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L’evoluzione della giurisprudenza di legittimità in tema di elusione fiscale:

L’introduzione dell’art. 37-bis non ha posto la parola “fine” al problema del contrasto dell’elusione fiscale. La disposizione consentiva infatti di contrastare solo le specifiche operazioni contemplate nel suo terzo comma, ove presentassero gli elementi strutturali dell’elusione e comunque a patto che fossero state poste in essere successivamente alla sua entrata in vigore. Il legislatore tributario, infatti, non ha attribuito né all’art. 10 della legge 408 (che risale al 1990), né all’art. 37- bis D.P.R. n. 600/1973 (introdotto, si ricorda, nel 1997) efficacia retroattiva, dunque è sorto il problema di individuare il particolare trattamento da riservare a quei comportamenti elusivi posti in essere prima dell’entrata in vigore delle nuove previsioni.

In mancanza di una clausola generale antielusiva, nei primi anni del 2000 diverse sono state le soluzioni proposte dall’Amministrazione finanziaria e dal S.EC.I.T.: dall’applicabilità della frode alla legge civilistica di cui all’art. 1344 c.c., si è passati ad invocare l’istituto dell’interposizione ex. art. 37, co. 3 del D.P.R. 600/1973 (che consente di accertare i “redditi di cui appaiono titolari altri soggetti”), fino a propugnare di far leva sulla nozione di redditi “sostitutivi” ai sensi dell’art. 6, co. 2, del TUIR (che si riferisce ai “proventi conseguiti in sostituzione dei relativi redditi”, considerandoli “redditi della stessa categoria di quelli sostituiti”)75.

Investita delle relative questioni, la Suprema Corte in una prima fase ha sostenuto una tesi “contra-fiscum”, non accogliendo alcuna delle tre soluzioni prospettate. I giudici di legittimità, infatti, in quegli anni hanno affermato l’inapplicabilità dell’art. 1344 c.c., negando alle norme tributarie la natura di norme imperative. Hanno escluso di poter far ricorso all’art. 37, co. 3, D.P.R. 600/1973, in quanto disciplinante i casi di interposizione fittizia (che genera

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evasione fiscale) e non reale, come invece sembravano configurarsi le fattispecie sottoposte all’esame della Cassazione. Infine, hanno sottolineato l’inconferenza del richiamo operato in favore dell’art. 6, co. 2 TUIR, in quanto le operazioni contestate dall’Amministrazione finanziaria non riguardavano, secondo il supremo consesso, redditi sostitutivi in senso proprio. Con le sentenze n. 3979/2000, 11351/2001 e 3345/2002, la Corte di Cassazione ha concluso quindi che potevano essere qualificati come elusivi solo quei comportamenti definiti tali dalla legge; in altre parole, il fenomeno elusivo non era contrastabile se non con

le norme antielusive specifiche esistenti nell’ordinamento tributario76. Al di fuori

del campo di applicazione di queste ultime, le lacune dell’ordinamento tributario

non poteva essere colmata dall’interprete77.

Nel 2005, si è registrato un importante revirement giurisprudenziale. Al fine di

contrastare ulteriori pratiche di dividend washing e dividend stripping, la

Suprema Corte è giunta ad utilizzare le categorie civilistiche della simulazione, della nullità del contratto per mancanza di causa e per frode alla legge.

Con le due sentenze n. 20398 e 22932 del 2005, i giudici di legittimità hanno ravvisato, nei contratti posti in essere dal contribuente, la mancanza di qualsiasi vantaggio economico al di fuori di quello fiscale. Dunque, hanno qualificato come nulli tali negozi (di acquisto e rivendita di azioni nel primo caso, di costituzione di usufrutto nel secondo) per mancanza di causa ai sensi dell’art. 1418, co. 2 c.c. e conseguentemente hanno disconosciuto il credito di imposta previsto per l’acquirente dei titoli o l’usufruttuario dei medesimi. In queste due sentenze il supremo consesso ha fatto applicazione della teoria della “causa in concreto”. Nel caso riguardante l’operazione di dividend washing, in particolare, i contratti conclusi presentavano la causa tipica della vendita (trasferimento della proprietà di un bene contro la corresponsione di un prezzo), ma a questa non corrispondeva la causa “concreta”. Affinché quest’ultima potesse essere considerata sussistente, non bastava che la fattispecie negoziale concretamente

76 G. MELIS, op. ult. cit.., pag. 108.

77 A. RENDA, L’abuso del diritto nella giurisprudenza della Corte di Cassazione (2005-2011), in Dir,

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posta in essere corrispondesse al tipo contrattuale della compravendita disciplinato dalla legge (causa in astratto), ma occorreva che alla causa propria del tipo contrattuale, alla causa in astratto, corrispondesse anche il risultato economico concretamente perseguito dalle parti, cioè, appunto, la causa in concreto. Nel caso sottoposto all’esame della Corte di Cassazione, il risultato economico perseguito dalle parti non era costituito dallo scambio di cosa contro prezzo, o meglio questo risultato era meramente strumentale allo scopo ultimo di ottenere un risparmio fiscale illegittimo, dunque la Corte ha concluso nel senso

della mancanza di causa78.

Con la sentenza n. 20816/2005, la Corte ha adottato un diverso approccio. Esaminando un caso di dividend stripping, essa ha dichiarato nulla l’operazione ex art. 1344 c.c., perché posta in essere in frode alla legge; nella motivazione della decisione si legge che “le norme tributarie appaiono norme imperative poste a tutela dell’interesse generale del concorso paritario alle spese pubbliche”. Oltre che un ripensamento rispetto alle pronunce dei primi anni del 2000, tale arresto giurisprudenziale ha rappresentato un cambio di rotta anche rispetto al precedente e radicato orientamento della stessa Suprema Corte e della dottrina maggioritaria, che in passato si erano espresse in senso contrario all’applicabilità dell’art. 1344 c.c. nel settore tributario, in quanto, si era detto, le nome tributarie non pongono direttamente obblighi o divieti, ma “si limitano ad assumere determinati fatti ad indice di capacità contributiva”79.

78 A. RENDA, cit., pag. 1283. 79 A. RENDA, cit., pag. 1284.

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1.10 L’evoluzione della giurisprudenza di legittimità in tema di