gabriela Rojas, la docente al Dipartimento di Antropologia e Sociologia dell’Università di Carleton (Canada), Amina Mire, spiega che in Africa, «el emblanquecimiento se ha asociado a la opresión colonial blanca y los que lo practican son acusados de tener complejo de inferioridad, de odiarse. Por ello, se practica a escondidas» (Cambra, Rojas 2008, online) e i prodotti si vendono clandestinamente. E continua dicendo che «África es el vertedero de las cremas tóxicas, por lo tanto más baratas» (Cambra, Rojas 2008, online).

Anche se negli anni Sessanta e Settanta molti Afroamericani e Americani del Messico furono coinvolti in movimenti sociali e culturali che capovolgevano le norme razziste della bellezza bianca e celebravano la pelle scura, i lineamenti africani e indiani e i capelli naturali, proclamando il Brown Pride e il Black is

Beautiful, in realtà non si produsse un cambiamento radicale, tanto che si

continuavano ad usare prodotti sbiancanti e aumentava il ricorso alla chirurgia estetica facciale (Hunter 2005, 5).

Accogliendo l’argomentazione di Margaret L. Hunter, se è piuttosto difficile cambiare il colore della pelle, nonostante un boom internazionale dell’industria di prodotti sbiancanti, sembra molto più facile e accettabile dissimulare i lineamenti

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Interessante l’excursus di Federico Faloppa (2013, 201-239) lungo alcune società europee, che mette in evidenza l’incremento dell’uso del sapone e di altre sostanze sbiancanti, simboli di purificazione sociale negli ultimi decenni del XIX secolo, favorendo la crescita dell’industria e delle campagne pubblicitarie, i cui protagonisti sono spesso personaggi bianchi che lavano e “smacchiano” personaggi neri.

del volto ricorrendo a tecnologie avanzate e ad interventi di chirurgia estetica, e modificare il colore degli occhi usando lenti a contatto di colore chiaro (2005, 54). A questi desideri delle donne nere si affiancano quelli opposti delle donne bianche, che ricorrono alle iniezioni di collagene per rendere le labbra più gonfie o che si stendono ore e ore in spiaggia per abbronzarsi o che si recano nei centri estetici per usufruire dei raggi ultravioletti delle cabine abbronzanti, con tutte le relative conseguenze che ne derivano in ogni caso.

Dan Rodríguez García riflette proprio, in un passaggio del suo libro

Inmigración y mestizaje hoy, sul sentimento di xenofilia verso l’Occidente

presente in molti giovani senegambiani, affrontando la questione negritudine/bianchezza e arrivando a toccare il paradosso di ciò che definisce

mixofilia:

[El sentimiento de xenofilia hacia Occidente] se traduce en una voluntad de passing; esto es, la adopción de marcas de modernidad (i.e., ropa deportiva de marca, estética rasta, etc.) y/o la eliminación de las marcas de distinción propias, como el color de la piel, mediante el uso de cremas blanqueadoras, de las que existe una enorme variedad. En este contexto, la negritud tendría un valor negativo, mientras que la blancura tendría un valor positivo, asociado a lo occidental (modernidad, estatus, éxito, etc.). Esto nos lleva a plantear la siguiente paradoja, que se relaciona con la mixofilia en ambos casos: el uso de cremas bronceadoras en Europa (cuanto más moreno, más exótico) y, a la vez, el uso de cremas blanqueadoras en Senegambia (cuanto más blanco, más estatus). (2004, 142)

Infatti, come afferma Teresa De Monte, se per la donna nera «avere un incarnato blanche-neige è oggi più che mai sinonimo di riuscita, di successo, di potere»,19 per una donna bianca, come riconosce Nicoletta Diasio, avere

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L’informazione è tratta dall’articolo La sindrome “Blanche-Neige”,

http://www.teresademonte.com/La%20sindrome%20Blanche%20Neige%20(dott%20Teresa%20D e%20Monte).pdf (ultima consultazione maggio 2012).

un incarnato abbronzato, colorito (versione morbida e addomesticata dell’uomo/donna di colore) evoca salute, prosperità economica, tempo per sé e liberazione dal corpo e dalla sua greve materialità […]. Un colorito bruno ed uniforme è considerato un buon espediente per attenuare o rendere meno evidenti le imperfezioni. (2001, 160)

Quindi, anche le donne bianche intervengono sul proprio corpo, eppure i loro interventi sembrano non potersi paragonare a quelli messi in atto dalle donne nere, lasciando passare, come sostiene Tatiana Petrovich Njegosh, l’idea che i bianchi possono agire come vogliono sul proprio corpo, al contrario dei neri che devono sottostare al potere decisionale dei bianchi (2012, 33).

In modo simile si esprimono gli autori di The Color Complex:

The desire to lighten one’s skin and alter one’s features can be seen as a form of Black self-hatred. Yet Black women who straighten their hair or bleach their skin are in a sense behaving no differently than women of others cultures, who bind their feet or tighten corsets around their waists to achieve a culturally defined feminine appearance. Still, the reactions of Blacks to the grooming habits of other Blacks are deeply rooted and complex. When a White woman with brown eyes wears blue contact lenses, she might be thought vain for doing so, but most people would not assume that she was denying her heritage. When a white woman bakes under the hot sun all day to tan her pale skin, she might be admonished for risking skin cancer, but few would conclude that she hates being White. And when a White woman perms her straight hair, she is rarely accused of wanting to be something that she is not. But nearly everything the Blacks woman (or man) dos to her (or his) appearance is interpreted politically. (Russell, Wilson, Hall 1993, 54)

È interessante soffermarsi su tale questione chiave, ovvero che le pratiche esercitate sul proprio corpo dalle donne bianche non condizionano il loro status razziale, tanto da non essere interpretate politicamente: una donna bianca abbronzata è sempre e comunque una donna bianca, allo stesso modo una donna bianca con labbra più carnose della norma, seppur più sexy, resta comunque una

donna bianca, mentre una donna nera con la pelle chiara può aspettarsi un trattamento diverso e maggiori risorse, come stringere con facilità una relazione con un uomo o massimizzare il proprio guadagno economico, trovando ad esempio più facilmente un lavoro (Hunter 2005, 66-67).

Questo sia perché molti uomini neri sono maggiormente attratti dalle donne connazionali con pelle chiara (Hunter 2005, 72), o dalle donne europee, come chiarifica questo brano di Makaping a proposito delle coppie miste:

Se la bianchezza della pelle rappresenta un privilegio, il maschio nero cerca di godere di questo privilegio. […] Avere una moglie bianca significa accedere ad uno status migliore, significa anche accettare dalle loro compagne bianche quello che mai avrebbero tollerato dalle donne nere. Come, ad esempio, accompagnare i figli a scuola, portarli al parco, cucinare, apparecchiare la tavola, o, peggio ancora, lavare, stendere e stirare i panni. Pur non cambiando idea sul fatto che, comunque sia, la donna rimane inferiore. Per la donna bianca avere un uomo nero è una dichiarazione di guerra alla propria comunità, quando non è istinto di espiazione delle malefatte coloniali. (2001, 56-57)

Sia perché il colore più o meno chiaro della pelle vede un legame con il livello sociale dell’individuo:

Hair texture, like skin tone, carries much social and historical baggage for Blacks. All things being equal, a Black woman whose hair grows naturally straight is usually thought to be from a “better” family than a woman whose hair is very nappy. Black woman who wear natural styles, like braids, cut across socioeconomic lines, but a politically defiant style like dreadlocks is generally a middle-class expression of Black consciousness. (Russell, Wilson, Hall 1993, 90)

Tutto ciò lascia quindi intravedere come le donne (ma anche gli uomini) siano tendenzialmente giudicate in base alla loro apparenza esteriore, senza andare in profondità e conoscerne così gli aspetti più nascosti e profondi.

da madre ungaro-tedesca e da padre afro-americano, che nel seguente passo del suo libro Die Farben meiner Haut. Autobiographische Aufzeichnungen (2002) si chiede se il colore della sua pelle sia davvero più importante dei colori sotto la sua pelle, ovvero di tutte quelle “sfumature” che caratterizzano la complessa identità di una persona:

Sie urteilen nach meinem Äußeren, nach meiner dunklen Hautfarbe. Das Merkmal ›schwarz‹ (wie sie es nennen) ist für sie wichtiger als alles andere: meine deutsche Hälfte durch meine Mutter, meiner Erziehung, meine Sprache, mein Wesen. Wie viel zählt also mein Inneres in der Gesellschaft? Wie viel wird davon wahrgenommen? […] Ich möchte fragen […], ob wirklich die Farbe der Haut wichtiger ist als die Farebn darunter. (9)

Diventare bianchi significherebbe dunque godere di innumerevoli vantaggi, quali redditi più elevati, livelli di istruzione più alti, opzioni di alloggio più confortevoli, ampio raggio di possibilità professionali, maggiori livelli di autostima, meno problemi di salute mentale (Hunter 2004, 30), ma anche perdere il valore della propria autenticità, cioè perdere la percezione della legittimità etnica: «skin color has long been tied to notions of “race purity”, and in more recent contexts, has been associated with group membership and “ethnic legitimacy”» (Hunter 2004, 22-44: 35), dunque «if black isn’t beautiful, at least it’s authentic» (Hunter 2005, 104).

Queste intenzioni dimostrano inoltre la mancanza di sicurezza del nero verso se stesso e la volontà di sfidare la propria natura, rischiando anche la salute e perfino la vita, come espresso in questo passo di Inongo-Vi-Makomé:

Tanto es así, que muchas mujeres africanas no se sienten seguras si sus pieles son muy oscuras. Y muchos hombres africanos también prefieren a las mujeres de piel clara. El ejemplo de esta preferencia lo aplican aún más, los mandatarios del continente. La mayoría de ellos tienen como primera, segunda o tercera esposa, a una mujer de piel clara, preferentemente mulata. […] Esta inseguridad y el rechazo a todo lo que

es negro, lleva a muchas mujeres negras africanas a desafiar la naturaleza. Blanquean sus pieles a base de potingues que se fabrican en cualquier laboratorio científico o simplemente en casas. Ello conlleva un grave riesgo a la hora de intervenir quirúrgicamente a cualquiera de ellas. Sus pieles, deterioradas por el abuso de esos productos, no se cicatrizan como es debido. Todavía colea la historia de la esposa de un ex presidente de un país africano, que vino a España a hacerse la cirugía estética. La ex primera dama, muy adicta a esos productos del blanqueo de la piel, según cuentan, no sobrevivió a la intervención, debido, según cuentan también, a la mala cicatrización de su piel… Y si hablamos de la piel, podemos decir lo mismo del pelo… Desde hace muchos años, las africanas han renunciado a sus pelos naturales en beneficio de las mechas de pelos artificiales que les acercan aún más a sus ídolos y modelos a imitar: Las mujeres blancas. (2009, 379-388: 384-385)

Sono varie le sostanze usate storicamente – anche combinate fra loro – per sbiancare la pelle, quali candeggina, dentifricio, bicarbonato, urina, soda caustica; nell’attualità pare che non si usi più la candeggina, ma si riscontrano sostanze tossiche nelle creme sbiancanti illegali, come il mercurio, corticosteroidi o idrochinone. L’uso di prodotti di bassa qualità e nocivi creano conseguenze gravi e oltretutto anti-estetiche (visto che vi si ricorre proprio per avere l’effetto opposto, quello di apparire più belli), come macchie bianche o strana pigmentazione (Cambra, Rojas 2008, online).

Russell, Wilson e Hall spiegano come in passato i prodotti sbiancanti, confezionati in scatole attraenti e con nomi di fantasia, consistevano soprattutto in grasso e gesso. Successivamente si sono sviluppate altre formule che però danneggiavano particolarmente la pelle, rendendola secca o a chiazze. Durante gli anni Venti era molto diffuso il Ro-Zol, uno degli agenti chimici più antichi prodotto negli Stati Uniti con lo scopo di schiarire la pelle:

Ro-Zol was the first preparation made expressly for bleaching… Ro-Zol does not bleach by destroying the pigmentation… It is received by the pigment and combines and harmonizes to produce a remarkably satisfactory, youthful, wholesome and whitened complexion. (1993, 50)

Oggi, invece, prodotti sbiancanti come Nadinola, Ambi Fade Creme, Esoterica, Porcelana e Vantex sono i più acquistati dalle donne africane. Il principio attivo presente nella maggior parte di queste creme è l’idrochinone, una sostanza chimica le cui proprietà di inibizione sulla melanina sono state scoperte quasi per caso (Russell, Wilson, Hall 1993, 51). L’idrochinone, «un composto nocivo, irritante, allergenico e pericoloso per l’ambiente»,20 come spiega il dermatologo Silvano Orini, «provoca danni ai melanociti, le cellule della melanina che presiede al colorito, e a determinati dosaggi può essere cancerogeno».21

Hunter afferma che molte creme sbiancanti sono tossiche in quanto contengono alti livelli di mercurio, e causano danni anche ai figli, sia quando le donne ne fanno uso durante la gravidanza – visto che il mercurio viene assorbito dal bambino in grembo – sia dal momento in cui sono le madri stesse a spalmare queste creme ai loro figli, desiderosi di avere la pelle più chiara e convinti di essere così più apprezzati (2005, 4).

Senz’altro non così pericolosi risultano essere i prodotti cosmetici schiarenti naturali, come quelli a base di liquirizia dolce, tè verde, camomilla o semi di uva ursina,22 o l’applicazione di acqua e talco (Lombardi Diop 2012, 91), prodotti naturali che tuttavia a volte vengono mescolati con prodotti dannosi per la salute, come succede in alcuni paesi africani, dove «le donne si comprano un litro di latte, vi aggiungono l’idrochinone e il cortisone, e si cospargono il viso e il corpo con questo cocktail due volte al giorno» (Faloppa 2013, 247).

Russell, Wilson e Hall evidenziano invece come alcune donne nere ritengono non opportuno ricorrere a prodotti sbiancanti preferendo l’uso di un trucco bianco liquido, che permette di creare sfumature più chiare e leggere rispetto al colore effettivo della loro pelle, suscitando un effetto cenere che si interrompe però bruscamente all’inizio del collo (1993, 53-54).

20

L’informazione è tratta dall’articolo Idrochinone, composto schiarente vietato del 21 maggio 2009, http://www.giadenonline.com/blog/2009/05/21/idrochinone-composto-schiarente-vietato/ (ultima consultazione marzo 2013).

21

La notizia è tratta dall’articolo «Idrochinone, l’unico che funziona e che usava Jacko», apparso il 4 marzo 2010 nel quotidiano online «Il Giorno. Brescia», http://www.ilgiorno.it/brescia/cronaca/locale/2010/03/04/299609-

idrochinone_unico_funziona_usava_jacko.shtml (ultima consultazione marzo 2013).

22

L’informazione è tratta di nuovo dall’articolo Idrochinone, composto schiarente vietato del 21 maggio 2009.