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Di nuovo su Cartesio e Vico

Nel documento Il rapporto tra mente e corpo in Vico (pagine 73-80)

Facoltà della mente e metodo di conoscenza

5. Di nuovo su Cartesio e Vico

Riguardo a ciò si può cominciare analizzando le definizioni che Vico dà di geometria sintetica e analitica, così da capire se queste siano fedeli o meno a quelle cartesiane. Egli definisce i due diversi procedimenti in questo modo:

Infatti la geometria, divulgata con il metodo sintetico, cioè per forme, è certissima sia nelle operazioni che nei risultati perché procedendo mediante i suoi postulati dal minimo all'infinito, insegna il modo di comporre gli elementi dai quali scaturiscono le verità che dimostra. E proprio per questo insegna il modo di comporre gli elementi, perché l'uomo possiede dentro di sé gli elementi che insegna. Al contrario l'analisi, sebbene fornisca risultati certi, è tuttavia incerta nelle operazioni, perché prende le mosse dall'infinito per poi discendere al minimo. Certo nell'infinito è possibile reperire ogni cosa, ma non viene fornita la strada per alcun reperimento87.

L'uomo, e qui si vede il forte platonismo di Vico, ha già dentro di sé tutti gli elementi delle cose che conosce. Il modo migliore, attraverso cui se li può rendere presenti nella mente, è quello di utilizzare il metodo sintetico. Questo, muovendo dal conosciuto allo sconosciuto, ha una trasparenza maggiore sia per quanto riguarda le sue procedure che i suoi prodotti. La certezza dell'analisi è limitata solo ai suoi risultati, poiché ha il difetto di servirsi di operazioni poco chiare, in quanto il suo inizio non è ben comprensibile. Essa, sostiene Vico, pretende di partire dall'infinito e giungere così al minimo. Il

87 De Antiquissima, pp. 41-43. Molto interessante, in questo passo, è l'accostamento dei termini forme e specie, rispettivamente con la geometria sintetica e analitica. Su questo tema si sofferma Lachterman, il quale, come in parte abbiamo già visto nel capitolo precedente, sostiene che per Vico la forma metafisica è come un'idea platonica da cui derivano le forme fisiche. In questo senso le forme geometriche sono come «schematizzazioni delle forme metafisiche corrispondenti; così il punto geometrico […] sarebbe uno schema figurativo o fantastico, nel senso kantiano, del punto metafisico» (Id., Vico, Doria..., op. cit., p. 17). Al contrario chi procede per specie non imita le forme metafisiche di cui si serve la sintesi.

problema è che l'infinito comprende dentro di sé innumerevoli cose, il che è lo stesso che dire che non può essere afferrato con precisione. Il suo percorso è oscuro perché tale è il suo inizio.

È proprio su quest'ultima definizione che si misura una prima distanza con Cartesio. Infatti, il filosofo francese non parla affatto dell'analisi come di ciò che discende dall'infinito al minimo. In realtà, e questo già dalle Regulae ad directionem ingenii, l'analitica cartesiana parte dal semplice per arrivare al complesso. Il metodo per investigare la verità delle cose deve basarsi su regole certe e facili, attraverso le quali si potrà solo considerare il vero e mai il falso. Tale metodo deve valere per qualunque oggetto a cui l'intelletto si applichi. Perciò «deve esserci una scienza generale, che spieghi tutto quello che si può desiderare circa l'ordine e la misura non riferita a una materia specifica, ed essa si chiama Mathesis universale»88. Questo metodo, tanto semplice quanto non attuato normalmente, deve indagare con ordine per conoscere le cose. Per fare questo, però, bisogna partire dalle cose semplici e facili e finché queste non sono state indagate a fondo non si può procedere oltre. Il problema è che non tutto si presenta in maniera semplice alla conoscenza umana. Perciò un compito importante, è quello che consiste nello scomporre le proposizioni oscure fino a farle diventare semplici e non più riducibili, disponendole in serie, così che alcune cose, che non sono semplici, siano conosciute a partire da altre. Come sostiene anche nella Regola XIII, per comprendere perfettamente una questione essa va separata da ogni cosa superflua, così da cercare solo ciò che è deducibile dai dati. Questo significa andare con ordine.

In maniera simile, nelle II Obiezioni, Cartesio sostiene che l'esposizione geometrica è caratterizzata da due aspetti principali: l'ordine e la dimostrazione. Del primo si sa, la seconda invece può essere di due tipi: analitica o sintetica.

L'analisi mostra la vera via attraverso la quale la cosa è stata scoperta, metodicamente e quasi a priori, in modo che, se il lettore la vuole seguire prestandole sufficiente attenzione, capirà la cosa e se ne approprierà, non meno che se l'avesse scoperta lui stessa […]. La sintesi invece, percorrendo la via contraria e quasi a posteriori (per quanto spesso la prova sia in essa maggiormente a priori che nell'analisi) dimostra ciò che si è concluso, utilizzando una lunga serie di definizioni, postulati, assiomi, teoremi e problemi, cosicché se si nega qualcuna delle conseguenze ricavate, essa subito mostra che è contenuta negli antecedenti, ed estorce l'assenso del lettore più riluttante ed ostinato; ma non soddisfa come l'analisi […] poiché non insegna il modo in cui la cosa è stata scoperta89.

88 AT X, p. 378; Regole, IV, p. 177.

Salta subito all'occhio, in questa definizione, l'accostamento di analisi e sintesi con le nozioni, rispettivamente, di a priori e a posteriori, cioè come ciò che va dalla causa all'effetto nel primo caso e viceversa nel secondo. Si può dire in generale che l'analitica cartesiana, pur richiedendo una grande attenzione da parte di chi ne fa uso, è l'unica a far capire una nozione, poiché è come se venisse scoperta, e in qualche modo fatta, da chi indaga. Questo perché l'analisi procede con ordine: scompone il problema con cui ha a che fare e agendo sistematicamente giunge dal noto all'ignoto. La sintesi procedendo, ma nemmeno del tutto, nel modo contrario, cioè a posteriori, non riesce a rendere presente, nella mente di chi indaga, la via attraverso la quale una cosa viene conosciuta. In qualche modo, come fa notare Di Bella, la sintesi, andando da ciò che più semplice a ciò che è più complesso, è come se fosse già contenuta nell'analisi90.

Cartesio, andando avanti nell'esposizione, chiarisce ulteriormente la sua preferenza per l'analisi. Essa non solo è la più vera e adatta da insegnare, ma è anche la più conveniente alle materie metafisiche che sta trattando. Se infatti si pensa alle Regole, ci si accorge che queste non hanno propriamente a che fare con problemi metafisici, ma con le varie connessioni che la conoscenza instaura con gli oggetti con cui entra in relazione. Ciononostante anche qui un tema centrale è quello delle nozioni semplici, elementi necessari da cui partire per edificare un'intelligenza valida e vera. Le prime nozioni, che concordano con i sensi, sono accettate facilmente da ognuno e la loro unica difficoltà sta nel trarre le loro conseguenze in maniera corretta, cosa che può essere fatta da qualsiasi persona che riesca a ricordarsi quello che viene prima di ciò che deduce. Invece, il problema della metafisica consiste proprio nelle prime nozioni, le quali devono essere comprese in modo chiaro e distinto, ma che allo stesso tempo non si accordano con ciò che deriva dai sensi. La difficoltà sta nel liberarsi della conoscenza sensibile che accompagna l'uomo sin dall'infanzia. Adesso, la questione principale è quella che riguarda l'esistenza. Quindi, le nozioni semplici della metafisica, in quanto hanno a che fare con l'essere, hanno tutta un'altra profondità rispetto a quelle delle Regole, perché devono riuscire a distaccarsi dalla percezione sensibile che sempre accompagna l'uomo.

di Cartesio, op. cit., pp. 13-31.

90 «La ricomposizione, che procede da ciò che è “più facile” – nel senso di obiettivamente più semplice – a ciò che è “più difficile” (più complesso), risulta dunque già completamente prefigurata, o addirittura contenuta nell'analisi. Per questo è possibile tralasciare la sintesi, di cui pure si riconosce l'utilità nell'esposizione» (S. Di Bella, Le Meditazioni metafisiche di Cartesio, op. cit., p. 17).

«L'analisi metafisica deve quindi spezzare il preteso rapporto originario con l'essere (presupposto dalla vecchia idea di astrazione) e isolare, all'interno dell'esperienza comune e confusa, ciò che è autenticamente più noto, ovvero le nature semplici»91. Ecco perché, agli occhi di Cartesio, l'analisi e con essa il metodo deduttivo sono più vantaggiosi per la conoscenza: in quanto esse mostrano un metodo chiaro, sono le sole a poter convincere l'uomo a fare a meno del pregiudizio derivato dai sensi. Allo stesso tempo, nell'analisi metafisica, le nozioni semplici per il loro carattere intuitivo non potranno essere che il traguardo finale delle Meditazioni. Prima di queste sarà possibile avere solo definizioni provvisorie, primo passo necessario per avvicinarsi al traguardo finale dell'analisi metafisica, l'idea chiara e distinta.

Se adesso torniamo a Vico e confrontiamo i due passi citati riguardo le definizioni di geometria sintetica e analitica possiamo trovare alcune analogie e differenze nei due brani. Vico riconosce all'analisi la certezza nei risultati e, anche se non nel caso sopra citato, sostiene che essa da questo punto di vista sia anche più certa della sintesi. Solo che, per il filosofo napoletano, la sintesi è più certa non solo nei risultati, ma anche nelle operazioni perché mostra il modo con cui gli elementi vengono composti. È curioso notare come i due filosofi affermino in sostanza le stesse cose riguardo, però, a due metodi differenti. Cartesio sostiene che sia solo l'analisi a mostrare come la conoscenza delle cose vada componendosi. Vico afferma lo stesso riferendosi però alla sintesi. Non credo sia il caso di dover concludere da ciò un'incomprensione, dell'uno o dell'altro, nella definizione di questi due procedimenti.

Queste affermazioni simili, ma indirizzate a due metodi diversi, rientrano in un normalissimo processo di illustrazione di una propria idea, la quale, se la si crede vera e migliore dell'altra, deve essere presentata come la migliore rispetto a quella ad essa contraria. E, se si parla di metodi conoscitivi, l'unico modo, o comunque il più semplice, per sostenere l'uno o l'altro, è quello di asserirne la maggiore certezza, non solo riguardo alle conclusioni, ma anche a come queste vengano conseguite.

Però la differenza principale tra le due formulazioni sta sicuramente nell'affermare, come Vico fa, che l'analisi è incerta nelle operazioni perché procede dall'infinito al minimo. L'utilizzo del termine infinito, alla luce di quanto visto nel metodo analitico cartesiano, appare quanto mai strana e problematica. Si può provare a considerare tale

infinito come un riferimento alla necessità, sostenuta da Cartesio, di scomporre ciò che è composto per arrivare alle nature più semplici. Infatti, è a partire da queste che, attraverso la deduzione, si possono arrivare a conoscere le cose composte da più nature semplici. Perciò, l'infinito che intende Vico potrebbe essere un muoversi prima dall'alto verso il basso che poi ritorna in alto attraverso l'analisi. Però, tale interpretazione è frutto forse di una forzatura eccessiva, in quanto una cosa composta è ben diversa dall'infinito.

La definizione così diversa data da Vico risiede invece da un lato nell'idea di metafisica del filosofo vichiano, dall'altro nel modo in cui si arriva a questa metafisica. Riguardo alla prima, di cui si è già detto nel capitolo precedente, vale la pena di ricordare il pensiero vichiano così da collegarlo al secondo motivo:

La metafisica trascende la fisica perché si occupa delle virtù e dell'infinito; la fisica è parte della metafisica perché si occupa delle forme e degli oggetti finiti. In qual modo poi l'infinito discenda in queste cose finite non potremo comprenderlo neanche se ce lo insegnasse Dio, perché questa è una verità della mente divina, per la quale conoscere e fare sono una medesima cosa. La mente umana, al contrario, è finita e formata e non è in grado di intendere cose indefinite e informi, ma di pensarle sì; si potrebbe dire con parole di uso corrente che «può andarle raccogliendo, ma non già raccorle tutte»92.

L'infinito per Vico è ciò che ha a che fare con la metafisica. Se quest'ultima è collegata all'infinito, significa che il filosofo napoletano protesta contro la pretesa cartesiana di iniziare da essa per poi discendere al finito, cioè alle cose composte. Nella concezione vichiana, la conoscenza umana non potrà mai comprendere un passaggio di questo tipo. Nel lavoro di raccolta che la mente umana deve compiere nel difficile cammino della conoscenza, la pretesa di poter conoscere immediatamente Dio è un'assurdità. L'errore, e qui ci si collega al secondo punto, sta quindi nel come si arriva alla metafisica. L'avvicinamento ad essa, come si è visto, deve essere progressivo. Perciò è necessario partire dalle cose finite e a partire da queste avvicinarsi verso l'infinito. Se il cammino della conoscenza è un raccogliere progressivo, che parte da ciò che è più semplice per innalzarsi sempre di più, esso deve comprendere in prima istanza anche ciò che è vero per lo più. Ecco perché è necessario un metodo sintetico che comprenda dentro di sé il verosimile.

È questa l'idea che sta a monte della contrapposizione vichiana alla metafisica

cartesiana. Nel suo partire dall'analisi, Cartesio non fa comprendere come si possa distinguere il vero dal falso. Agli occhi del filosofo napoletano, l'analisi non fa che sottomettere l'ingegno «e contro questo tipo di “direzione” protesta Vico, non contro il fatto che lo spirito nelle sue funzioni conoscitive debba essere guidato metodicamente»93. Si può quindi sostenere che l'analisi che invoca Vico nella sua metafisica sia completamente diversa da quella cartesiana, perché quella vichiana ha alle sue spalle tutto un lavoro sintetico che ha portato a sviluppare l'ingegno nel modo migliore possibile.

Ci si può avvicinare a Dio, alla verità, solo gradualmente. Ecco perché, nelle opere precedenti al De Antiquissima, si concentra tanto sul verosimile. Mentre Cartesio fa rientrare quest'ultimo nel falso, Vico lo ritiene più vicino al vero che al falso e lo associa al senso comune. Come spiega bene Iacono94, Vico, pur non parteggiando per il senso comune, il quale è derivato dal sapere popolare basato sul pregiudizio e l'ignoranza, è contrario all'operazione di quei filosofi che contrappongono in modo netto il sapere vero, della scienza e quello verosimile, e falso, del popolo. Escludere questo tipo di verità, la quale non è basata su un metodo razionale, vuol dire lasciare da parte una verità che è creduta tale, non solo dal popolo, ma anche dai giovani, i quali, giova ricordarlo, sono i veri destinatari del “progetto educativo” vichiano.

Il tutto sta nel comprendere il ruolo epistemologico che questa verità gioca. Chiaramente essa va rifiutata nel momento in cui contribuisce a far nascere pregiudizi. Ma se è finalizzata al raggiungimento della verità oggettiva, la verità soggettiva del verosimile va compresa in essa. «Il problema della verità soggettiva del senso comune, delle sue credenze e dei suoi pregiudizi, deve essere discusso sia dal punto di vista del concetto di naturalizzazione, sia dal punto di vista del rapporto/opposizione

illusione/inganno»95. Il verosimile è funzionale al raggiungimento della sua idea di metafisica perché fa confrontare l'uomo non solo con il vero, ma anche con il falso, e questo è l'unico modo per comprendere sia l'uno che l'altro.

Questo punto si collega anche alla chiarezza, che Vico rivendica contro l'analisi, del procedimento sintetico in tutti i suoi passi. Si sa, la conoscenza umana, rispetto all'onniscienza divina, è molto limitata:

93 S. Otto, Giambattista Vico, op. cit., p. 63.

94 Cfr. A. M. Iacono, L'illusione e il sostituto. Riprodurre, imitare, rappresentare, Bruno Mondadori, Milano-Torino 2010, pp. 147-154.

La mente divina vede le cose al sole della sua verità, il che equivale a dire che, nel vedere una cosa, conosce insieme alla cosa che vede tutte le infinite altre. La mente umana, quando conosce distintamente una cosa, la vede come di notte alla luce di una lampada: mentre vede quelle cose, esclude dalla sua vista gli oggetti che la circondano96.

Nonostante ciò, solo attraverso il passaggio dal verosimile l'uomo può riuscire a conoscere il vero, perché è la mente stessa a costruirlo, a farlo. Quindi, il verum-factum vichiano, si afferma solo attraverso l'utilizzo di un metodo geometrico sintetico. Le sue verità, anche se limitate a un contesto più piccolo e definito rispetto a quello divino, non sono opache, ma ben definite e illuminate.

Nel documento Il rapporto tra mente e corpo in Vico (pagine 73-80)