• Non ci sono risultati.

Stirare i capelli, schiarire gli occhi, dissimulare il naso

1. ESILIO ED EMIGRAZIONE: FORME DI SPAESAMENTO

1.5 Tabula rasa della propria identità

1.5.3 Bambini e adulti ricostruiscono il loro “corpo etnico”

1.5.3.2 Stirare i capelli, schiarire gli occhi, dissimulare il naso

Un’altra pratica a cui ricorrono spesso le donne nere è quella dello stiramento dei capelli, anch’essa con una lunga storia. Gli stessi tre autori appena citati osservano come durante la schiavitù, molte donne hanno cercato di alterare la consistenza e l’aspetto dei loro capelli, tenendoli ad esempio avvolti in un fazzoletto o in una specie di bandana; le domestiche erano avvantaggiate in quanto potevano ricorrere con maggior facilità al grasso di maiale, alla margarina o al burro per stirare i loro capelli.

Nei primi anni del Novecento l’americana Madam Walker, discendente da una famiglia di schiavi, chiamata the hair-straightening queen, mise a punto dei trattamenti per lo stiraggio dei capelli e inventò un pettine caldo, oltre a diversi articoli da toeletta e cosmetici, quali ciprie, oli da bagno, lozioni, saponi e ausili sanitari.23 Fino agli anni Sessanta la maggior parte delle donne nere, ma anche alcuni uomini, stendevano regolarmente i loro capelli (Russell, Wilson, Hall 1993, 46-47), e tuttora il capello lungo e liscio viene considerato good, indice di bellezza e di buona posizione sociale, anche se molti autori hanno scritto storie, soprattutto per bambini, che cercano di esaltare i capelli crespi (Hunter 2005, 77).

Un’altra pratica consiste nel tingerseli di una tonalità più chiara; tuttavia è bene ricordare che per molto tempo le donne africane nelle loro tribù hanno colorato i loro capelli con henné, ocra, coloranti vegetali e altre sostanze naturali, pratiche estetiche che in quel caso non si potevano associare alla volontà di assimilarsi ai bianchi (Russell, Wilson, Hall 1993, 48).

Un’altra modalità di alterazione riguarda il colore degli occhi, mediante l’uso di lenti a contatto colorate, vista la convinzione che «brown eyes are unacceptable and blue eyes are better» (Russell, Wilson, Hall 1993, 48), seppur è opportuno precisare che alcune donne nere, ma anche uomini, hanno gli occhi azzurri o verdi fin dalla nascita.

I tre autori evidenziano inoltre come molte persone nere non accettano la forma del loro naso e, quando non ricorrono alla chirurgia estetica, optano per altre

23

tecniche, come l’uso di un trucco che ne de-enfatizza la grandezza, applicando tonalità più scure di liquido alla base e ai lati del naso, e tonalità più chiare nella parte superiore, oppure decidono di dormire con una molletta sul naso, un metodo molto più doloroso e fastidioso (Russell, Wilson, Hall 1993, 49).

1.5.4 Esempi dalle pagine migranti

Nella scrittura della migrazione – a cui si dedica spazio a partire dal capitolo successivo – spesso si riscontrano riferimenti alle tecniche di dissimulazione fin qui esposte. Sembra quindi opportuno riportare alcuni passaggi su questo tema, tratti dalle opere di scrittori migranti di diversa provenienza e di diversa collocazione, passaggi che per lo più hanno al centro personaggi femminili e che confermano come ci si avvicini a tali pratiche in età infantile e adolescenziale, ma anche in età adulta.

Scene toccanti emergono dal romanzo autobiografico Volevo diventare bianca (1993) di Nassera Chohra, nata in Francia da una famiglia di origine saharawi, dove trascorre l’infanzia e l’adolescenza, studia e lavora come attrice, fino a compiere un viaggio da turista in Italia, dove decide di stabilirsi. La protagonista si accorge del colore della sua pelle solo a sette anni, quando la sua “amica” francese la offende rifiutandosi di regalarle una bambola perché lei è “negra”:

Non è che fossi invidiosa, ma io non ho mai avuto una bambola. Nemmeno una brutta, piccola o rotta. Mi ricordo che un giorno le chiesi di regalarmi una di quelle che non usava più. Era una bambola vecchia, rotta e sporca, ma lei con una smorfia rispose: «No. Perché tu sei negra». Fu come se mi avesse dato uno schiaffo. Nessuno me lo aveva mai detto – per la verità non me n’ero mai accorta – che il colore della mia pelle facesse differenza, che essere nera fosse peggio che essere bianca. Ero così offesa, confusa, scioccata da quella risposta che scappai a rifugiarmi nel mio cortile. (Chohra 1993, 10-11)

A causa di questo triste episodio Naci si rende conto «per la prima volta e con stupore» (Chohra 1993, 11) che anche sua sorella e sua madre sono nere; difatti, come spiega Daniele Comberiati, il colore nero è troppo visibile ed è il segno della differenza, così da scatenare l’odio e il rancore verso i genitori e ad arrivare addirittura a vergognarsi della madre (2007, online):

Avevo detto a tutte le mie amiche che mia madre era bianca, bionda e con gli occhi azzurri e che non poteva venirmi a prendere a scuola perché era sempre fuori per lavoro. Ma che diavolo le è saltato in mente? Non viene mai a prendermi a scuola, proprio oggi doveva farmi questa bella sorpresa! […] E a me non rimaneva altra scelta: dovevo almeno salvare la faccia e perciò feci finta di non conoscerla. […] E io, camminando sempre più veloce cercavo di allontanarmi il più possibile da lei. Per una settimana mi sono vergognata moltissimo di mia madre e del colore della mia pelle, e solo ora so che non potrò mai vergognarmi abbastanza a lungo per essermi vergognata di lei. (Chohra 1993, 13)

Il colore nero però, oltre ad essere visibile, è incancellabile (Comberiati 2007, online), nonostante i numerosi tentativi effettuati dalla ragazzina: dal provare a smacchiarsi la guancia con il dito indice davanti allo specchio, allo scrivere su un bigliettino anonimo “Cara maestra come devo fare a diventare bianca?” e infilarlo nella “scatola magica” posta al di fuori della sua aula, sperando di ottenere una risposta soddisfacente dall’insegnante, alla prova estrema di schiarire la propria pelle con la candeggina:

La sera, a casa, mi sedetti vicino a mio padre e senza che nessuno se ne accorgesse confrontavo la sue pelle con la mia: lui aveva un bel colore bianco e io ero nera e brutta. Perché mai mio padre, così bianco, così bello, si era sposato con quella donna così nera che con lui non aveva niente a che vedere? Mi tormentai a lungo, finché mi sembrò d’aver trovato finalmente un rimedio infallibile. L’avevo visto usare tante volte e funzionava sempre. La candeggina: rendeva bianchi i pantaloni dei miei fratelli, figuriamoci se non avrebbe schiarito anche me! Andai di corsa da mia madre tutta eccitata per sapere dove aveva messo le miracolose

bottiglie. Pensavo che una sola non sarebbe bastata, così decisi di chiedergliene almeno tre: «Mamma, mamma! Mi serve la candeggina... Per diventare bianca come papà...». (Chohra 1993, 14)

In modo parallelo si comporta la già citata Geneviève Makaping all’età di quattordici anni:

Il nostro [dei neri africani] atteggiamento verso i bianchi era una “invidia attiva”. Non volevamo essere ‘loro’. Volevamo avere quello che ‘loro’ avevano. Volevamo fare quello che “loro” facevano. Solo più tardi, quando dall’America e dalla Francia arrivarono i prodotti sbiancanti, moltissime donne e alcuni ragazzi avrebbero optato per il cambio del colore della pelle. Anch’io feci il tentativo e mi bruciai la pelle. Avevo quattordici anni. Per la vergogna non uscii da casa. (2001, 8)

Situazione similare si presenta in May Ayim, nata e cresciuta in Germania, figlia di madre tedesca e padre ghanese, che fa del colore della pelle «il motore della sua scrittura, sia letteraria sia di ricerca sociale» (Rieger 2009, 171). Anche lei, da ragazzina, ha tentato – senza esito – di schiarirsi la pelle, ingoiando addirittura del sapone: «Der Traum vom ›Weißsein‹ ist am ungenügenden Willen meiner Eltern und der mangelhaften Waschkraft von Seife gescheitert. Selbst Seife essen hat überhaupt nichts bewirkt» (Ayim 1986, 210-215: 213).

Il rapporto che stabilisce l’adolescente con il colore nero della propria pelle affiora anche nel romanzo autobiografico Más allá del mar de arena. Una mujer

africana en España (2005) di Agnès Agboton.

In un passo l’autrice afferma che durante l’infanzia invidiava sua sorella Yolande perché, avendo la pelle più chiara di lei, appariva sicuramente più bella agli occhi degli altri,24 e riflette sul fatto che le donne africane fanno vere pazzie

24

Riguardo alle sfumature diverse del colore della pelle in ambito familiare sono interessanti alcuni passi del romanzo del camerunese Inongo-Vi-Makomé Mam’Enying! (Cosas de la vida) (2012), dove ad un certo punto della narrazione compaiono due di sette fratelli brasiliani, César Augusto e Vera Lucía, gli unici che ereditarono il colore nero della pelle del padre. Entrambi hanno sempre avuto un difficile rapporto con il colore scuro della propria pelle, tanto da essere discriminati all’interno della loro famiglia e da essere trattati in modo diverso dai loro genitori; ciò fa sì che in loro cresca il senso di rifiuto e di disprezzo verso la famiglia, verso la società e in più

per depigmentare la propria pelle, mentre quelle occidentali fanno di tutto per scurirla:

Yoyo y yo hemos mantenido siempre una relación muy especial, incluso ahora, a pesar de la distancia. Cuando éramos pequeñas estuvimos muy unidas, mucho, porque compartíamos y sufríamos juntas muchas cosas. Ella tiene la piel más clara que yo, y en el África subsahariana eso es casi un símbolo de belleza, ¡qué cosas! Yo estaba celosa y no podía evitar la extraña convicción de ser un «patito feo». Es curioso, o al menos me lo parece, ese deseo de aclararse la piel que tanto daño ha hecho y hace todavía a las mujeres negras, y ese deseo de broncearse, de ponerse «morena» que tanto daño hace a las mujeres blancas. (Agboton 2005, 55)

Successivamente Agnès asserisce che non avrebbe mai immaginato che lo spagnolo Manuel, suo futuro marito, conosciuto presso la famiglia Kété, avrebbe scelto lei fra le tante ragazze con la pelle molto più chiara della sua che abitavano quella casa:

Además, yo nunca habría creído que Manuel pudiera fijarse en mí. Seguía teniendo mi complejo de «patito feo» y la casa de los Kété estaba llena de chicas mucho más claras que yo (¡porque su madre era mestiza!) y más bonitas; por lo tanto, creía que no tenía ninguna posibilidad. Estaba convencida de ello, os lo aseguro. Pero algo pasó, tal vez estuviera escrito que así debía ser. (Agboton 2005, 75)

In Media chiara e noccioline (2001) di Viola Chandra, pseudonimo di Gabriella Kuruvilla, nata a Milano da padre indiano e madre italiana, si individuano scene interessanti che includono lo sbiancamento della pelle e lo stiramento dei capelli, mediante strategie “più naturali” e meno pericolose rispetto a quelle fin qui esposte.

In alcuni passaggi del romanzo, autobiografico, doloroso e drammatico – che

in generale verso la negritudine. Solo Vera Lucía, grazie alla relazione sentimentale con il protagonista camerunese Abaga Mikwe, riuscirà a riconciliarsi con se stessa, ad accettarsi, ad

mette in luce la difficoltà delle seconde generazioni di immigrati nel trovare punti di riferimento e una propria identità, ponendo al centro il difficile rapporto con il cibo e i relativi disturbi alimentari della protagonista Valentina – emerge l’influenza delle figure genitoriali:

Ci si asciugava al sole. Ma io mi vergognavo dei miei capelli troppo ricci. E pensavo che anche mio padre, per quegli stessi ricci, si vergognasse di me. Allora quando siamo andati in macchina a trovare un suo amico, lassù nelle montagne, allora ho tenuto tutto il tempo la faccia fuori dal finestrino, in modo che il vento mi stirasse i capelli, e mio padre non si dovesse vergognare di me. (Chandra 2001, 84)

«E potevo anche mettere la faccia fuori dal finestrino per stirarmi i capelli ma bionda e bianca non lo sarei mai diventata» (Chandra 2001, 86), dice Valentina, esponendo subito dopo la soluzione trovata dalla madre per risolvere, almeno in parte, il “problema”, questa volta non schiarendo la pelle, quanto evitando di scurirla ancora di più:

Bianca? Per questo dei piccoli tentativi li aveva fatti mia madre… Quando tornavo dalle vacanze al mare, mi guardava incredula e sbigottita e mi diceva: «Mio Dio! Come sei nera!» (eh, già: la spiaggia, il mare, il sole… la melanina!, capita che qualcuno si abbronzi…). Così, dopo un po’ di volte, pensa che ti ripensa, ha trovato la soluzione: prima che io partissi si passava dalla profumeria e dopo aver comprato la crema contro le rughe per il viso, quella rassodante per il corpo, il barattolo contro la cellulite e la maschera per i capelli, il guanto di crine per il bagno, […] be’, in mezzo all’arsenale chimico spuntavano anche tre o quattro creme a protezione totale: lo schermo impermeabile ai raggi del sole che mi avrebbe avvolto durante le vacanze al mare. Bianca non sarei diventata, perlomeno rimanevo beige. Condividevo il suo desiderio. Ma adesso non ho capito: perché un marito nero sì e una figlia nera no? E se rimani incinta di un indiano pensi che il risultato possa essere rosa? (Chandra 2001, 87)

In modo simile interferisce nella sua vita un’altra figura adulta:

E, quando non c’era la mamma entrava in azione la nuova donna di papà, quella lombarda. Lei non aveva la mania della profumeria ma quella del parrucchiere. Per fare amicizia mi ci ha portato. Il suo regalo è stato un caschetto di capelli, ancora neri, ma perfettamente diritti, rimboccati sotto le orecchie e sulla fronte. Io, a lavoro finito, tornata a casa sua, mi sono guardata esterrefatta davanti allo specchio a tutta altezza dell’ingresso. Lei ha mostrato «il nuovo miracolo lombardo» a mio padre che ha detto: «Sta bene, è in ordine». Condividevo il suo desiderio. Tanto che fino a 26 anni mi sono stirata i capelli. E per andare a scuola mi dovevo svegliare mezz’ora prima e lavorare duro con phon e spazzola. (Chandra 2001, 87- 88)

Ma Valentina stessa, provando una sorta di rifiuto verso l’India, cercherà di diventare il più possibile italiana:

Da quella terra ero stata esiliata, e stringendo con forza il foglio di via rimanevo ferma, eseguendo gli ordini, nell’altra patria, l’Italia. Cercando di farla mia del tutto, non più solo a metà. Nonostante le apparenze che tentavo di camuffare con ogni sforzo, stirandomi i capelli, evitando di abbronzarmi. Una gran fatica, fisica ed economica: quintali di phon bruciati per il loro uso eccessivo, chili di creme a protezione totale spremute fino all’ultima goccia sul mio corpo. (Chandra 2001, 78)

Forme di instabilità identitaria che poi evolvono verso espressioni di ribellione: «Intorno a 16 anni ho iniziato a farmi le lampade: i primi germi di ribellione. Solo a fine maggio del ’95 i miei capelli sono tornati ad essere ricci» (Chandra 2001, 88). Ancora più dolorosa sembra la vicenda vissuta da Kym Ragusa, per metà italoamericana e per metà afroamericana, che in un dettagliato passo del memoir25

La pelle che ci separa (2008) racconta la sua prima esperienza di stiraggio dei

capelli presso il salone di parrucchiera di Antoinette:

Quel primo giorno, quel giorno in cui i miei capelli vergini sono stati stirati per la prima volta, Antoinette mi fece accomodare in una delle poltrone che sollevò un tantino con il piccolo pedale che si trovava alla base. Mi avvolse un asciugamano intorno al collo e me ne mise un altro sulle spalle. Per cominciare mi pettinò i capelli, sciogliendo i nodi con uno di quei pettini con il manico lungo che stavano a bagno in uno dei tanti contenitori di vetro pieno di un liquido blu antisettico. Ogni volta che trovava un nodo tiravo la testa indietro e lanciavo un urlo. Sta’ ferma

ora, diceva lei con voce dolce, non ci vorrà molto. Una volta pettinati, i

miei capelli stavano dritti in tutte le direzioni come la criniera di un animale selvatico in preda allo spavento. Antoinette li lisciò con olio tiepido, che poi mi strofinò sul cuoio capelluto. L’olio mi colava sulla fronte, dentro le orecchie; io cercavo di fermare le gocce con l’asciugamano e ogni volta Antoinette mi intimava di stare ferma. Poi indossò un paio di guanti di lattice e mi spalmò sulla testa una grossa quantità di liquido per il tiraggio, a base di ammoniaca, denso e cremoso come la maionese. L’odore era di qualcosa di chimico, niente di piacevole e femminile, qualcosa di duro e abrasivo come i prodotti che si usano per pulire i pavimenti in ospedale. Con il pettine distribuì il liquido su tutti i capelli, divisi in tante sezioni, prestando speciale attenzione alle radici, dove ne mise di più. Le radici erano la parte più difficile, irte sul mio cuoio capelluto come piccole spirali ribelli. Ed è proprio a questa resistenza che fanno riferimento gli eufemismi usati per definire il tiraggio: rilassare i capelli, sciogliere i ricci. Presto cominciò a bruciarmi il cuoio capelluto: avvertii dapprima un leggero prurito, poi all’improvviso ebbi come la sensazione che mi andasse a fuoco la testa. Allarmata, la supplicai di sciacquarmi via quel liquido. Ancora un

minuto, ho quasi finito, disse Antoinette con impazienza. Aspetta e vedrai quanto sei carina. La stessa cosa che mi aveva detto mia madre. Dopo

qualche altro minuto di sofferenza, Antoinette mi portò in una sala sul retro, dove mi lavò la testa massaggiandomi il cuoio capelluto così vigorosamente che pensai mi sarebbero caduti tutti i capelli. Quando ebbe finito mi asciugò con un asciugamano pulito. Misi la mano sotto l’asciugamano per toccarmi i capelli, non avevo ancora visto la metamorfosi. Erano scivolosi, come fili di spago bagnato. Tornammo allo

specchio e Antoinette mi pettinò ancora una volta, il pettine adesso scorreva con facilità. Abracadabra! I miei capelli erano lisci come l’olio, le radici piatte e flosce sul cuoio capelluto, le punte mi arrivavano fino alle scapole. Dopo avermi fatto sedere sotto il casco piena di bigodini enormi appuntati stretti contro il cuoio capelluto, e dopo avermi spazzolato i capelli con movimenti lunghi e teatrali, Antoinette mi lasciò tornare da mia madre. Mentre andavamo verso Harlem continuavo a scuotere la testa con i capelli che mi turbinavano intorno al viso. Da una parte mi piacevano, quei capelli nuovi, mi facevano sentire più grande – basta fiocchi e codini – ma era sconcertante quella sensazione di vulnerabilità che avvertivo ora con il cuoio capelluto esposto; e poi ero distratta dai capelli che mi toccavano le spalle, sembrava quasi che mi si stessero arrampicando addosso dei ragni. A Maplewood Carmen [la nuova moglie del padre di Kym] mi lavava i capelli una volta alla settimana e poi mi metteva dei grossi bigodini, tenendomi a sedere tra le gambe. Andavo a letto con i bigodini in testa, dormivo con il capo dolorosamente appoggiato alla plastica dura, le radici dei capelli tirate dai bigodini, le forcine che mi si infilavano nelle orecchie. Tutto questo processo metteva seriamente in discussione il mio tentativo di diventare un maschiaccio, quella speranza che, cancellando la connotazione di genere, avrei cancellato anche quella di razza. (Ragusa 2008, 2002-201)26

Ragusa (2008) immagine di copertina.

Quanto vissuto da Kym Ragusa si ripropone in modo piuttosto similare nel romanzo Denti bianchi (2000) di Zadie Smith,27 nata nel 1975 a Londra, da padre inglese e madre giamaicana. Protagonista di vari passaggi sul tema dello stiramento dei capelli, con l’obiettivo di conquistare un compagno di scuola, è Irie, figlia dell’inglese Archie e della giamaicana Clara che, seppur accetti in un primo momento il colore nero dei capelli, desidera ad ogni costo averli lisci, come sottolinea l’enumerazione di aggettivi che, in modo incalzante e in parte senza segni di interpunzione, scandisce la richiesta fatta alla parrucchiera: «Capelli lisci. Capelli lisci lunghi neri diritti sbattibili, scuotibili, movibili, toccabili, di quelli che il vento fa volare, di quelli che ci si può passare in mezzo le dita. Con la frangia» (Smith 2000, 283).

Nello stesso salone in cui si trova Irie molte donne nere “lottano” contro i propri ricci, tanto che si parla di una guerra ai capelli:

Qui, l’impossibile desiderio di avere i capelli lisci e “in movimento” era quotidianamente in lotta con la testarda determinazione del ricurvo follicolo africano; qui, ammoniaca, pettini caldi, mollette, forcine e semplice fuoco erano stati tutti arruolati per quella guerra e facevano del