1. ESILIO ED EMIGRAZIONE: FORME DI SPAESAMENTO
1.5 Tabula rasa della propria identità
1.5.1 La percezione visiva: orgogliosi del proprio corpo
appartenenza alla loro società, al loro paese, alla loro nazione» (Sayad 2002, 172); egli reagisce infatti affermando il contrario: «Yo no soy un blanco», «No olvides que nací y crecí aquí», «Kosso, ya te dije que crecí en estas orillas» (Vi- Makomé 1999, 18, 19-20, 22), riconoscendosi a tutti gli effetti membro del suo mondo d’origine: «aquel suelo era su país, su tierra» (Vi-Makomé 1999, 15).
1.5 Tabula rasa della propria identità
Devo provvedere al più presto. Devo diventare bianca.
(Chohra 1993, 11)
1.5.1 La percezione visiva: orgogliosi del proprio corpo
Il più delle volte il rifiuto verso lo straniero si basa solamente su una nostra percezione visiva, che ci spinge a percepire chi si presenta come diverso da noi come qualcuno di estraneo e minaccioso, tanto che «noi autoctoni ci siamo accorti dell’immigrazione osservando nelle nostre città persone dai tratti somatici diversi e, in particolare, con una pelle diversa: proprio il colore della pelle è stato il segnale, per noi, di una presenza estranea» (Mazzetti 1996, 88-89).
Questa semplice osservazione in realtà racchiude un significato profondo, in quanto se per noi il colore della pelle è segno di una presenza estranea, allo stesso tempo quella presenza estranea si sente fin da subito diversa, altra, non accettata per quello che è.
Eppure alcuni migranti difendono con forza e con orgoglio la propria persona, accettando ed enfatizzando anche quei tratti fisici che tendono ad essere percepiti dai nativi come elementi di distinzione e di contrasto, primi fra tutti il colore della pelle. In questo caso i migranti percepiscono il valore del colore nero come segno della propria essenza e come un forte significato identitario – culturale e sociale, ma anche individuale – che vuole quindi essere difeso ed “esaltato”.
Dalla ricerca antropologica di Nicoletta Diasio, presso un poliambulatorio romano per immigrati gestito dalla Caritas, emerge ad esempio tale constatazione di una ragazza somala: «Da quando sono in Italia la mia pelle non è più la stessa, si è schiarita, non mi piace, è sempre più bianca. Ho paura di diventare bianca» (Diasio 1992, 30). Affiora quindi ciò che Alessandro Portelli chiama «l’incubo nero di diventare bianchi, come segno di perdita di presenza, potenza, significato» (2004, online), manifestandosi casi in cui «people of color are largely proud to be members of their own ethnic groups and do not generally report that they wish to be white» (Hunter 2005, 61).
Diventare bianco significherebbe infatti «rinunciare alla parte più profonda di
sé» (Diasio 1992, 34), «rinunciare al valore della propria specificità e scivolare in un regno indistinto in cui la pressione dei cambiamenti si fa così forte da non poter essere padroneggiata in modo adeguato» (Diasio 2001, 166).
Quindi si tende a rimarcare la propria identità, mostrando l’orgoglio di essere neri, di essere africani, di essere semplicemente se stessi, di avere la pelle del «colore dell’ebano e non delle tenebre» (Gaye 2013, 82), tanto da gridare la necessità di non rinunciare alla pelle nera, da intendere in senso ampio come contenitore di storia, cultura, tradizioni e valori, così come recita il titolo del testo di Cheikh T. Gaye Prendi quello che vuoi, ma lasciami la mia pelle nera (2013).16
Così si esprime invece la camerunese Geneviève Makaping, residente da molti anni in Italia:
Anche se non rivendicassi la mia “nerezza” le cose non cambierebbero, cioè il colore della mia pelle è questo, non ho problemi e non me ne pongo. Gli altri, evidentemente, si pongono “il problema” del colore della mia pelle. Sembra veramente un paradosso. Per quanto mi riguarda la questione potrebbe anche essere divertente, se non fosse che delle persone vengono uccise per il colore della loro pelle “non giusto”. (2001, 88)
16
La voce narrante del romanzo Nativas di Inongo-Vi-Makomé (2008, 22) esplicita invece con queste parole l’orgoglio degli africani di essere tali: «A los negros africanos les gusta identificarse primero con su continente y a continuación añaden su país de origen. La degradante condición económica que ha convertido su mítica tierra en continente mendigo, no les impide identificarse con él…».
La questione dell’accettazione dell’essere nero si può leggere anche in questo passo dell’intervista a me rilasciata dal camerunese Inongo-Vi-Makomé, nel momento in cui gli chiedo come vive la sua condizione di straniero a Barcellona:
Pertenezco a una gran raza, la raza negra. Y a pesar de la distorsión de la realidad de la historia en que se han dedicado los blancos a lo largo de estos tiempos, sabemos que pertenecemos a un gran pueblo y a una gran cultura, a pesar también de nuestra situación actual. Así que te digo la verdad, nunca me ha importado ningún racista. Para que me preocupara o me importara lo que piensa un racista de mí, sería que yo quisiese ser blanco. Y yo nunca he querido ser más que lo que soy, es decir un negro africano. (Rossini 2011, online)
Vi-Makomé manifesta inoltre il suo ottimismo, pensando che presto tutti i neri accetteranno la loro condizione di negros, con la consapevolezza di essere una delle tante varietà del genere umano che caratterizzano la società attuale:
No cabe ninguna duda de que en un tiempo no muy lejano, todos los negros del mundo acabarán, como muchos ya lo hacen, amando su condición de “negro/a”. Negro/a, como una especie más de la gran diversidad y variedad del género humano que conforma nuestro mundo, donde, blancos, amarillos, rojos y todos, somos iguales. Es importante tener esa conciencia. Porque es la primera condición para que dejemos de ser simples víctimas y nos pongamos a trabajar juntos con los demás para combatir los graves problemas que nos acechan. (2009, 379-388: 387)
Eppure, come spiega Marco Mazzetti, non tutti gli africani che vivono in un contesto socio-culturale diverso da quello d’origine sono in grado di difendere con fermezza la propria identità nera, il più delle volte proprio a causa della difficoltà di convivere con gli episodi di razzismo nei loro confronti. Spesso non riescono a comprendere che il disprezzo e il rifiuto – senza dubbio riprovevoli e fonte di dolore – in realtà, come sostiene Renate Siebert, non li riguardano, poiché loro non hanno alcuna colpa se non sono accettati dagli altri (2003, 34), come dichiarano lucidamente sia Vi-Makomé in un’intervista, affermando che «el odio
o lo que sea del racista, es su problema, no el mío» (Rossini 2011, online), sia Geneviève Makaping, che scrive: «Non ho colpa se sono il loro problema, il loro incubo. La minoranza esiste, io esisto e non posso certamente ammazzarmi per fare loro piacere e allentare così le loro pene» (2001, 67).