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1. ESILIO ED EMIGRAZIONE: FORME DI SPAESAMENTO

1.3 L’emigrazione: percezione e spaesamento

1.3.1 Viaggio concreto e viaggio interiore

In un contesto sociale sempre più caratterizzato da persone da tratti somatici, colori, lingue, tradizioni differenti, è di estrema attualità prendere in esame il fenomeno migratorio, laddove il termine “migrare” significa «trasferirsi temporaneamente o stabilmente in un luogo diverso da quello di origine» (De Mauro 1999); dal punto di vista del luogo di partenza si parla di emigrazione, dal punto di vista di quello d’arrivo si parla di immigrazione.

Tale esperienza viene quindi a collegarsi alle categorie di tempo e di spazio (Floriani 2004, 31) e la combinazione di queste due variabili diviene un elemento integrante della figura del migrante (Ponzanesi, Merolla 2005b, 1-34: 6).

Tuttavia il viaggio compiuto dalla propria terra verso una nuova realtà non rappresenta solo una dislocazione fisica dell’individuo, ma anche e soprattutto un viaggio interiore, in quanto l’immigrato vive in un costante altalenare di stati d’animo ed emozioni, lavora continuamente alla ricostruzione della propria identità e va alla ricerca di un senso di appartenenza che il più delle volte gli viene negato, vivendo quindi una forte sensazione di spaesamento e sradicamento.

La migrazione implica infatti un duplice movimento, al di fuori e all’interno di sé, poiché, come sostengono Sandra Ponzanesi e Daniela Merolla, quando si cambia territorio si attiva un processo di deterritorializzazione, di distruzione del sé (2005b, 1-34: 5) che spinge l’individuo a ricomporre la propria esistenza, a mettere insieme e a ricostruire i pezzi di una nuova identità, trovando nuovi modi di descriversi.

Chi si sposta da uno spazio, da una storia, da una società, da una lingua all’altra deve però sempre ricordare che tale processo di mutamento non implica la perdita della propria identità, che non è un qualcosa di fisso, statico, immobile e immutabile, ma al contrario è una realtà «che continuamente influenza e viene influenzata, che vive e si sviluppa nella molteplicità delle esperienze storiche» (Ferrarotti 2003, 19); per sintetizzare con le parole di Francesco Vitale, «l’identità non è qualcosa di dato, si determina in relazione ad altro, nel differire da sé» (2004, 164).

Questo dinamismo è particolarmente percepibile proprio nel fenomeno migratorio, in quanto «l’identité de celui qui arrive et de celui qui accueille se renouvelle jour après jour, dans la confrontantion et la relation» (Colombini, Mantovani 2009, 185).

Ecco perché «le migrazioni costituiscono, per i soggetti che ne sono protagonisti, esperienze decisive, a volte traumatiche, e comunque rappresentano eventi che modificano profondamente l’esistenza delle persone» (Fiorucci 2006, online).

Marisa Fenoglio, emigrata in Germania per motivi di lavoro del marito, si chiede infatti in Vivere altrove, un racconto tra autobiografia e romanzo, se sia mai possibile parlare di un’emigrazione facile, essendo consapevole che

nessun emigrato conosce alla partenza la portata del suo passo, il suo sarà un cammino solitario, incontrerà difficoltà che nessuno gli ha predetto, dolori e tristezze che pochi condivideranno. L’emigrazione gli mostrerà sempre la sua vera faccia, il peso immane nel destino individuale, il prezzo da pagare in termini di solitudini e rinunce, nonostante i vantaggi materiali che tanti ci troveranno. (1999, 11)

Quasi tutti coloro che si trovano a vivere in una nuova comunità sono infatti caratterizzati dall’essere avvolti da un gran senso di solitudine che

sconfina poi nell’isolamento, e la decapitazione della speranza, l’oscurarsi dell’orizzonte del futuro, il dilatarsi dell’orizzonte del passato, si costituiscono come elementi radicali e inconfondibili di un mondo- della-vita, di una Lebenswelt in senso husserliano, risucchiato nel gorgo della separatezza e della stranierità.4

Salman Rushdie, scrittore di origine indiana emigrato in Inghilterra, delinea in modo molto efficace il triplice sconvolgimento che vive il migrante, quell’“uomo tradotto”, trasportato da una località all’altra, da una lingua all’altra, da una cultura all’altra:

Normalmente, un migrato vero e proprio patisce un triplice sconvolgimento: perde il proprio luogo, si immerge in un linguaggio alieno e si trova circondato da individui che posseggono codici e comportamenti sociali molto diversi dai propri, talvolta perfino offensivi. Ed è proprio ciò che rende gli emigrati delle figure così importanti, perché le radici, la lingua e le norme sociali sono stati gli elementi più

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Il passo riportato è tratto da Lo sradicamento nelle sue fondazioni fenomenologiche di Eugenio Borgna, http://www.passages.it/Passages7/LO_SRADICAMENTO.pdf (ultima consultazione maggio 2012).

importanti nella definizione di cosa significa essere un uomo. L’emigrato, negati tutti e tre, è obbligato a trovare nuovi modi di descriversi, nuovi modi di essere uomo. (1994c, 297-306: 302)

Citando nuovamente Rushdie, ecco che

l’emigrazione ci offre una delle metafore più complete della nostra epoca. La stessa parola metafora, con la sua radice nella parola greca che indica il trasportare, descrive una sorta di emigrazione, un’emigrazione delle idee in immagini. Gli emigrati – individui trasportati – sono esseri metaforici per natura; e noi ci troviamo circondati dall’emigrazione vista come metafora. (1994c, 297-306: 303)

Rushdie spiega come questo processo di cambiamento non debba necessariamente essere visto in ottica negativa, come un qualcosa che genera solo situazioni di perdita e svantaggio: «Poiché noi siamo persone portate di là nel mondo, siamo individui tradotti. Si ritiene solitamente che qualcosa dell’originale si perda in una traduzione; insisto sul fatto che si possa anche guadagnare qualcosa» (1994b, 13-26: 22).

Migrazione e traduzione possono essere dunque accostate fra di loro e analizzate come processi alquanto similari, visto che il migrante è in movimento fra più luoghi e il traduttore fra più testi.

In entrambi i casi si travalica una linea, uno spazio, ed «è proprio in situazioni di frontiera che si producono i più intensi scambi culturali. Le frontiere non sono né spopolate né temerarie. Sono il miglior luogo per la comunicazione tra culture» (Godayol 2002, 29-30). Migrazione e traduzione garantiscono quindi una forma di arricchimento, dando la possibilità ai loro protagonisti di entrare in contatto con culture e lingue diverse.

Un arricchimento che tra l’altro funziona a doppio senso, in quanto si stabilisce un dialogo reciproco sia tra autore e traduttore, sia tra autoctono e migrante; dialogo che purtroppo non sempre si instaura con facilità, soprattutto nel caso della seconda coppia di soggetti.

migrazione e viceversa, risulta interessante l’espressione «nomadic dynamic of

translation» (2000, 124) usata da Michael Cronin, per mettere l’accento sul

continuo processo di peregrinazione che coinvolge il traduttore, il quale, come il viaggiatore, attraversa appunto lingue e culture: «The translating agent like the travel straddles the borderline between the cultures. A nomadic theory of translation proposes the translator-nomad as an emblematic figure of (post)modernity» (Cronin 2000, 2).

Ed anche Cronin, come aveva già constatato Rushdie, individua elementi positivi nella pratica traduttiva, come ciò che definisce semiotic transcendence, ovvero la capacità di rendere possibile la comunicazione tra persone di diversa lingua e cultura:

What semiotic transcendence assumes, of course, at some level, is that there is a common humanity that makes communication possible and that we are not irredeemably bound by the circumstances of our birth into a particular language. This tacit universalism underlines the practice of intersemiotic travelling. (Cronin 2000, 89)

In modo simile si esprime anche Edward W. Said, affermando che si possono trarre alcuni privilegi e soddisfazioni dall’esperienza della marginalità, come «il piacere della sorpresa, di non dare niente per scontato, di imparare a cavarsela egregiamente in frangenti malcerti e precari che sgomenterebbero o terrorizzerebbero la maggior parte delle persone» (1995, 70).

Anche Fenoglio individua un tratto vantaggioso del vivere lontano dalla propria terra, ovvero la percezione di libertà e di autonomia, convinta che

l’estero può fare anche bene […]. È quel gran senso di libertà che dà l’estraterritorialità, l’essere fuori sede, quella possibilità autonoma e incontaminata di approcciare il futuro. Sei solo, nuovo sulla faccia della terra, con una forza iniziale di cui disponi una sola volta nella vita, le radici non ti ingombrano, puoi fare di te quello che vuoi, diventare anche esattamente l’incontrario di quello che eri prima. (1999, 100)

Dato che si trasportano «da paese a paese non solo parole, ma anche concetti, idee, costumi, religioni, immagini e simboli» (Albertazzi 2000, 138), “traduzione” diviene sinonimo di “transculturazione”, un termine nato in lingua spagnola e proposto nel 1940 dall’antropologo cubano Fernando Ortiz in riferimento alla cultura afro-cubana.

Una nozione che indica il superamento dell’idea tradizionale di cultura, non più intesa come entità omogenea, laddove la particella trans, suggerisce proprio l’immagine di «transito, trasferimento, traslazione, trasgressione, trasformazione» (Brancato 2004, 42), evocando continue interconnessioni e frequenti cambiamenti. È un processo e un approccio al problema che si configura come una ermeneutica della cultura, una meta-cultura che apre un nuovo orizzonte sistematico e una nuova via.

Così si apre il Manifesto Transculturale di Armando Gnisci:

La Transculturazione deve sperimentare e promuovere pratiche critiche di azione transculturale tra i saperi contemporanei allo scopo di produrre una nuova cosmo visione comunitaria attraverso forme di azione creativa e di salute generale: tra le persone umane, tra generi e tra generazioni, tra le culture; tra le persone umane e le non-umane, tra i viventi e il pianeta abitato da noituttinsieme e il cosmo, di entrambi i quali siamo partecipi. (2011, online)