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L’evoluzione normativa: l’art 10 della legge n 408/1990

L’art. 10 della legge n. 408/1990 stabiliva che “È consentito all’amministrazione finanziaria disconoscere i vantaggi tributari conseguiti in operazioni di concentrazione, trasformazione, scorporo, riduzione di capitale, liquidazione, valutazione di partecipazioni, cessione di crediti e cessioni o valutazioni di valori mobiliari poste in essere senza valide ragioni economiche allo scopo esclusivo di ottenere fraudolentemente un risparmio d’imposta”47.

L’entrata in vigore di questa norma ha permesso di tracciare una linea di confine tra elusione fiscale illegittima, “elusione fiscale legittima” e legittimo risparmio d’imposta (pianificazione fiscale o tax planning).

47 Per la verità, in base alla formulazione originaria la norma consentiva all’Amministrazione finanziaria

di “disconoscere a fini fiscali la parte di costo delle partecipazioni sociali sostenute e comunque i

vantaggi tributari conseguiti in operazioni di fusione, concentrazione, trasformazione, scorporo e riduzione di capitale poste in essere senza valide ragioni economiche ed allo scopo esclusivo di ottenere fraudolentemente un risparmio d'imposta”. Nel 1996, il testo dell'articolo 10 della legge 408/90 è stato

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Il primo fenomeno si verificava quando sussistevano i tre elementi strutturali, considerati nell’ultima parte della disposizione (assenza di valide ragioni economiche, scopo esclusivo di ottenere un risparmio d’imposta e modalità fraudolenta utilizzata per ottenerlo), sui quali si tornerà oltre, e veniva effettuata una delle operazioni da essa specificamente contemplate.

Il secondo fenomeno abbracciava i casi in cui ricorrevano i tre elementi strutturali, ma l’operazione posta in essere non rientrava tra quelle specificamente prese in considerazione.

Infine, la pianificazione fiscale o tax planning, che conduce ad un legittimo risparmio d’imposta, ricorreva quando il contribuente organizzava la sua attività in modo tale che la base imponibile dichiarata fosse la minore possibile, non ricorrendo gli elementi strutturali dell’elusione di cui al primo comma dell’art. 10 l. cit.. L’elusione fiscale non deve essere confusa, dunque, con l’erosione d’imposta, consistente in una minore imposizione prevista per certe fonti di reddito, ma derivante non da comportamenti del contribuente a ciò strumentali bensì da precise scelte effettuate dal legislatore, il quale, per perseguire finalità estranee alla logica del tributo, prevede l’applicazione di particolari esenzioni ed agevolazioni (si pensi alla previsione di aliquote più basse di quelle ordinarie,

volte a consentire lo sviluppo di imprese in aree economicamente depresse)48.

Ritornando all’art. 10 l. n. 408/1990, preliminarmente vanno fatti dei rilievi

circa le origini eterogenee49 della norma in commento.

Innanzitutto, parte della dottrina ha stato osservato50 che la disposizione in

esame era collegata all’art. 11, comma 1, lett. A), direttiva CEE n. 434/1990 (c.d. “direttiva fusioni”) “relativa al regime fiscale comune da applicare alle fusioni, alle scissioni, ai conferimenti d’attivo agli scambi d’azioni concernenti società di Stati membri diversi”. A norma del suddetto articolo “Uno Stato membro può rifiutare di applicare in tutto o in parte le disposizioni dei titoli II, III, e IV o revocarne il beneficio qualora risulti che l’operazione di fusione, di scissione, di

48 “Erosione”, Enc. Giur. Treccani.

49 M. P. TABELLINI, Fusione di società ed elusione d’imposta, in Rass. Trib., 1994, pag. 1133 ss. 50 M. ANDRIOLA, cit., pag. 1906.

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conferimento d’attivo o di scambio d’azioni: a) ha come obiettivo principale o come uno degli obiettivi principali la frode o l’evasione fiscale; il fatto che una delle operazioni di cui all'articolo 1 non sia effettuata per valide ragioni economiche, quali la ristrutturazione o la razionalizzazione delle attività delle società partecipanti all'operazione, può costituire la presunzione che quest'ultima abbia come obiettivo principale o come uno degli obiettivi principali la frode o l'evasione fiscali[…]”.

Appare evidente che la nuova norma introdotta nel ’90 recepiva alcuni elementi rilevanti enunciati in quella di matrice comunitaria, quali il riferimento alla frode e alla condizione che le operazioni contestate fossero prive di valide ragioni economiche. A prima vista, un elemento in comune avrebbe potuto essere ravvisato nello scopo elusivo, richiamato da entrambe le disposizioni. In realtà, l’osservazione è vera solo se ci si limita a questo, a considerare cioè il riferimento allo scopo, senza andare ad indagare l’intensità che l’elemento soggettivo doveva assumere. Se ci si spinge invece ad una tale indagine, si osserva agevolmente come l’art. 10 l. n. 408/1990 faceva riferimento al carattere esclusivo che necessariamente doveva sorreggere la condotta del contribuente,

affinché potesse essere qualificata come elusiva; diversamente, l’art. 11 della

direttiva comunitaria richiedeva la semplice prevalenza dello scopo elusivo. Anche a voler prescindere dalle pagine e pagine che la dottrina, soprattutto in tempi recenti, ha speso per sottolineare la differenza tra scopo prevalente, da un lato, e scopo essenziale o esclusivo, dall’altro, la non coincidenza tra le due espressioni balza subito agli occhi, in quanto il giudizio di prevalenza dello scopo elusivo è molto diverso da quello volto ad accertare l’esclusività o l’essenzialità del predetto scopo. Il primo comporta un sindacato più intenso del secondo sul processo intenzionale che ha mosso il contribuente ad agire, in quanto obbliga l’interprete a verificare, in maniera squisitamente discrezionale, che nelle intenzioni del contribuente lo scopo elusivo abbia avuto un peso maggiore, anche se soltanto di poco, sugli altri fini che hanno ispirato la condotta; per converso, l’accertamento dell’essenzialità o addirittura dell’esclusività dello scopo

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comporta minore discrezionalità in capo all’interprete. Perciò, a modesto avviso di chi scrive, relativamente all’elemento soggettivo la disciplina posta dalla direttiva comunitaria e quella di cui all’art. 10 l. 408/90 non coincidevano.

In secondo luogo, la formulazione della clausola risultante dall’art. 10 appariva riprendere il progetto antielusione contenuto nel disegno di legge n. 5108 del 1990, relativo esclusivamente alle operazioni di fusioni societarie; con l’emanazione della nuova norma, il legislatore non ha fatto altro che estendere una disposizione concepita esclusivamente per operazioni di fusione ad altre specifiche operazioni societarie. Con il risultato che la nuova norma antielusiva non era in grado di contrastare indistintamente tutti i fatti di elusione posti in essere dal contribuente e nemmeno tutte le operazioni elusive che una società potesse effettuare, ma soltanto alcune, specifiche, operazioni societarie, in particolare quelle compiute sul capitale sociale.

Procedendo all’analisi del testo dell’art. 10 l. n. 408/1990, come accennato tre erano gli elementi costitutivi della condotta di elusione: l’assenza di valide ragioni economiche, lo scopo esclusivo di ottenere un risparmio d’imposta e la modalità fraudolenta utilizzata per ottenerlo.

Secondo la dottrina e la giurisprudenza maggioritarie, il requisito delle valide ragioni economiche doveva e deve (posto che è stato ripreso dalle più moderne clausole antielusione) essere inteso in senso soggettivo, come uno scopo soggettivo extrafiscale non marginale, che da solo (indipendentemente cioè dalla prospettiva di un vantaggio fiscale) spingerebbe il contribuente ad agire. Esso richiama la dottrina statunitense del “business purpose”.

In base al secondo elemento, un’operazione poteva essere considerata come elusiva soltanto se l’unica finalità perseguita dal contribuente consisteva nel conseguimento di un risparmio d’imposta.

Tuttavia, il profilo davvero problematico era rappresentato dal terzo elemento costitutivo dell’elusione, ossia la modalità necessariamente fraudolenta che doveva caratterizzare l’agire del contribuente, ed in particolare dall’uso

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dell’avverbio fraudolentemente. Secondo alcuni51, con esso il legislatore avrebbe

voluto rinviare alla frode intesa in senso penalistico, caratterizzata da artifici e raggiri. Il corollario di questa impostazione era che, affinché una condotta potesse qualificarsi come elusiva, essa avrebbe dovuto costituire un reato quale la

truffa, la frode fiscale o le false comunicazioni ai soci, o quanto meno avrebbe

dovuto essere caratterizzata da artifici o raggiri; e in capo all’Amministrazione finanziaria sarebbe gravato l’onere di provare il dolo del soggetto attivo dell’illecito penale52. In realtà, il ricorso ad artifici o a raggiri è estraneo alle

modalità con cui il contribuente realizza un’operazione elusiva; tale richiamo rischia di confondere il fenomeno elusivo con quello evasivo. Nell’ambito dell’evasione fiscale, il contribuente cerca di occultare un presupposto impositivo già verificatosi, o di ridurne artificiosamente l’entità, e a tal fine può avvalersi di mezzi fraudolenti. Tramite l’uso di questi ultimi, infatti, egli riesce a realizzare una violazione diretta delle norme fiscali, rappresentando al Fisco una situazione diversa da quella reale. Invece, fin quando si resta nell’ambito dell’elusione

d’imposta, il contribuente agisce, come è stato detto, “alla luce del sole”53, senza

occultare un presupposto già verificatosi ma cercando di farne nascere alcuno oppure uno diverso, ponendo in essere un comportamento che è conforme alla lettera della legge ma che ne tradisce lo spirito. Come ha sottolineato autorevole

dottrina54, se l’avverbio “fraudolentemente” fosse stato inteso in senso

penalistico e quindi fosse stata necessaria la sussistenza di artifizi o raggiri, ove

questi ultimi fossero stati carenti nel caso concreto un’operazione, pur posta in essere senza valide ragioni economiche e allo scopo esclusivo di ottenere un risparmio d’imposta, non sarebbe rientrata nell’ambito di applicazione dell’art.

10 e non sarebbe stata qualificabile come elusiva; il che sarebbe apparso

51 A. TOPPAN, Elusione fiscale e sanzioni penali, in Rass. Trib., 1994, pag. 205; A. TRIVOLI, Contro

l’introduzione di clausola generale antielusiva nell’ordinamento vigente, in Dir. Prat. Trib., 1992, pag.

1366.

52 M. ANDRIOLA, op. cit., pag. 1905.

53 R. LUPI, L’elusione come strumentalizzazione delle regole fiscali., in Rass. Trib., 1994; F.

TESAURO, Istituzioni di diritto tributario, Parte generale, Milano, 2006, pag. 249; M. ANDRIOLA, op. cit., pag. 1905; S. FERRETTO, Le operazioni societarie e la norma antielusione, in Riv. dir. trib., 1992, pag. 432.

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inaccettabile. Anzi, a ben vedere la norma non sarebbe stata mai applicabile,

posto che gli artifici e i raggiri sono sempre estranei alla condotta elusiva55, per

cui la relativa previsione sarebbe stata, sotto questo profilo, del tutto contraddittoria. Inoltre, il richiamo agli artifizi o raggiri non era contenuto neanche nella normativa e giurisprudenza comunitarie, cui il predetto art. 10 è stato in parte ispirato. Il ripudio di qualsiasi riferimento alla frode di matrice penalistica è stato affermato in quegli anni anche dal SECIT, il Servizio Centrale degli Ispettori Tributari, che svolgeva compiti di studio e controllo dei fenomeni

fiscali56. Con la delibera n. 105 del 1994, analizzando proprio l’art. 10 della legge

n. 408/1990, l’ente ha affermato che “va escluso che l’avverbio fraudolentemente esprima qualcosa di più della connotazione complessiva dell’operazione come abuso dello strumento negoziale. In altri termini, esso non introduce nella fattispecie alcun ulteriore elemento riconducibile all’accezione penalistica dell’artificio o del raggiro”.

È prevalsa dunque, nella dottrina dell’epoca ed anche nella prassi amministrativa, la tesi secondo cui l’avverbio in questione dovesse essere riferito alla fraus legis di matrice civilistica, regolata dall’art. 1344 c.c., rinviando ad un oggettivo aggiramento di una norma impositiva tramite l’“abuso dello strumento negoziale”, secondo l’espressione utilizzata dal SECIT. Si è detto che ragionando in tal modo la clausola antielusiva di cui all’art. 10 avrebbe perso la sua utilità, in quanto, per combattere il fenomeno dell’elusione, sarebbe bastata la semplice applicazione dell’art. 1344 c.c. . Ma, a sommesso avviso di chi scrive, non sembra che quest’ultima osservazione possa essere condivisa. Infatti, se si considerano i relativi effetti, mentre l’art. 10 l. n. 408/1990 prevedeva il

55 R. LUPI, Prime ipotesi in tema di norma antielusione sulle operazioni societarie (art. 10 legge

408/1990), in Riv. dir. trib., 1992, pag. 447; F. PAPARELLA, Riflessioni in margine all’art. 10 della legge 1990, n. 408, relativo alla ristrutturazione delle imprese, in Dir. prat. trib., 1995, pag 1848 ss.; G.

ZOPPINI, Fattispecie e disciplina dell’elusione nel contesto delle imposte reddituali, in Riv. dir. trib., 2002, pag. 92, secondo cui se l’avverbio fraudolentemente doveva essere inteso in senso penalistico si sarebbe stati in presenza di “un elemento ontologicamente incompatibile con la condotta elusiva, cioè la

predisposizione di uno schermo, di un artificio, […] che viene posto tra la realtà e l’osservatore, ossia il compimento di atti fittizi, che non possono essere coniugati con la realizzazione della condotta elusiva, al punto da rendere la norma de qua del tutto contraddittoria”.

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disconoscimento dei vantaggi tributari come conseguenza della condotta fraudolenta che presentasse gli specifici requisiti contemplati dalla norma, l’art. 1344 c.c. prevede la sanzione della radicale nullità del negozio giuridico fraudolento. Sanzione che, si ripete, è nel contempo eccessiva ed insufficiente per gli interessi del Fisco. Dunque, l’avverbio “fraudolentemente” doveva essere inteso in senso civilistico, comportando così uno specifico vantaggio: la fraus legis civilistica sarebbe stata applicabile al settore fiscale, senza però portare con sé l’applicazione della sanzione della nullità.

Una volta accertata la presenza degli elementi strutturali dell’elusione ed il compimento di una delle operazioni espressamente contemplate dal primo comma, l’art. 10 l. n. 408/1990 stabiliva che “È consentito all’Amministrazione finanziaria disconoscere i vantaggi tributari conseguiti”. L’effetto derivante dalla qualificazione di un’operazione come elusiva, nel vigore della norma in commento, era rappresentato dal disconoscimento dei vantaggi tributari derivanti dall’aggiramento della norma impositiva. L’Amministrazione finanziaria poteva, cioè, non tener conto dei suddetti vantaggi e procedere al recupero delle imposte risparmiate tramite l’operazione elusiva. Quest’ultima, per il resto, restava valida ed efficace erga omnes.

Un’ultima notazione si intende rivolgere all’articolo in esame. Esso, nella sua parte iniziale e almeno apparentemente, attribuiva all’Amministrazione finanziaria una semplice facoltà di disconoscere i vantaggi fiscali derivanti dall’operazione elusiva, non prevedendo espressamente un perentorio obbligo in tal senso. La discrezionalità che la norma sembrava riconoscere al Fisco doveva essere però correttamente intesa: si trattava, infatti, di discrezionalità tecnica, non di discrezionalità assoluta, suscettibile di sfociare in vero e proprio arbitrio. L’Ufficio impositore, nel valutare l’elusività di un’operazione, poteva adottare i

criteri tecnici che riteneva più idonei e adeguati allo scopo57, ma quando

57 E. CASETTA, Manuale di diritto amministrativo, Giuffrè, 2003, pag. 329-330, secondo cui la

discrezionalità tecnica “è la possibilità di scelta che spetta alla amministrazione allorché sia chiamata a

qualificare fatti suscettibili di varia valutazione, e si riduce ad un’attività di giudizio a contenuto scientifico. Molto spesso, infatti, tra i presupposti fissati dalla legge per l’esercizio del potere

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l’elusione era accertata esso non poteva esimersi dall’applicare l’art. 10 l. n. 408/1990, così contestando il comportamento elusivo.