3. LA SCRITTURA DELLA MIGRAZIONE AFRICANA IN SPAGNA
3.2 La tradizione africana: tra oralità e scrittura
3.2.2 Il valore letterario della narrazione orale
La maggior parte delle società africane, prima dell’arrivo dei colonizzatori europei, erano prive di scrittura, e proprio per questo in modo riduttivo e semplicistico furono considerate prive di civiltà e di qualsiasi valore intellettuale (Hampaté Ba1987, 189-226: 189; Gérard 1994, 39-56: 39).82 Ciò ha incentivato la missione civilizzatrice dell’europeo, soffocando il fascino e la sonorità della parola parlata, convinto che anche «“l’inchiostro più pallido è preferibile alla parola più forte”» (Vansina 1987, 165-188: 165), un inchiostro che in realtà talvolta risulta debole nei confronti delle mille sfumature emanate dalla parola orale africana:
El pasaje de la oralidad a la escritura fue en efecto uno de los procesos más complejos por los que el africano tuvo que transitar. Las lenguas de estas sociedades, sistemas fónicos por excelencia, funcionaban, y en muchos casos lo siguen haciendo, con estratos sonoros que le dan a las palabras un significado diferente según la gravedad de las vocales. Esta forma de expresión privilegiaba en consecuencia elementos suprasegmentales como los tonos, los ritmos y la articulación vocálica. La adopción del código escrito, regido en su mayoría por reglas y normas estrictas, resultó sumamente insuficiente e inadecuado para traducir los diferentes tipos de tonalidades, intenciones y contextos que la oralidad africana sí permitía y que con la escritura se hacían prácticamente invisibles. (Munguí Aguilar 2010, 1-10: 4-5)
Ad ogni modo però l’africano non si è lasciato sopraffare completamente dall’influenza occidentale, conservando e coltivando quel patrimonio orale che costituisce il fulcro della propria identità (Gérard 1994, 39-56: 49), il “sapere”,
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Come chiarifica Pap Khouma (2004, online), è bene specificare che l’assenza di scrittura non coinvolge tutto il continente africano: «In Africa ci sono testimonianze di scrittura antichissime, precedenti a quelle europee. Basta ricordare i geroglifici. Il Corno d’Africa, per citare uno degli esempi più eclatanti, possiede precise forme di scrittura dall’amarico al trigrino, ecc. Ancora oggi
così come sintetizza il saggio maliano Amadou Hampaté Bâ:83 «una cosa es la escritura y otra el saber, que la primera es la fotografía del segundo, pero el saber es la luz que proviene de todo cuanto nuestros antepasados han podido conocer y nos han transmitido».84
Inoltre non è da sottovalutare come «la scrittura non può mai fare a meno dell’oralità», in quanto «dipende da un sistema primario precedente, ossia la lingua parlata» (Ong 1986, 26), quindi, seppur in modo diverso, parola orale e parola scritta sono comunque vettori di cultura:
Una cultura ad oralità primaria trasmette la conoscenza attraverso la parola parlata, che è suono; le culture letterate lo fanno principalmente attraverso la parola scritta o stampata che è racchiusa in uno spazio e percepita dalla vista. (Ong 1986, 8)
Protagonisti della trasmissione della parola orale sono i narratori, che Hampaté Ba distingue in due tipologie. Da un lato, i tradizionalisti, grandi depositari dell’eredità orale, «essi possono essere Maestri iniziati (o iniziatori) di un ramo tradizionale particolare (iniziazioni del fabbro, del tessitore, del cacciatore, del pescatore, ecc.) oppure possedere la conoscenza totale della tradizione in tutti i suoi aspetti» (1987, 189-226: 196); essendo tenuti all’autenticità della trasmissione, hanno orrore della menzogna e garantiscono il rispetto della verità (1987, 189-226: 197-198). Dall’altro, gli intrattenitori pubblici o griots, che Hampaté Ba distingue a sua volta in tre sottogruppi: i griots musicisti, compositori, cantori e trasmettitori di musiche antiche; i griots ambasciatori e
cortigiani, che intervengono in occasione di controversie nelle famiglie nobili; i griot genealogisti, storici o poeti, favolisti e grandi viaggiatori. Questi hanno una
grande libertà di parola, non sono vincolati né al rispetto della verità né alla discrezione (1987, 189-226: 211), tanto che «“al griot”, si suole dire, “è consentito
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Per il cognome Bâ si riscontra la duplice grafia, con o senza accento circonflesso.
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L’informazione è tratta da África y la oralidad, una nota del comitato editoriale della Rivista online «TaNtágORa», n. 13, 2011, 4-5: 4, http://tantagora.net/revista-no-13-2/ (ultima consultazione dicembre 2013).
di avere due lingue”» (1987, 189-226: 199).85
Generalmente figure anziane, i griots,86 attivando la propria memoria individuale, sono anelli di congiunzione tra passato, presente e futuro, e grazie alla loro saggezza e capacità di persuasione, diffondono valori morali e sociali ai più giovani (Gnisci 2002, 129; Bernardi 2006, 14).
Questi “archivi viventi” sono i custodi
della memoria dei nostri popoli. I griots sono gli scrigni delle parole, gli scrigni che custodiscono i segreti dei secoli. Conoscono tutte le storie passate e presenti, tutte le leggende dei re, degli uomini, degli animali; le conoscono e le cantano di villaggio in villaggio, di festa in festa, […] in modo che non vadano perdute». (Micheletti, Moussa Ba 1991b, 3-10: 3)
Non a caso, griot, una parola wolof, significa “uccello volatore” (VC 164), mentre in lingua bambara significa “sangue”, perché come il sangue, il griot circola nel corpo della società (Hampaté Ba 1987, 189-226: 212).
Secondo Amadou Koné, alla luce di questa prospettiva, i griots – voci del passato e del presente, che tramandano la memoria nel tempo, narrando ciò che è stato trasmesso loro da altri – non possono essere intesi, nel senso occidentale del termine, come creatori originali e spontanei di arte; senza dubbio, però, l’originalità delle loro narrazioni si riscontra nel linguaggio e nello stile adottato. Ad ogni modo, non bisogna escludere la presenza di artisti “veri e propri”, che creano racconti di propria mano (Koné 1985, 24-25; Koné 1993, 56).
La narrazione orale, in tutte le sue sfaccettature – proverbi, indovinelli, canti, epopee, miti, detti, aneddoti, barzellette, ma soprattutto grazie ai racconti – permette di mantenere in vita e di tramandare quel bagaglio di arte orale posseduto da ogni società africana, assolvendo, secondo Boniface Ofogo, quattro funzioni principali.
I racconti, andando ben al di là della funzione di mero intrattenimento,
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A questa distinzione in tre tipologie di griot, se ne associa un’altra che distingue fra mâbo,
gawlo e tiapourta, che si differenziano fra loro per i generi narrati e per il tipo di interlocutore
(Chevrier 2013, 22-23).
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trasmettono valori propri di ogni cultura, fungendo quindi da vettori educativi e formativi; rendono possibile avvicinarsi all’attività della lettura; danno l’opportunità di usare un ricco linguaggio verbale, di riscoprire il piacere dell’ascolto, di uscire dall’isolamento sociale, di mantenere pertanto attiva quella capacità comunicativa, oggi sempre più impoverita e soppiantata a causa dello sviluppo delle nuove tecnologie; permettono di nominare gli oggetti e creare realtà, ovvero di conoscere il mondo culturale di appartenenza (VC 105-114).
Un’altra funzione dei racconti, messa in luce da Mar Gallego sulla scia della visione di Agnès Agboton, è quella di educare le nuove generazioni ad avere una prospettiva plurisfaccettata della realtà, che superi qualsiasi visione dicotomica e unidirezionale del mondo (Gallego 2010, online), generando, come sostiene Inongo-Vi-Makomé quella cultura mestiza che garantisce un certo equilibrio ai figli degli immigrati (2011, 18-22: 20), questo perché «la tradición oral no es algo trivial y vacío: comunica valores, pautas de comportamento social» (Carbonell 2012, 24-27: 25).
La narrazione orale è quindi uno strumento che permette di sentirsi soddisfatti della propria vita, come riconosce Boniface Ofogo in un’intervista, sostenendo che «esos cuentos me armaron por dentro. Sigo recurriendo a ellos como a un refugio. Gracias a los cuentos que guardo en mi interior me considero un hombre rico, un hombre feliz, independiente de las circunstancias en las que me ponga la vida» (Ferrada 2013, online).
3.2.3 «L’Africa è il regno della parola parlata»
Secondo i Dogon «l’uomo che sa è “colui che conosce la parola” e che tesse “da bocca a orecchio” mediante una trasmissione orale che dipana lungo le generazioni il filo ininterrotto del sapere» (Gaudio 2003, online). Però, non è sufficiente un messaggio tramandato verbalmente per poter parlare di tradizione, ma «solo le tradizioni che risalgono a una testimonianza oculare sono valide» (Vansina 1987, 165-188: 166-167).
189-226: 190), assume quindi una funzione centrale nel garantire la trasmissione del messaggio nel tempo e nello spazio.
Come sostiene Estrella Ortiz, nell’interessante contributo che gioca sulla metafora del racconto e del tessuto, sono due gli elementi che garantiscono, tramite la memorizzazione, il filo della storia, ovvero la trama, la parte fissa, e las
cuentas, l’ordine delle sequenze:
Pues sólo cuando hacemos nuestra la estructura de un relato, sea en prosa o en verso, y la memorizamos, podemos después habitarlo, llenándolo de detalles y color. [...] y ese narrar ha de estar tan hilado como las cuentas de los collares, con un orden que, una vez establecido, sea lo más fijo posible para facilitar su recuerdo. (Ortiz 2011, 6-10: 10)
Quando si parla di un episodio che deve essere riprodotto nella sua totalità entrano in gioco altri elementi chiave della tradizione orale, quali l’impossibilità di riassumere e la necessità di ripetere, come afferma lo storico Hampaté Ba:
È per ciò che il tradizionalista non può «riassumere» – o lo si può solo con estrema difficoltà. Chiedergli di riassumere una scena è come chiedergli di travisarla. E lui, per tradizione, non ha questo diritto. Ogni dettaglio ha la propria importanza per la veridicità del quadro. Quindi, o racconta l’avvenimento nella sua interezza o non lo racconta affatto. A una domanda del genere risponderà: «Se non hai il tempo di ascoltarmi, ti racconterò un altro giorno». Per la stessa ragione, non avrà mai paura di ripetersi. Né alcuno mai si stancherà di sentirgli raccontare la stessa storia, negli stessi termini, così come può avergliela sentita già raccontare chissà quante altre volte. E ogni volta è l’intera pellicola a srotolarsi da cima a fondo. L’avvenimento è quello, restituito tale e quale. Il passato diventa presente. La vita non si può riassumere. (1987, 189-226: 224)
Sempre Hampaté Ba, come riportato da Natale Losi, specifica come la ripetizione sia garanzia di autenticità e sinonimo di completezza:
È molto difficile per un africano della mia generazione riassumere. O raccontiamo nella totalità o non raccontiamo affatto. Non ci stanchiamo mai di ascoltare la stessa storia. La ripetizione per noi, non è una mancanza, un’imperfezione. (Losi 2000c, 52-98: 65)
Ripetere, quindi, come sostiene uno dei massimi indagatori di storia orale, Alessandro Portelli, «non significa cadere nella banalità o nella ridondanza, ma farsi portatori attivi, garanti della sopravvivenza di culture precarie che […] vivono solo se rinnovano continuamente il contatto, se seguitano a nominarsi» (1992, 24).
Attraverso la ripetizione, l’artista cerca di attrarre l’attenzione del pubblico, di fornire più dettagli possibili, di porre l’enfasi su certi aspetti e parti del discorso, di accentuare le emozioni e sensazioni provate dai personaggi della storia narrata (Okpewho 1994, 15-35: 19).
Per far sì che il messaggio venga immagazzinato per essere trasmesso da una generazione all’altra, si attivano quindi dei processi intellettivi e delle strategie di memorizzazione. Walter J. Ong afferma infatti che
è necessario pensare in moduli mnemonici creati apposta per un pronto recupero orale. Il pensiero deve nascere all’interno di moduli bilanciati a grande contenuto ritmico, deve strutturarsi in ripetizioni ed antitesi, in allitterazioni e assonanze, in epiteti e espressioni formulaiche, in temi standard […], in proverbi costantemente uditi da tutti e che sono rammentati con facilità, anch’essi formulati per un facile apprendimento e ricordo, o infine in altre forme a funzione mnemonica. (1986, 62-63)
Tuttavia, non tutti gli africani hanno un’intensa abilità e capacità mnemonica che garantiscono la produzione di testi orali “efficaci”, poiché è necessario un esercizio costante, fin dai primi anni di vita (Okpewho 1994, 15-35: 18): «dall’infanzia, noi siamo abituati a osservare, a guardare, ad ascoltare, così bene che tutti gli avvenimenti s’inscrivono nella nostra memoria come in una cera vergine» (Losi 2000c, 52-98: 64).
stimola le menti dei bambini, contribuisce allo sviluppo cognitivo e intellettivo, accresce la capacità di ascolto, incentiva il senso di curiosità, rafforza l’arte dell’imitazione, aumenta l’abilità di ordinare le idee, e nel caso di fiabe e favole incrementa la logica del trionfo del bene sul male (VC 75-76), e nello specifico, grazie alla sua esperienza di narratore orale in Spagna nel corso di molti anni, osserva come «a los niños españoles en general les falta capacidad de escucha, la tienen limitada. Y mantener su atención durante un buen rato a veces no es tarea fácil» (Ofogo 2011, online).
Il romanziere e critico nigeriano Isidore Okpewho delinea due tipi di approccio alla tradizione orale:
si può innanzitutto individuare un tipo di preparazione informale, nel senso che non vi sono forti legami o impegni fra l’allievo-artista e la persona che questi si presta ad imitare. Può darsi che l’allievo si sia trovato ad osservare un artista orale abile ed esperto che abita nelle vicinanze e che rappresenta una figura di spicco nella comunità. Il futuro artista lo osserva attentamente e, dopo un certo tempo, incomincia ad imitare le tecniche di verbalizzazione e di movimento tipiche dell’esperto […]. Questo tipo di allenamento può valere per le forme più popolari di arte orale come la narrazione di storie di animali e orchi, i proverbi, gli enigmi e il canto dei motivi delle danze. Ma un approccio di tipo formale si rende necessario per le varietà più specifiche o specializzate di arte orale per le quali si richiede che l’artista sia membro di una setta o di una corporazione o di una famiglia reale. Mi riferisco ai generi come la poesia dei cacciatori fra gli akan e gli yoruba, i canti dinastici o le epopee incentrate sulle famiglie regnanti fra i rwanda, i sotho, i mandinka, e la poesia divinatoria fra gli yoruba, i dogon e i lango. In questi casi, l’allievo fin dalla tenera età viene affidato a un abile artista col quale può trascorrere molti anni di studio ed esercitazione. (1994, 15-35: 19)
Tali specificità della narrazione orale confermano quanto sostiene Breyten Breytenbach, ovvero che
L’Africa è il regno della parola parlata. Le parole hanno una dimensione magica, vengono filate per irretire il tempo, rinviarlo, annullarlo, perpetuarlo. Le parole costituiscono il tessuto quasi visibile delle relazioni, la creazione dei modelli di riunione. Sebbene la parola si basi su modelli e stereotipi rituali, lascia spazio per sottili spostamenti, adattamenti e accentuazioni. Inoltre è un’attività che può gettare sortilegi e assumere fisicamente forma attraverso la struttura, un campo di riferimento, una storia, infine una realtà. (1994, 57)