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L’influenza dell’orientamento Cadbury Scweppes

I principi giurisprudenziali affermati nel caso Cadbury Schweppes hanno avuto una vasta risonanza in ambito comunitario, tanto da essere stati recepiti, un anno dopo la pronuncia della relativa sentenza, dalla Comunicazione n.785/2007 sulla applicazione di misure antiabuso nel settore dell’imposizione diretta, che la Commissione ha emanato nei confronti del Parlamento europeo, del Consiglio e del Comitato economico e sociale europeo. In questo atto di soft-law, la Commissione ha affermato, tra le altre, l’esigenza che gli Stati membri elaborino “definizioni comuni di abuso e costruzioni di puro artificio (per fornire orientamenti sull’applicazione di questi concetti nel settore dell’imposizione diretta)”. A tal fine, è stata ripresa la nozione di abuso del diritto risultante dalla sentenza Cadbury Schweppes, osservando che “nella giurisprudenza in materia di imposizione diretta la Corte di giustizia ha inoltre sostenuto che la necessità di impedire l’elusione o l’abuso può costituire un motivo imperativo di interesse generale capace di giustificare una restrizione delle libertà fondamentali. Il concetto di elusione fiscale è tuttavia limitato a “costruzioni di puro artificio finalizzate ad eludere la normativa dello SM [Stato membro] interessato”. Nella parte seguente del testo della Comunicazione è stato ribadito che una costruzione di puro artificio non è integrata dal semplice fine di ottenere un vantaggio fiscale, in quanto “l’obiettivo di ridurre al minimo l’onere fiscale costituisce di per sé una considerazione commerciale valida”. La Commissione ha invece precisato che una costruzione di puro artificio consiste in un’operazione che, fondandosi sull’esercizio di una libertà fondamentale garantita dal Trattato ma essendo priva

di sostanza economica339, non soddisfa l’obiettivo della normativa comunitaria ed

è volta ad ottenere un vantaggio fiscale per questo qualificabile come indebito. L’orientamento espresso nella decisione Cadbury Schweppes, inoltre, è stato confermato in una successiva sentenza della Corte di Giustizia, pronunciata il 13

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marzo 2007 nel caso Thin Cap Group Litigation. La questione sottoposta all’esame dei giudici comunitari riguardava la compatibilità della legislazione inglese sulla thin capitalization con il diritto comunitario ed in particolare con le libertà di stabilimento, di prestazione dei servizi e di circolazione dei capitali. Tale normativa, infatti, a determinate condizioni limita la possibilità per una società, residente nel Regno Unito, di dedurre a fini fiscali gli interessi passivi su prestiti concessi da una società controllante residente in un altro Stato membro, a differenza dell’ipotesi in cui anche quest’ultima società abbia la propria residenza nel Regno Unito. La Corte ha affermato che la questione circa la compatibilità con il diritto comunitario avrebbe dovuto essere affrontata congiuntamente ad un altro quesito, con il quale il giudice del rinvio chiedeva se la soluzione da dare alla prima questione sarebbe cambiata in presenza di una fattispecie di abuso, ovvero in presenza di una “costruzione artificiosa intesa a eludere la normativa fiscale dello Stato membro di residenza della società mutuataria”. L’ipotesi di elusione cui si faceva riferimento, dunque, anche in

questo caso consisteva in una fattispecie di abuso in senso lato340, rappresentato

da un uso distorto della libertà di stabilimento al fine di aggirare la normativa nazionale. Tuttavia, a differenza del caso Cadbury Schweppes, nella causa Thin Cap Group Litigation erano in discussione le regole inglesi sulla thin capitalization e non le norme in materia di CFC. Come si è accennato, la pronuncia resa dalla Corte nel giudizio in commento ha rispecchiato i principi già affermati nel caso Cadbury. Innanzitutto, il giudice comunitario ha ribadito che “se è pur vero che la materia delle imposte dirette rientra nella competenza degli Stati membri, questi ultimi devono tuttavia esercitare tale competenza nel rispetto del diritto comunitario”. Restringendo, poi, l’incidenza della normativa nazionale sulla sottocapitalizzazione esclusivamente al campo di applicazione della libertà di stabilimento, la Corte ha osservato che “le disposizioni nazionali relative alla sottocapitalizzazione introducono una disparità di trattamento tra società mutuatarie residenti a seconda che la società collegata mutuante abbia o

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meno sede nel Regno Unito. … Una disparità di trattamento tra controllate residenti in funzione del luogo della sede della loro controllante costituisce una restrizione alla libertà di stabilimento in quanto scoraggia l'esercizio di tale libertà da parte delle società stabilite in altri Stati membri, le quali potrebbero di conseguenza rinunciare all'acquisizione, alla creazione o al mantenimento di una controllata nello Stato membro in cui vige tale norma. … Ne deriva che la disparità di trattamento … costituisce una restrizione alla libertà di stabilimento”. Quanto alla giustificazione di una tale restrizione, come nella decisione Cadbury Schweppes, anche nella sentenza in commento si legge che “una restrizione del genere può essere ammessa solo per ragioni imperative di interesse generale” e nei limiti di quanto è necessario per soddisfare queste ultime. È stato ribadito inoltre che nell’ambito di tali ragioni imperative rientra, ai sensi di una giurisprudenza costante, anche l’esigenza di contrastare le pratiche abusive, definite, senza alcun elemento di novità, come “costruzioni di puro artificio finalizzate a eludere la normativa dello Stato membro interessato”. In un punto successivo della sentenza, richiamando il concetto di mancanza di sostanza economica, le costruzioni di puro artificio sono state definite come quei comportamenti “consistenti nel creare costruzioni puramente artificiose, prive di effettività economica e finalizzate a eludere la normale imposta sugli utili generati da attività svolte nel territorio nazionale”. A tal proposito, è stata espressamente richiamata la sentenza Cadbury Schweppes. Dunque, è stato posto l’accento sul tradizionale elemento dell’uso distorto e privo di sostanza economica di strumenti giuridici (“costruzioni puramente artificiose, prive di effettività economica”), sul fine elusivo (“finalizzate a eludere) e sull’elemento oggettivo, rappresentato dall’ottenimento di un vantaggio fiscale indebito (“eludere la normale imposta sugli utili”).

Per quanto riguarda specificamente l’elemento soggettivo dell’abuso, la sentenza in commento è stata foriera di talune incertezze. Al paragrafo 81, dopo aver stabilito che una normativa statale che miri a contrastare l’elusione fiscale può indicare ex ante alcuni elementi oggettivi in base ai quali valutare l’esistenza

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o meno di costruzioni di puro artificio, la Corte ha affermato che “la circostanza che una società residente abbia ottenuto un prestito da una società non residente a condizioni diverse da quelle che sarebbero state applicate da tali società in un regime di piena concorrenza costituisce per lo Stato membro di residenza della società mutuataria un elemento oggettivo e verificabile da parte di terzi per stabilire se la transazione in questione rappresenti, in tutto o in parte, una costruzione di puro artificio finalizzata, fondamentalmente, a sottrarre l'impresa dalla legislazione fiscale di tale Stato membro”. Sulla base di ciò, sembrerebbe che lo scopo elusivo debba essere fondamentale o essenziale, ai fini della qualificazione di una condotta in termini elusivi.

Senonché, nel passo successivo la Corte ha riproposto il riferimento ai comportamenti abusivi, parlando però di “costruzione di puro artificio a soli fini fiscali”341. Non è chiaro, quindi, se in base alla sentenza che qui si commenta

l’abusività di una condotta è integrata da uno scopo esclusivo di eludere l’imposta ovvero se sia sufficiente che quest’ultimo sia essenziale. La differenza, come è agevole notare, è molto rilevante dal punto di vista pratico.

Nello stesso paragrafo 82, inoltre, si legge che, affinché una norma nazionale volta a contrastare il fenomeno della sottocapitalizzazione possa essere considerata come proporzionata rispetto al suo scopo, è necessario che il contribuente sia messo nelle condizioni, “senza eccessivi oneri amministrativi, di produrre elementi relativi alle eventuali ragioni commerciali per le quali tale transazione è stata conclusa”. In base a tale principio, il contribuente deve essere messo in grado di provare che l’operazione da lui posta in essere è dotata di valide ragioni economiche, mentre l’assenza di queste ultime deve essere verificata dall’organo accertatore allorché intenda procedere all’emanazione di un atto impositivo. Il contribuente e l’Amministrazione finanziaria, dunque, sembrerebbero chiamati a fornire la stessa prova, benché di segno opposto, sulla sostanza economica dell’operazione.

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Rispondendo alle due questioni pregiudiziali sollevate, la suprema istanza comunitaria ha affermato che “l'art 43 CE osta ad una normativa di uno Stato membro che limiti la possibilità per una società residente di dedurre, a fini fiscali, gli interessi versati su prestiti concessi da una società controllante, in via diretta o indiretta, residente in un altro Stato membro o da una società residente in un altro Stato membro controllata da tale società controllante, senza assoggettare a una siffatta restrizione una società residente che ha ottenuto un prestito da una società parimenti residente, salvo che, da un lato, tale normativa disponga un esame di elementi oggettivi e verificabili che permettano di individuare l'esistenza di una costruzione di puro artificio attuata a soli fini fiscali, prevedendo la possibilità per il contribuente di produrre, eventualmente e senza eccessivi oneri amministrativi, elementi relativi alle ragioni commerciali soggiacenti alla transazione in questione e, dall'altro, qualora l'esistenza di una tale costruzione venisse accertata, detta normativa qualifichi tali interessi come utili distribuiti solo nella misura in cui questi eccedono quanto sarebbe stato convenuto in condizioni di piena concorrenza”.