antiabuso.
Un’ulteriore e fondamentale tappa dell’evoluzione giurisprudenziale in tema di abuso del diritto è stata segnata dalle “sentenze gemelle” n. 30055, 30056 e 30057 del 2008, pronunciate dalle Sezioni Unite.
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Anche queste pronunce hanno affermato l’operatività, nell’ordinamento interno, di un generale principio antiabuso non scritto e confermato che la sua fonte è da rinvenire nelle pronunce della Corte di Giustizia, per quanto riguarda il settore dei tributi armonizzati. Tuttavia, limitatamente al settore dei tributi non armonizzati, la fonte non è stata più rinvenuta nel diritto comunitario, bensì nei principi di capacità contributiva e di progressività di cui all’art. 53 Cost. Con una suggestiva espressione97 è stato detto che le tre sentenze citate hanno sancito lo
“svezzamento della clausola generale antielusiva dalle fonti comunitarie”. La Suprema Corte ha quindi accolto e condiviso le perplessità della dottrina, nate dalla precedente sentenza n. 21221/2006 e relative all’applicazione del divieto comunitario di abuso del diritto anche nel settore dei tributi non armonizzati, i quali non rientrano nel diritto dell’Unione Europea ma nella competenza esclusiva dei singoli Stati.
Il richiamo all’art. 53 Cost. è stato reso necessario per consentire il contrasto dei comportamenti abusivi non rientranti in nessuna norma antielusiva specifica, ma soprattutto per aprire la via al contrasto di quelle fattispecie che, pur rientranti nel campo di applicazione di specifiche norme antiabuso, erano state poste in essere prima della loro entrata in vigore (non a caso, le controversie definite dalle tre citate sentenze avevano proprio ad oggetto operazioni di dividend washing e dividend stripping compiute prima dell’introduzione nell’ordinamento di una norma antielusiva). Infatti, affermare che la clausola generale antiabuso trova il proprio fondamento nell’art. 53 Cost. significa riconoscere, nel contempo, che tale clausola ha efficacia retroattiva e che è idonea ad operare fin dal momento dell’entrata in vigore della Costituzione, ossia dal 1° gennaio del 1948. Da tale
data “aleggerebbe” sull’ordinamento tributario la clausola antiabuso98.
La Corte ha specificato inoltre che il collegamento con l’art. 53 Cost. non avrebbe reso incompatibili le specifiche norme antielusive, vigenti
97 A. LOVISOLO L’art. 53 Cost. come fonte della clausola generale antielusiva e il ruolo delle valide
ragioni economiche tra abuso del diritto, elusione fiscale ed antieconomicità delle scelte imprenditoriali,
in GT – Riv. Giur. Trib, 2009, pag. 230.
98 G. MARONGIU, L’abuso del diritto nella legge di registro tra principi veri e principi asseriti, in
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nell’ordinamento interno, rispetto alla clausola generale antiabuso; semplicemente, le prime avrebbero dovuto essere considerate il mero sintomo e la conferma del principio generale. Ne derivava, quindi, che un’elencazione di operazioni elusive, quale quella contenuta nel terzo comma dell’art. 37-bis, non poteva essere considerata tassativa, ma meramente esemplificativa.
Quanto alla definizione del concetto di abuso, la Corte ha stabilito che “non può non ritenersi insito nell’ordinamento, come diretta derivazione delle norme costituzionali, il principio secondo cui il contribuente non può trarre indebiti vantaggi fiscali dall’utilizzo distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un vantaggio fiscale, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustificano l’operazione, diverse dall’aspettativa di quel risparmio fiscale”.
La nozione di comportamento abusivo fornita da queste sentenze non è stata rivoluzionaria ed innovativa rispetto a quella tradizionale, già contenuta nella normativa interna ed elaborata anche dalla giurisprudenza comunitaria. Tuttavia, a differenza delle precedenti sentenze emanate nello stesso anno 2008, sembra essere tornato in auge un elemento costitutivo dell’elusione che era stato in passato trascurato dalla Cassazione. Si tratta dell’aggiramento di obblighi o divieti previsti dall’ordinamento, cui faceva riferimento l’art. 37-bis e che sembra essere stato evocato, nelle pronunce in questione, dall’espressione “utilizzo distorto di strumenti giuridici”.
Pare, inoltre, che i supremi giudici abbiano tenuto conto di una delle principali critiche in cui erano incorse le sentenze pronunciate negli anni precedenti:la svalutazione dell’elemento oggettivo, rappresentato dal carattere necessariamente indebito che deve avere il vantaggio fiscale derivante dall’abuso. Ricompare, infatti, nel passo della sentenza appena riportato, l’espressione “indebiti vantaggi fiscali” e la Corte, nel chiarire il significato dell’avverbio “abusivamente”, che pure ha utilizzato nella sua pronuncia, ha specificato che esso indica l’utilizzo
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delle norme fiscali per un fine diverso da quello per cui sono state create99;
tuttavia, questo principio non è stato ulteriormente sviluppato nella pronuncia in esame ed anzi è stato nuovo trascurato dalle decisioni successive.
Una parte della dottrina ha accolto con favore il richiamo al principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost., il quale, rappresentando ad un tempo
il presupposto, il parametro ed il limite massimo del prelievo100, applica in
materia fiscale il principio di uguaglianza sostanziale di cui all’art. 3 Cost. In quest’ottica, l’art. 53 Cost. fungerebbe da clausola generale di giustizia nella ripartizione del carico fiscale tra i consociati, impedendo che le norme tributarie siano aggirate e dando attuazione all’obbligo di concorso alle spese pubbliche,
che deve gravare su tutti indistintamente101.
Ma la dottrina maggioritaria non è stata dello stesso avviso e ha criticato la scelta del supremo consesso. Essa ha ricordato infatti che, dopo l’entrata in vigore della Costituzione, è stata delineata la distinzione tra norme meramente
programmatiche, rivolte essenzialmente al legislatore ordinarioaffinché questi vi
si conformi, e norme immediatamente precettive, suscettibili di regolare direttamente rapporti giuridici, senza vedere condizionata la loro concreta applicabilità ad un intervento della legge ordinaria. L’art. 53, insieme ad altre disposizioni costituzionali, è stato da subito annoverato nell’ambito della prima categoria e tanti sono stati gli sforzi per ricondurlo nell’alveo delle norme precettive. Gli studiosi di economia finanziaria, infatti, negavano che il concetto di capacità contributiva fosse idoneo a chiarire realmente il significato della disposizione costituzionale, a causa della sua indeterminatezza anche in campo economico. Dal canto suo, la dottrina costituzionalistica e tributaristica negava che tale concetto fosse dotato di un proprio autonomo contenuto normativo, relegando conseguentemente l’art. 53 a semplice direttiva costituzionale rimessa
99 A. RENDA, cit., pag. 1306.
100 F. MOSCHETTI, Enc. Giur. Treccani, voce Capacità contributiva. 101 G. FALSITTA, L’interpretazione antielusiva, cit., pag. 293 ss.
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all’apprezzamento del legislatore ordinario102. In altre parole, la norma in esame
avrebbe avuto l’unica funzione di imporre al legislatore di fare in modo, nella predisposizione delle leggi tributarie, che a parità di capacità contributiva corrispondesse parità di imposizione. Con il fondamentale contributo della Corte Costituzionale, è stata poi superata la distinzione tra norme programmatiche e
precettive103 e successivamente è stato chiarito il significato del principio di
capacità contributiva. In particolare, l’Alta Corte ha abbandonato l’orientamento secondo cui “qualsiasi situazione di fatto può in via di principio essere suscettibile di imposizione” ed ha affermato che, in virtù del principio in esame, “ogni prelievo tributario deve avere causa giustificatrice in indici concretamente rivelatori di ricchezza”104 ed “il riferimento di quel presupposto alla sfera
dell’obbligato deve risultare da un collegamento effettivo e a un indice effettivo deve farsi capo per determinare la quantità di imposta che da ciascun obbligato si può esigere”105. Ebbene, considerato che solo dopo queste turbolente vicende
all’art. 53 Cost. è stata attribuita una specifica portata normativa, è apparso criticabile, secondo l’indirizzo dottrinale citato, affermare che tale norma è madre di un principio da sempre immanente nell’ordinamento tributario, quale quello dell’abuso del diritto106.
Inoltre, il richiamo all’art. 53 nel suo complesso è sembrato in parte inconferente. Il principio di progressività, pur sancito da questa disposizione, di certo non può essere invocato per contrastare l’elusione di tributi che progressivi non sono. A rigore, la Cassazione avrebbe potuto privilegiare una diversa
soluzione107: affermare l’immanenza nell’ordinamento fiscale di una clausola
generale antielusiva, senza bisogno di ancorarla ad alcuna enunciazione espressa, neanche a livello costituzionale. Si è osservato che il generale principio che vieta
102 G. MARONGIU, L’abuso del diritto nella legge di registro tra principi veri e principi asseriti, cit.,
pag. 18.
103 Ci si riferisce alla fondamentale sentenza costituzionale n. 1/1956. 104 Così Corte Cost., sent. n. 120/1972.
105 Così Corte Cost. sent. n. 50/1965.
106 Secondo F. TESAURO, Elusione e abuso nel diritto tributario italiano, cit., pag. 13, le norme
costituzionali non sono self-executing, ,ma delle semplici norme-parametro che esprimono principi ai quali il legislatore deve conformarsi.
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ai singoli di abusare delle prerogative riconosciute dal sistema è insito in qualsiasi ordinamento, anche se nessuna norma si esprime esplicitamente in tal senso. Emblematica al riguardo è l’esperienza comunitaria, in cui la Corte di Giustizia ha riconosciuto la vigenza di un generale principio antiabuso senza rinvenirlo in specifiche disposizioni del diritto dell’Unione Europea. In aggiunta a ciò, occorre rilevare che se l’art. 53 Cost. ha la funzione di collegare il potere impositivo alla manifestazione di una certa capacità contributiva, è pur vero,
come ha osservato il Melis ne “L’interpretazione nel diritto tributario”108, che
l’attuazione di questa disposizione passa attraverso l’art. 23 Cost., il quale impone il rispetto del principio di riserva di legge in materia tributaria. Proprio perché nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge (art. 23 Cost.), allora deve essere il legislatore, la legge, a disciplinare gli elementi essenziali del tributo e quindi tutti gli aspetti correlati alla determinazione della base imponibile e dell’imposta. L’Autore da ultimo citato ha osservato che, se fosse l’interprete a poter superare la forma giuridica di un negozio asseritamente elusivo ragionando in termini di equivalenza di effetti economici di una fattispecie, ciò determinerebbe una integrazione della disciplina del presupposto del tributo riservata solo e soltanto, in virtù dell’art. 23 Cost., al legislatore. Questa soluzione confliggerebbe anche con il principio della certezza del diritto. Il principio di riserva di legge, infatti, tramite la predeterminazione in via legislativa dei fatti impositivi, non è soltanto volto a garantire la democraticità delle scelte normative in campo fiscale, ma è volto anche ad assicurare che il contribuente possa conoscere in anticipo (prima, cioè, di compiere una certa operazione) quali carichi tributari deriveranno dal
perfezionamento della fattispecie prescelta109.
Evidentemente, la Corte di Cassazione è stata consapevole della necessità di assicurare il rispetto dell’art. 23 Cost., ma la conclusione che essa ha cercato di dare a questa problematica non appare convincente. In maniera alquanto
108 G. MELIS, cit., pag. 270.
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frettolosa, infatti, essa ha affermato che il riconoscimento di un generale divieto di abuso del diritto nell’ordinamento tributario non si traduce nella imposizione di ulteriori obblighi patrimoniali non derivanti dalla legge, bensì nel disconoscimento degli effetti abusivi di negozi posti in essere al solo scopo di eludere l’applicazione di norme fiscali. Tutto qui. Null’altro ha detto, al riguardo,
la Suprema Corte. In realtà, si è osservato110 che l’applicazione del principio
generale antiabuso comporta sicuramente l’imposizione di obblighi patrimoniali non previsti dalla legge, in quanto sostanzialmente assoggetta ad imposizione un presupposto diverso rispetto a quello previsto dalla norma elusa, pervenendo di fatto ad una integrazione, in via interpretativa, di quest’ultimo; ciò che dovrebbe essere riservato soltanto alla legge.