3. LA SCRITTURA DELLA MIGRAZIONE AFRICANA IN SPAGNA
3.2 La tradizione africana: tra oralità e scrittura
3.2.5 L’oralità nella pagina scritta
L’africano intende intrecciare il desiderio di apertura verso i modelli occidentali, accogliendo il sapere moderno e i generi letterari ignoti alla tradizione orale, come il romanzo e il teatro scritto, con la spinta a mantenere vivo il proprio bagaglio culturale orale, esaltando in primis il racconto, con la sua forza di evidenziare i principi della saggezza ancestrale e di far rivivere episodi del passato (Gérard 1994, 39-56: 53).
Per riprendere Paul F. Bandia, proprio la «translation from an oral-tradition discourse into a written one, from a distant, alien or marginalized language culture into a majoritarian, dominant, metropolitan one» (2008, 38) crea influenze socio- culturali che diventano modelli di intercultura, laddove le composizioni moderne vengono rivestite dal sapore della tradizione, tanto da poter parlare di «“nuove frontiere” della Letteratura: ove, naturalmente, il termine “frontiera” non va recepito nell’accezione di “barriera”, di “divisione”, di “confine”, ma, viceversa, in quella di luogo di “passaggio”, di “scambio”, di “interrelazione”» (Santangelo 2013, 11-45: 17).
Allo stesso tempo, questa fusione di stili diversi può essere letta come specchio dell’instabilità del migrante, che non si riconosce come membro né della realtà di partenza né di quella d’arrivo (Adam 2011, 60-70: 65).
A partire da questa premessa, in questa sede si intende riflettere su come i tratti tipici della narrazione orale si manifestano nelle opere scritte dai migranti che – come osserva Cristina Lombardi-Diop in un suo contributo dedicato alla narrativa africana in lingua italiana – sembrano basarsi su un paradosso, poiché «l’identità autoriale del soggetto migrante implica la perdita della voce. È attraverso un atto di cancellazione dell’oralità che si afferma la presenza della scrittura e la visibilità dei migranti africani in Italia» (2005, 98-108: 99).
Un aspetto tecnico che tra l’altro va ad intrecciarsi con uno degli aspetti tematici che verranno analizzati, ovvero il motivo della famiglia, poiché l’approccio alla tradizione orale inizia proprio nell’ambito di ciascun nucleo familiare, come si vedrà con maggior attenzione analizzando l’opera Una vida de
cuento.
Graziella Favaro spiega come «la narrazione contribuisce infatti a passare e mantenere i riferimenti culturali, a ritrovare e verificare le “radici” che definiscono la storia familiare e collettiva, a rinsaldare i legami tra generazioni» (2002, 19-42: 23).
Inoltre l’amore familiare e la dimensione genealogica sono temi predominanti della tradizione orale; si enfatizza soprattutto l’amore verso la madre, mettendone in luce la tenerezza e le attenzioni, oppure l’amore delle madri verso i figli, espresso per lo più mediante le ninnenanne a loro cantate, in cui si accentuano l’affetto protettivo, l’orgoglio e la speranza (Okpewho 1994, 15-35: 23).
Lo studio delle opere degli scrittori migranti di origine africana invita quindi a soffermarsi sulla complementarietà fra la scrittura, centrale nella tradizione letteraria occidentale, e l’oralità, pilastro del patrimonio culturale d’origine. In questo modo si evidenzia, come afferma Inmaculada Díaz Narbona, che ci si trova di fronte a «escrituras múltiples, que no quieren (o no pueden) fijar/se en una única identidad como no lo quieren o pueden hacer sus autores» (2010, 239-252), scritture in cui il narratore riveste il ruolo di “traduttore”, in quanto costruttore di ponti fra culture, e il testo diviene «spazio eterologico che non ammette proprietà esclusive e escludenti ma soltanto l’unicità della sua resa» (Russo 2009, 79-89: 84).
scrittura e trasferendovi le tracce della narrazione orale, cercano sia di acquisire visibilità e trovare una collocazione all’interno della società d’arrivo, sia di rivendicare la propria autonomia e identità culturale (Ramadhani Mussa 2011, 231-246: 234); inoltre riterritorializzano e reinventano la lingua:
Así, el autor es un moderno griot que se enfrenta con la palabra escrita dándole una forma oral y una propensión hacia el compromiso y el didactismo. Su ser menor, por lo tanto, queda manifiesto en el intento de rescatar la tradición oral – una forma de narración subalterna en el mercado mundial – y en la manera en la que reterritorializa una lengua ajena a su cultura autóctona fagocitándola y reinventándola. (Nobile 2010a, 266-281: 269)
Si percepisce quindi come
los rasgos de la oralidad (repeticiones, reiteraciones frásicas, etc.) se trasladan a la escritura, y el producto final, pasa a cumplir la función estética de un discurso literario convencional que, debido a la capacidad comunicativa e intuición estética del escritor, conservan mucho de la expresividad oral. (Huareg Álvarez 2008, 37-63: 39)
Nel testo in lingua europea la presenza di elementi della tradizione orale africana – come linearità sintattica e temporale, parole locali di uso quotidiano, evocazione di immagini e storie, riferimenti alla natura e al mondo degli animali, aspetti metanarrativi – simboleggia dunque un filo d’unione tra più mondi: l’immigrato vi ritrova un legame con la cultura d’origine, il lettore europeo vi trova un elemento di novità e di arricchimento.
In questo modo il riflesso dell’oralità nella scrittura può aiutare a scalfire la sensazione, talvolta presente in alcuni scrittori migranti, di tradire la lingua materna (Gigotti 1998, 9-11: 11), ma anche, come spiega Paul F. Bandia, a stabilire una forma di resistenza nei confronti delle lingue coloniali:
In other words, intercultural writing as translation is an attempt to recreate in a dominant colonizing language the life-world of the colonized. Given the vast power differentials in postcolonial contexts, the fictionalizing of African orature in colonial languages can be seen as a movement of resistance to the hegemony of the colonial language, an attempt to redress the power inequality that continues to assign a minority status or a peripheral role to postcolonial literatures in the global literary space. Writing orality in fiction implies a double movement from an oral tradition to a writing culture and from a peripheral colonized language to an imperial or colonial language. (2008, 3)
Così, riguardo al suo romanzo Más allá del mar de arena (2005a) – che ha tutte le parvenze del racconto orale – Agnès Agboton in un’intervista afferma: «Cuando lo hacía pensaba que en vez de escribirlo lo estaba contando, oralmente, que es una imagen que me lleva a África: cuando estás al lado de la abuela, sentado en el suelo, escuchando historias».92
Non sempre comunque si tratta necessariamente di un lavoro di ricerca di riproduzione dell’oralità africana, bensì più spesso di una sua introduzione spontanea e naturale, che va ad intrecciarsi nella struttura del testo: «La oralidad de la cultura africana es una realidad que está allí. Es la base de nuestra literatura, es decir de todo nuestro saber. Y muchos de nosotros nos nutrimos de ella» (Rossini 2011, online).
Tale naturalezza nell’attingere al bagaglio culturale di provenienza è espressa anche da Younis Tawfik, di origini irachene, affermando che «uno scrittore straniero quando è lontano dalla sua terra e dalla sua cultura di appartenenza e si mette a scrivere in una lingua non sua, ovviamente si trova a precipitarsi in un patrimonio culturale che gli appartiene, che si porta appresso» (2005, 33-37: 33), ed è per questo che la scrittura disegna un ponte tra passato, presente e futuro, ma anche un ponte tra le culture.
92
Entrevista con Agnès Agboton, non firmata:
http://209.85.135.132/search?q=cache:EsveLwghoYJ:www.donostiakultura.com/upload/dossiers/ AGNES%2520AGBOTONbinta%2520PRENTSA%2520DOSIERRA.doc+donostiaKultura+intre vista+a+agn%C3%A8s+agboton&cd=1&hl=it&ct=clnk&gl=it (utlima consultazione marzo 2014).
In questo modo «l’oralità si fa scrittura» (Ramadhani Mussa 2011, 239) e sorge ciò che Kossi Komla-Ebri denomina oralitura, dove l’espressione stessa, unendo parte delle due parole “oralità” e “scrittura”, indica le scie lasciate dalla cultura orale nella pagina scritta, con le relative difficoltà:
L’oralitura non è altro che riportare l’orale nello scritto – anche se è difficile: nell’oralità c’è il tono della voce, l’espressione del viso, la gestualità, la partecipazione della persona con cui si colloquia, il libro istituisce un rapporto individuale, non più comunitario, però nella tradizione letteraria è possibile riportare secondo me il setaccio della memoria, ossia quelli (sic!) elementi portati dalla tradizione orale che sono la parabola, i proverbi, elementi che sono setacciatai nel tempo e rimangono nella letteratura, rimangono nella mente. Da noi si dice che è più importante quello che l’orecchio sente di quello che l’occhio vede. Perché quello che l’orecchio sente è stato tramandato. E il proverbio, l’oralità, non è altro che “l’insegnamento di ieri trasmesso a domani attraverso oggi”. (2009, 1-9: 8)
Seguendo ancora Komla-Ebri, il procedimento consiste pertanto nel recupero della parola orale passando per la scrittura:
Per me si tratta di tradurre una cultura orale in forma scritta, riprodurre le forme e le caratteristiche di una visione del mondo che nasce in forma orale, attraverso la scrittura e tornando, in qualche modo, a una nuova cultura orale.93
In un’intervista lo scrittore pone anche l’accento sulla non facile comprensione da parte di un occidentale dell’uso di tale tecnica narrativa, di tale ricerca dell’oralità:
93
La citazione di Kossi Komla-Ebri è tratta da Oraliture, appunti di letture migranti redatti con Giovanna Stanganello, http://ecoleofficina.files.wordpress.com/2012/02/officina-giovanna.doc
Quando uno fa un discorso orale tende a ripetere alcune cose, quando scrivo invece quello che è in più l’editor lo cancella, perché magari è ripetitivo, senza capire che è una ripetizione voluta. Ho avuto questo problema quando cercavo di ricreare il parlato, l’editor mi accusava di ripetermi troppo, senza capire che era volutamente scritto in quel modo. Un bisogno di riagganciarsi alla tradizione orale è un bisogno di ricongiungersi con la memoria tramite l’uso e il recupero di quelli che sono i detti, i proverbi, perché sono elementi della tradizione orale, è come setacciare la memoria collettiva. (Abati e Lorenzini 2011, online)
Si evidenzia così la necessità di
sfiorare la pelle del testo con sensibilità e accortezza, [che] signifca quindi agire a tutela della specificità del testo, accogliendone in particolare il bagaglio di immaginario di cui è portatore, e ponendo al centro dell’attenzione la compenetrazione di lingue e di culture che caratterizza il vissuto – e quindi anche la scrittura – di chi scrive. (Panzarella 2013, 203-211: 204)
I riflessi dell’oralità nella scrittura emergono attraverso vari elementi, che si possono manifestare a livello sintattico, lessicale e di contenuto; allo stesso tempo, però, il passaggio dell’oralità nella pagina scritta manifesta anche dei limiti, come la perdita della «interazione fra il performer e il pubblico» (Furniss 2005, 10-17: 10), e il venir meno dell’“identità prosodica”, ovvero il ritmo, la musica e la mimica (Chevrier 1990, 204), così come succede nei veri e propri processi di trascrizione dei testi orali, dove viene a perdersi la ricchezza dell’oralità con tutte le sue sfumature (Álvarez Muro 2001, online).
Incisive in tal proposito sono le parole di Agnès Agboton che, nel Prologo alla sua raccolta di racconti Eté Utú (2009a) recuperati grazie a numerose registrazioni nel corso degli anni presso le popolazioni dell’attuale Repubblica del Benin, afferma che:
Es dificil transcribir lo oral, porque se pierde en este traslado una infinitad de matices, porque ni el gesto, ni el tono, ni la malicia en la
mirada del narrador sin plasmables; y no lo son, tampoco, las risas y la mayoría de las interrupciones de la alboroza audiencia. Es difícil, también, traducir a un castellano de implacable gramática el género neutro absoluto que rige en las lenguas en que estos cuentos me fueron contados (gun, fon o yoruba...). Pero lo he intentado. (2009b, 9-11: 10)
Sul piano sintattico, tendenzialmente l’oralità si esprime grazie a una struttura lineare e semplice, di tipo paratattico, che predilige l’uso di frasi coordinate o subordinate non complesse (Vanvolsem 2011, 1-14: 10; Brunzin 1998-1999, 58; Bernardelli, Pellerey 1999, 112; Bernardelli, Ceserani 2005, 12).
A livello lessicale – come già visto parlando della migrazione come un processo che abbraccia anche lo spostamento di lingue e parole – i testi, scritti nella lingua d’arrivo, ospitano termini della lingua materna, dando vita a quella che Mia Lecomte definisce una terza lingua, la lingua letteraria:
È anzi il rapporto costante tra la lingua madre e la lingua d’uso che garantisce la qualità della terza lingua, quella letteraria, e l’incertezza delle parole deve essere costantemente ancorata alla propria soggettività umana e culturale, in una parola, poetica. È una pratica dolorosa, il cui travaglio si stratifica in una mappatura di cicatrici, ma è proprio questo a garantirne l’autenticità dello spessore. (2006, 11)
Per questo, quasi sempre i testi della migrazione sono caratterizzati per la presenza, più o meno consistente, di termini nelle lingue materne degli autori, in modo specifico di parole «che identificano abiti, cibi e figure mitologiche di cui è piena la vita in Africa» (Di Lucchio 2006, 435-461: 450). Ciò accade anche perché spesso a lingue diverse corrispondono concetti diversi da cultura a cultura, da società a società, quindi in certi casi la parola o l’espressione possono essere inserite nel testo solo nella loro lingua originale, e il loro significato verrà sciolto tramite un glossario, una parafrasi, o una nota a pié di pagina. Riguardo a queste “strategie esplicative”, Paul F. Bandia sostiene come gradualmente gli autori stiano preferendo l’inserzione di spiegazioni all’interno del testo, per evitare ai
lettori di interrompere il filo del discorso e garantire loro una migliore comprensione (2008, 109).
In tal proposito è interessante riflettere sul fatto che «the use of indigenous words and expressions constitutes a problem not only for non-African readers, but also for other Africans who may not be familiar with the author’s, or the character’s, ancestral language» (Bandia 2008, 109).
A livello contenutistico, nelle opere prodotte dai migranti spesso affiorano in modo evidente i «textos culturales vivos africanos: cantos, bailes, proverbios, mitos, leyendas, gestos, adivinaciones» (Lavou Zoungbo 2010, 122-139: 125), tutti elementi metanarrativi che, come spiega Eileen Julien, costituiscono le forme letterarie più autentiche poiché hanno dei precedenti nella cultura africana (2003, 155-179: 165), ovvero si manifesta un «processo di assorbimento, da parte del romanzo, di testi letterari codificati» (Brunzin 1998-1999, 139), quelli che il senegalese Alioune Tine definisce etnotesti (1985, 99-121: 105).