• Non ci sono risultati.

Le importanti novità giurisprudenziali del 2015

Nell’anno 2015, sia la Suprema Corte di Cassazione che la Corte Costituzionale hanno emanato delle pronunce che avrebbero avuto una portata rivoluzionaria nella disciplina del contrasto del fenomeno elusivo. Si utilizza, altresì, il condizionale nel formulare quest’ultima frase poiché le due importantissime novità cui si farà cenno sono state ben presto superate dal legislatore, il quale, come si dirà più compiutamente nel prosieguo, con il d.lgs. n. 128/2015 ha formulato una nuova clausola generale antiabuso. In ogni caso, le due novità hanno riguardato, da un lato, l’ambito di applicazione delle garanzie procedimentali previste dall’ormai abrogato art. 37-bis D.P.R. n. 600/1973 e, dall’altro, il rapporto intercorrente tra la disciplina antielusiva contenuta in quest’ultima norma e quella di origine giurisprudenziale introdotta a partire dalle sentenze gemelle del 2008 della Suprema Corte.

Come accennato in precedenza, l’art. 37-bis, comma 4 prevedeva specifiche garanzie procedimentali a favore del contribuente cui venisse contestata una condotta di elusione dall’Amministrazione finanziaria. Al riguardo, la Corte di Cassazione in passato ha affermato che le stesse non trovavano applicazione se il

74

comportamento del contribuente fosse contestato come elusivo invocando non il citato art. 37-bis, bensì il principio generale antiabuso di origine giurisprudenziale.

Questo rigoroso orientamento è stato da subito avversato da una parte della

dottrina,126 la quale sosteneva l’opportunità di affiancare, al riconoscimento di

una clausola antiabuso immanente nel sistema, il riconoscimento di un principio altrettanto immanente di tutela del contraddittorio anticipato. In virtù di ciò, ogniqualvolta l’Amministrazione finanziaria avesse rilevato una fattispecie di abuso del diritto, sarebbe stata obbligata ad instaurare un contraddittorio con il contribuente chiedendogli informazioni o chiarimenti, prima di formulare specifiche contestazioni che potessero condurre alla disapplicazione degli effetti fiscali dei negozi posti in essere.

Tuttavia, insensibile tali prospettazioni dottrinali, la Cassazione si è mossa nel senso opposto. Con l’ordinanza n. 24739 del 2013 i giudici di legittimità hanno sollevato dinnanzi all’Alta Corte una questione di legittimità costituzionale dell’art. 37-bis comma 4 del D.P.R. n. 600 del 1973, nella parte in cui sanzionava con la nullità l’avviso di accertamento antielusivo che non fosse stato preceduto da una richiesta di chiarimenti nelle forme e nei tempi ivi previsti.

A detta del supremo consesso, questa previsione avrebbe causato la violazione innanzitutto dell’art. 3 della Costituzione. L’art. 37-bis infatti, si leggeva nell’ordinanza, era una norma speciale rispetto al principio generale di abuso del diritto. Posto che il tertium comparationis, dato da tale principio generale, non prevedeva l’instaurazione di un contraddittorio preventivo con il contribuente, era irrazionale che tale previsione fosse invece contenuta in una norma residuale e speciale, quale l’art. 37-bis. Inoltre, a detta della Suprema Corte un'altra norma, che pur non prevede il contraddittorio preventivo, avrebbe funto da tertium comparationis: l’art. 20 della legge di registro127.

126 A. RENDA, cit., pag. 1310.

127 In altre parole, ancora una volta la Corte ha dimostrato di considerare quest’ultima disposizione

come una norma con funzione antielusiva operante nel settore dell’imposta di registro. Sul punto, si veda il paragrafo successivo.

75

In secondo luogo, l’art. 37-bis, comma 4 si sarebbe posto in contrasto con l’art. 53 Cost., che impone l’adempimento delle obbligazioni tributarie da parte di chiunque, in quanto portava ad annullare fondate pretese fiscali per un motivo meramente formalistico (nel caso di specie l’avviso di accertamento era stato notificato dopo 54 anziché 60 giorni dalla richiesta di chiarimenti).

Condivisibilmente, anche forse in virtù delle critiche provenienti da una parte sempre più consistente della dottrina, nel gennaio 2015 la Corte di Cassazione ha ribaltato la propria precedente posizione, prima ancora dell’intervento della Corte Costituzionale. Con sentenza n. 406/2015, i giudici di legittimità hanno difatti affermato che “il principio generale del diritto comunitario secondo cui il soggetto destinatario di un atto della pubblica autorità suscettivo di produrre effetti pregiudizievoli nella sua sfera giuridica, deve essere messo in condizione di contraddire prima di subire tali effetti, non può tollerare discriminazioni in relazione alla natura armonizzata o meno del tributo”. In base a tale pronuncia, dunque, il diritto al contraddittorio preventivo, ormai da tempo elaborato e

sviluppato dalla Corte di Giustizia con riguardo ai tributi armonizzati128, deve

necessariamente trovare applicazione anche nei settori privi di armonizzazione. Oltre alle indicazioni della giurisprudenza comunitaria, la sentenza in commento ha recepito il principio di diritto enunciato nella precedente decisione delle Sezioni Unite, n. 19667/2014, nella quale si legge che è “principio fondamentale immanente nell’ordinamento tributario […]la tutela del diritto di difesa del contribuente mediante l’obbligo di attivazione da parte dell’amministrazione del “contraddittorio endoprocedimentale” ogni volta che debba essere adottato un provvedimento lesivo dei diritti e degli interessi del contribuente medesimo. Principio il cui rispetto è dovuto da parte dell’amministrazione indipendentemente dal fatto che ciò sia previsto espressamente da una norma positiva e la cui violazione determina la nullità dell’atto lesivo che sia stato adottato senza la preventiva comunicazione al destinatario”.

76

Detto ciò, con ordinanza n. 527/2015 la sezione V della Cassazione ha rimesso alle Sezioni Unite la questione circa la concreta portata applicativa del principio del contraddittorio preventivo. Più in particolare, si è posta “la questione dell’individuazione delle concrete modalità di esplicazione del contraddittorio, e degli effetti della eventuale inosservanza di tali modalità, in tutti quei procedimenti tributari nei quali la legge non preveda espressamente alcun meccanismo di contraddittorio endoprocedimentale”. Dal canto suo, anche la

giurisprudenza di merito129 ha affermato la doverosa applicazione delle garanzie

procedimentali (consistenti nel previo contraddittorio e in una motivazione rafforzata) nei casi in cui l’elusività di una condotta venisse contestata ricorrendo alla clausola pretoria dell’abuso del diritto. Se, infatti, si legge nelle varie motivazioni delle sentenze, detta clausola rinvia ad un principio immanente nel sistema, anche alla tutela del contradditorio procedimentale preventivo deve

essere riconosciuta la stessa dignità ed importanza130. Altrimenti si sarebbe creata

una ingiustificata disparità di trattamento tra i contribuenti cui venisse contestato un comportamento elusivo in base alla clausola codificata e quelli che ricevessero una contestazione fondata sul principio generale di origine giurisprudenziale; ciò che avrebbe comportato la violazione del principio di uguaglianza (art. 3 Cost.), del diritto alla difesa e al contraddittorio (art. 24 Cost.) e del principio di imparzialità della Pubblica Amministrazione (art. 97 Cost.).

L’orientamento espresso dalla Corte di Cassazione ha infine incontrato l’avallo della Corte Costituzionale. Con la sentenza n. 132/2015 l’Alta Corte, nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale sottopostale, ha innanzitutto denunciato una carenza di motivazione nell’ordinanza di rimessione: in quest’ultima, la Cassazione ha asserito che il principio generale non scritto di abuso del diritto non contempla garanzie procedimentali a favore del contribuente, astenendosi tuttavia dal chiarire tale punto.

129 Comm. Trib. Prov. Milano n. 54 del 2011; Comm. Trib. Prov. Brescia n. 14 del 2011; Comm. Trib.

Prov. Genova n. 2 del 2011; Comm. Trib. Reg. Lombardia n. 2 del 2012.

130 A. RENDA, L’abuso del diritto nella giurisprudenza della Corte di Cassazione (2005-2011), cit., pag.

77

In secondo luogo, la Corte Costituzionale ha sottolineato che l’orientamento espresso nell’ordinanza di rimessione si poneva ormai in contrasto con le più recenti pronunce degli stessi supremi giudici, i quali, con la citata sentenza resa a Sezioni Unite, n. 19667/2014, hanno affermato che “l’attivazione del contraddittorio procedimentale costituisce un principio fondamentale immanente nell’ordinamento, operante anche in difetto di un’espressa e specifica previsione normativa, a pena di nullità dell’atto finale del procedimento”.

Con riferimento ai due parametri normativi individuati dalla Suprema Corte come “tertium comparationis”, il giudice delle leggi ha affermato che essi non sono d’ostacolo all’applicazione del principio di partecipazione al procedimento, il quale ultimo assume carattere generale in quanto è volto a garantire la tutela dell’effettività del contraddittorio; dunque una violazione dell’art. 3 Cost. non era ravvisabile perché di divergenza rispetto ad un tertium comparationis non poteva in realtà parlarsi.

Infine, negando la configurabilità di una violazione dell’art. 53 Cost., la Corte ha rilevato che “il rispetto del termine dilatorio (previsto dall’art. 37-bis, quarto comma) assolve anche allo scopo di consentire che l’avviso di accertamento sia “specificamente motivato” dall’ufficio tributario, in relazione alle giustificazioni fornite dal contribuente, come prescrive, sempre a pena di nullità, il comma 5 dello stesso art. 37-bis”. La divergenza dal modello normativo, dunque, lungi dall’essere qualificabile come meramente formale o innocua, o come di lieve entità, “è invece di particolare gravità, in considerazione della funzione di tutela dei diritti del contribuente”.

Sebbene l’argomento delle garanzie procedimentali non sia strettamente attinente al profilo definitorio dell’elusione fiscale/abuso del diritto, pare tuttavia a chi scrive che l’orientamento espresso nel 2015 dalla Cassazione e dalla Corte Costituzionale assuma una grande importanza dal punto di vista sistematico, in quanto dimostra, seppur indirettamente, come anche il giudice di legittimità e quello delle leggi si siano resi conto del carattere vago, aleatorio, del concetto di abuso del diritto. A fronte di questa indeterminatezza, si è avvertito il bisogno di

78

generalizzare il riconoscimento delle garanzie procedimentali a favore del contribuente, in tutte le ipotesi in cui venga contestata una fattispecie di elusione fiscale/abuso del diritto. Come accennato all’inizio di questo paragrafo, la questione dell’ambito di applicazione delle garanzie procedimentali è stata oggi risolta dal legislatore, il quale, con l’art. 10-bis l. n. 212/2000, ha posto una disciplina del contraddittorio preventivo generalizzata a qualsiasi contestazione in materia di abuso del diritto, con l’eccezione del settore dei tributi doganali.

La seconda importante novità del 2015 ha riguardato principalmente il rapporto tra la disciplina antielusiva contenuta nel vecchio art. 37-bis D.P.R. n. 600/1973 e la clausola generale antiabuso di origine giurisprudenziale. Con le sentenze gemelle del 2008, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione avevano affermato che tra le norme antielusive di diritto positivo (quale, ad esempio, l’art. 37-bis) ed il principio generale non scritto di abuso del diritto era ravvisabile un rapporto di species ad genus: le prime non potevano che considerarsi come una mera conferma, un sintomo dell’esistenza di un principio generale ed immanente al sistema. Di conseguenza, elencazioni normative di operazioni elusive (quale, ad esempio, quella contenuta nel terzo comma dell’art. 37-bis) dovevano essere interpretate come meramente esemplificative, non tassative ed in ogni caso non preclusive della possibilità di contrastare, ricorrendo appunto al suddetto principio generale, diverse fattispecie abusive. Da ciò, come risulta dalla ricostruzione operata fino ad ora, è derivata un’applicazione smodata della clausola generale di origine pretoria.

Una svolta in senso opposto è stata segnata dalla fondamentale sentenza n. 405/2015, pronunciata dalla sezione tributaria civile della Cassazione. La Corte ha innanzitutto confermato la vigenza, nell’ordinamento interno e con riguardo al settore dei tributi non armonizzati, di un generale principio non scritto di divieto di abuso del diritto, il quale trova fondamento nei principi di capacità contributiva e di progressività dell’imposizione di cui all’art. 53 Cost. Tale principio, immanente al sistema, può trovare esplicitazione in norme di contrasto specifiche, destinate ad operare in settori “ritenuti a maggior rischio di pratiche

79

abusive”, ciò che si verificava con riferimento all’art. 37-bis D.P.R. 600/1973. Tuttavia, anche se tra quest’ultima disposizione e la clausola antielusiva di origine giurisprudenziale era ravvisabile un rapporto di species ad genus, i supremi giudici non hanno condiviso (e qui sta la portata rivoluzionaria della pronuncia in esame) la conclusione secondo cui “anche nel caso in cui non ricorra alcune delle operazioni indicate nell’articolo 37-bis, comma 3, D.P.R. n. 600/1973, potrebbe egualmente configurarsi, in materia di imposte dirette, la figura dell’abuso di diritto”. La Corte ha osservato che nel settore delle imposte dirette il legislatore ha preferito “tipizzare la figura dell'abuso del diritto convogliandola su specifici elementi caratterizzanti e determinate operazioni negoziali, in assenza dei quali non sono configurabili (si ripete nella materia delle imposte sui redditi) altre ipotesi (atipiche) di pratiche abusive: l'intento legislativo è stato, infatti, quello di ridurre quanto più possibile, in una materia - quella dei tributi diretti- di particolare rilevanza fiscale e nella quale non operano vincoli comunitari, il margine di errore valutativo nell'attività di accertamento degli Uffici finanziari, avuto riguardo alla notevole elasticità dei margini interpretativi del fenomeno negoziale altrimenti consentita dalla stessa indeterminatezza della nozione di "abuso del diritto" e degli elementi che lo caratterizzano, rispondendo pertanto l'intervento normativo alla esigenza: 1-di limitare il rischio di una indiscriminata applicazione della figura dell'abuso del diritto a qualsiasi fattispecie negoziale (con il conseguente rischio di frequenti ed inevitabili valutazioni contraddittorie di una medesima fattispecie negoziale compiute dai diversi Uffici), evitando la insorgenza di controversie tributarie su accertamenti fiscali che potrebbero presentare elevati rischi di aleatorietà per l'Ufficio finanziario, nonché 2-di evitare che i contribuenti vengano ad essere sottoposti ad inutili e complessi accertamenti fiscali, a discapito di altre e più utili -in termini di risultati conseguibili- attività di verifica e controllo”. La sentenza n. 405 è stata emanata nel gennaio del 2015. Essa, senz’altro dalla portata potenzialmente dirompente, non ha avuto modo di esplicare la sua efficacia pratica in quanto il 2 settembre dello stesso anno è entrata in vigore una

80

nuova clausola generale antiabuso che ha, tra l’altro, comportato l’abrogazione dell’art. 37-bis D.P.R. n. 600/1973.

La pronuncia in commento è ad avviso di chi scrive importante anche per una seconda ragione. Finalmente, dopo anni in cui si è affermata e consolidata una tendenza esattamente opposta, la Corte di Cassazione ha dato il giusto rilievo all’elemento costitutivo dell’elusione fiscale rappresentato dal carattere necessariamente indebito dei vantaggi fiscali perseguiti. Si legge, infatti, in un altro passo della motivazione che, affinché possa parlarsi di abuso, l’agire del contribuente deve “procurare un vantaggio fiscale la cui attribuzione sia contraria all’obiettivo perseguito da queste disposizioni” e che “l’indebito vantaggio fiscale” è integrato dalla “contrarietà allo scopo perseguito dalle norme tributarie eluse. … Come più volte ribadito dalla giurisprudenza comunitaria e di legittimità la opzione del soggetto passivo per la operazione negoziale che risulti fiscalmente meno gravosa non costituisce ex se condotta “contraria” allo scopo della disciplina normativa tributaria, laddove sia lo stesso ordinamento tributario a prevedere tale facoltà di scelta”. Dopodiché, la Corte ha dedicato una parte rilevante della sentenza alla individuazione, nel caso concreto (riguardante la stipula di contratti di “sale & lease back”), del carattere indebito del vantaggio fiscale perseguito dal contribuente.

1.14 Il problema dell’art. 20 della legge sull’imposta di registro