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Vico su Spinoza

Nel documento Il rapporto tra mente e corpo in Vico (pagine 145-152)

Vico e Spinoza: un confronto

1. Vico su Spinoza

Vico conosceva molto bene la filosofia di Spinoza. Si può ragionevolmente pensare che non la conoscesse solo a livello generale, ma che avesse studiato le principali opere del filosofo olandese, Etica e Trattato teologico-politico, in modo molto approfondito. Al di là di ciò, sono poche le volte in cui Vico nomina testualmente Spinoza e quando questo avviene usa verso di lui parole molto critiche. In realtà tale trattamento, a quel tempo, era normale, visto che la filosofia spinoziana era stata condannata da tutti gli ambienti culturali europei e in particolar modo dalla Chiesa.

Però, oltre alle esplicite parole di biasimo, nelle pagine vichiane si ha anche una presenza implicita di Spinoza. Quindi, si possono individuare due diversi livelli di confronto: il primo è quello delle critiche esplicite che Vico rivolge a Spinoza, che sono presenti sia nel Diritto Universale che nella Scienza Nuova (nell'edizione del 1725 il nome di Spinoza non ricorre mai, ma riappare nelle ultime due edizioni); il secondo è quello di una connessione implicita, ma nemmeno troppo nascosta, tra la filosofia vichiana, e soprattutto per i contenuti presenti nella Scienza Nuova, e alcuni aspetti della filosofia di Spinoza (mi riferisco all'impostazione geometrica dell'impianto assiomatico della sezione Degli Elementi del primo libro Scienza Nuova, che rimanda a quello dell'Etica, e anche al contenuto stesso di alcune degnità che sembrano richiamare molto da vicino Spinoza).

Riguardo al primo livello di confronto Cristofolini1 individua cinque diverse immagini di Spinoza, che ci vengono restituite dalla critica compiuta da Vico: l'utilitarista, il deista, il fatalista, l'ateo e il distruttore di repubbliche.

a) Utilitarista. Questa critica trova posto nel Diritto universale, dove, fin dall'inizio,

Vico definisce Spinoza un utilitarista insieme a Epicuro, Machiavelli, Hobbes e Bayle. Questi cinque autori, definiti scettici, credono che l'uomo sia socievole solo per utilità e non perché mosso dall'idea di giustizia e di uguaglianza.

E che gli scettici, Epicuro, Macchiavelli, Obbes, Spinosa, Bayle ed altri dissero esser l'uomo socievole per utilità, la quale col bisogno o col timore vi gli portò, perché non avvertirono che altro sono le cagioni, altro le occasioni delle cose; le utilità cangiarsi, ma l'uguaglianza di quelle esser eterna; e, non potendo il temporale esser cagione dell'eterno, né il corpo produrre l'astratto, l'utilità è occasione per la quale si desti nella mente dell'uomo l'idea dell'ugualità, che è la cagione eterna del giusto2.

Poche pagine dopo Vico riprende tale critica e cita, come fautori di tale pensiero, gli stessi filosofi precedenti con l'aggiunta di Carneade e Tacito. Anche questi, come gli altri, non credono che gli uomini possano essere mossi dall'equità, ma solo dalla propria utilità3.

Tra questi pensatori, il posto di onore spetta a Epicuro, che per Vico è il padre di tale teoria. Gli altri, perciò, sono considerati come dei suoi seguaci:

Si vede di qui quanto sia inutile e dannoso alla giurisprudenza cristiana Epicuro […]. Per il suo ossequio ai sensi, ha trovato poi facile seguito in Machiavelli, Hobbes, Spinoza, Bayle. Ma è questa la più grave prova dell'errore di essi tutti, e soprattutto di Spinoza, che giudica della verità delle cose in base alla mente, non al senso, e non ammette se non ciò che è dimostrato in modo assolutamente chiaro: egli converge con Epicuro proprio là dove gli scettici convergono con Epicuro e con Spinoza4.

Tra tutti i seguaci moderni di Epicuro Spinoza è quello che ha commesso l'errore più grave perché dà preminenza ai sensi e, allo stesso tempo, giudica la verità delle cose in base a ciò che determina la mente.

Sempre riguardo all'utilitarismo è necessario citare un interessante passo tratto dal capitolo III del De Constantia, dedicato al pudore, primo principio dell'umanità. Qui, Vico critica apertamente, e nuovamente, i soliti cinque filosofi, ma, allo stesso tempo, poche righe dopo, sembra riprendere quasi testualmente l'Etica spinoziana. Infatti, nella conclusione del capitolo Vico sostiene che non sia l'utilità il principio che governa il mondo e gli uomini, ma la provvidenza. La dimostrazione della provvidenza divina,

2 OG, p. 6.

3 «Mancandoci pertanto quelle salde ragioni, udiamo tutto il giorno replicare gli argomenti di Carneade, il quale il pro e contro minutamente bilanciando, mette in forse se nelle faccende umane si possa riscontrare la giustizia, com'eziandio sentiamo ripetere le ragioni addotte da Epicuro, ed anche quelle del Principe di Niccolò Machiavelli, del De cive di Thomas Hobbes, e del Tractatus theologico- politicus di Benedetto Spinoza. Abbiam veduto di recente Pierre Bayle proporre nel suo gran Dizionario storico, scritto in lingua francese, che la giustizia ai tempi ed ai luoghi variatamente adattandosi, abbia a valutarsi in ragione della privata utilità; che soltanto ai deboli è invocata l'equità, ma per chi sta in Signoria, siccome dice Tacito, “ciò ch'è più equo ch'è più efficace”» (Ivi, p. 30). 4 Ivi, p. 382.

dice Vico, è ciò che contrasta gli attacchi mossi “dai filosofi del caso e della necessità”. Tali filosofi sono, come si sa, Spinoza, insieme ai soliti Epicuro, Machiavelli, Hobbes e Bayle. Ma, poco dopo, sulla scia della polemica precedente, asserisce che la «natura dell'uomo è quella che, lungi dal rendere questo o questo altro uomo lupo all'uomo, prescrive invece che questo o quest'altro uomo sia dio al suo simile [sed illum aut illum

hominem homini dictat Deum esse]»5. Vico, per condannare quei cinque filosofi, i quali attraverso le loro considerazioni dipingono un uomo che è lupo per gli altri uomini, utilizza sostanzialmente le stesse parole scritte da Spinoza nello scolio della proposizione 35 della quarta parte dell'Etica. «Quanto si è mostrato lo conferma l'esperienza di tutti i giorni, con tante e così illuminanti testimonianze, da far quasi dire a tutti che l'uomo è Dio per l'uomo [hominem homini Deum esse]»6. Questo sembrerebbe essere un elemento che prova la conoscenza diretta, da parte di Vico, del testo spinoziano. Il comportamento del filosofo napoletano, in questo caso, oltre che ambiguo, è anche poco corretto, perché per condannare i “filosofi del caso” si serve delle parole di uno di essi.

b) Deista. La definizione di Spinoza come deista si trova nelle Dissertationes alla fine

del Diritto Universale. Qui Vico dedica un breve paragrafo “contro Spinoza” in cui scrive questo: «cosicché quelli che si tengono fermi al deismo, e tutte le cose che ascoltano, vedono e sentono, ritengono essere Dio, capiscano che, anziché filosofi, essi sono i più rozzi delle genti»7. Anche in questo caso, il trattamento che Spinoza riceve è ambiguo. Infatti egli viene praticamente equiparato agli uomini rozzi che vedono la divinità ovunque. Quindi, stando a queste parole, Spinoza è tale e quale ai primi uomini di cui tratta la Scienza Nuova. Perciò, se da un lato Vico condanna in maniera netta Spinoza, dall'altro, visto il paragone, si potrebbe essere tentati di considerare questa frase quasi come un complimento, vista la grandezza, attribuita da Vico, a quei primi uomini.

c) Fatalista. Mentre nel Diritto Universale Spinoza è associato all'epicureismo, nella Scienza Nuova egli viene accostato allo stoicismo. È all'inizio di quest'ultima opera che

Vico identifica il fato degli stoici con la necessità di Spinoza e, allo stesso tempo, associa all'epicureismo un nome che non era ancora apparso prima: Locke.

5 Ivi, p. 410.

6 E IV, prop. 35 sc., p. 271. 7 OG, p. 902.

[…] onde dentro quelle sue tenebre insegni o' l cieco Caso d'Epicuro, o 'l Fato pur cieco degli Stoici; ed empiamente oppini, che esso Mondo sia Dio o operante per

necessità, quale con gli Stoici il vuole Benedetto Spinosa, ovvero operante a caso,

che va di seguito alla Metafisica, che Giovanni Locke fa d'Epicuro: e con entrambi avendo tolto all'huomo ogni elezione, e consiglio, avendo tolta a Dio ogni Provvedenza, insegni, che dappertutto debba regnar' il Capriccio, per incontrare o 'l caso, o 'l fato, che si desidera8.

E sempre con una critica a Spinoza si conclude la Scienza Nuova. Qui Vico scrive che attraverso questa scienza, da un lato, è affermata l'azione della provvidenza nel mondo e con tale dimostrazione si conferma il pensiero di Platone. Dall'altro lato viene confutato sia Epicuro e con lui i suoi seguaci: Machiavelli e Hobbes; sia Zenone e con lui Spinoza9.

d) Ateo. Questa definizione è l'unica tra le cinque a non provenire né dal Diritto Universale, né dalla Scienza Nuova. Testualmente appartiene, infatti, a una lettera del

1737 che Vico indirizza a Muzio Gaeta, in cui il filosofo napoletano scrive che «con lo stesso metodo geometrico Benedetto Spinoza impone a cervelli deboli una Metafisica dimostrata, che porta all'Ateismo»10.

Un richiamo all'ateismo si può comunque trovare nella “riprensione”, che Vico fa, della filosofia di Cartesio, Spinoza e Locke, che si trova nelle Correzioni, miglioramenti e

aggiunte terze della Scienza Nuova del 1730. Per Vico, infatti, Spinoza ha dichiarato

guerra, con la sua filosofia, a tutte le religioni proprio perché lui non crede in nessuna di quelle esistenti. Scrive il filosofo napoletano:

Cotal maniera di filosofare diede lo scandalo a Benedetto Spinosa, huomo senza

pubblica Religione, e 'n conseguenza rifiuto di tutte le Repubbliche, e per odio di

tutte intimò una guerra aperta a tutte le Religioni: e non dando altro che la

Sostanza; e questa esser' o mente, o corpo; e non terminando né corpo mente, né mente corpo: per tutto ciò stabilì un Dio d'infinita mente, in infinito corpo: e perciò operante per necessità11.

e) Distruttore di repubbliche. L'ultima immagine di Spinoza che la descrizione vichiana

ci restituisce, presenta il filosofo olandese come un distruttore di repubbliche. Sempre

8 SN30, p. 55.

9 «Adunque è di fatto confutato Epicuro, e i di lui seguaci Obbes, e Macchiavello; di fatto è confutato Zenone, e con lui Spinosa: al contrario di fatto è stabilito a favor de' Filosofi Politici, de' quali è Principe Platone, che regola le cose umane la Provvedenza» (Ivi, pp. 376-377).

10 Epistole, p. 190. 11 SN30, p. 437.

nell'edizione del 1730 si ha un feroce attacco a Spinoza. Qui Vico individua il motivo dell'intento spinoziano, cioè quello di distruggere i sistemi statali, nel suo essere ebreo e, perciò, nel non appartenere a nessuno Stato12. Questa identificazione della religione ebraica come non avente stato contraddice, tra l'altro, quello che lo stesso Vico sostiene nella sezione Dei Principi. Qui, egli dice che tutte le nazioni credono in una divinità provvedente: quella degli ebrei, dei cristiani, dei pagani e degli islamici. «Quindi né gli epicurei, che non dànno altro che corpo e, col corpo, il caso, né gli stoici, che dànno Dio in infinito corpo infinita mente soggetta al fato, poterono ragionare di repubblica né di leggi, e Benedetto Spinosa parla di Repubblica come d'una società che fusse di mercadanti»13. Dove la società di mercadanti non è quella ebraica, ma quella olandese multietnica, dove non si ha una sola religione, ma molte. Quindi, lo “stato olandese”, se stato si può definire, appare agli occhi di Vico come una minaccia contro gli altri stati monarchici dell'età moderna, che, a differenza della politica libertaria della repubblica olandese, ne perseguivano una conservatrice.

Passiamo ora all'implicita presenza di Spinoza in Vico. Riguardo a tale argomento si è visto poco fa la sospetta coincidenza tra il passo del Diritto Universale con quello dello scolio della proposizione 35 della quarta parte dell'Etica. Oltre a questa prima somiglianza si può citare una seconda affinità tra i due testi. Infatti, la degnità LX della

Scienza Nuova del 1730 e la sua corrispondente nell'edizione del 1744, la LXIV,

parafrasano, per non dire ricalcano, la proposizione VII della seconda parte dell'Etica (Natura e origine della mente), la quale può essere considerata come uno dei cardini su cui si regge l'intera filosofia spinoziana.

La regola espressa nell'Etica recita così: «l'ordine e la connessione delle idee è lo stesso che l'ordine e la connessione delle cose [ordo, et connexio idearum idem est, ac ordo, et

connexio rerum]»14. Invece Vico, nell'edizione del 1730, scrive che «l'ordine dell'umane

idee procede secondo l'ordine delle umane cose»15; mentre nella ristampa posteriore riformula la precedente frase in questo modo: «l'ordine dell'idee dee procedere secondo l'ordine delle cose»16.

Entrambe le degnità vichiane presentano elementi di continuità e di discontinuità con la

12 «[...] siccome Benedetto Spinosa, il quale, perché Ebreo, non aveva niuna Repubblica, truovò una Metafisica da rovinare tutte le Repubbliche del Mondo» (Ivi, p. 56).

13 SN44, §335.

14 E II, prop. 7, pp. 82-83. 15 SN30, p.

proposizione spinoziana17. Nella versione del 1730 si può individuare una concordanza tra il verbo vichiano procede e l'idem est di Spinoza. Invece, Vico si discosta dal filosofo olandese quando aggiunge l'aggettivo umane per definire le idee e le cose. Questo fa sì, da un lato, che l'ambito a cui si riferisce la degnità sia più ristretto rispetto alla proposizione dell'Etica; dall'altro lato l'assioma vichiano si lega maggiormente a quello successivo, cioè la degnità LXI, in cui si mostra il modello ascensionale che caratterizza l'ordine delle cose umane.

Nell'edizione del 1744 a mutare sono proprio i due punti che sono stati analizzati adesso. Ora, al posto di procede si utilizza dee procedere. L'analogia con l'idem est che la prima versione presenta, adesso non c'è più. Allo stesso tempo sparisce, in questa seconda versione, l'aggettivo umane. Quindi, adesso si parla solo di idee e di cose in generale. Quest'ultimo cambiamento, da una parte, rende la degnità più fedele al modello originale, cioè alla proposizione dell'Etica. Dall'altro lato l'assioma è meno legato a quello successivo (degnità LXV nell'edizione del 1744, di cui si è già parlato nel quarto paragrafo del terzo capitolo). Non credo però, che da ciò si debba affermare, come fa Carillo, «la maggiore coerenza della stesura del '30, in cui l'“ordine delle umane cose” della Degnità LX armonizza senza iato con l'“ordine delle cose umane” della LXI»18. A mio avviso il contesto a cui si riferisce la degnità nell'edizione del 1730 è molto più limitato rispetto a quello del 1744. Nel primo (1730), infatti, se le due sono così collegate, l'ambito a cui si riferiscono, se si guarda a quello che è stato concluso precedentemente riguardo alla degnità LXV, è quello dell'uomo e in particolare del linguaggio e della sua evoluzione. Quindi, se così stanno le cose, il contesto di riferimento delle due degnità, ma soprattutto della prima rispetto alla seconda, è più ristretto. Al contrario, nella seconda versione (1744), eliminando l'aggettivo umane, Vico non rende le due degnità meno coerenti fra di loro, ma fa della prima delle due (LXIV) un principio universale, valido sia per il linguaggio, che è umana cosa, sia per le idee e le cose nella loro generalità. Attraverso questo cambiamento, Vico rende la degnità adattabile all'intero contesto naturale.

Tornando, poi, al rapporto tra le due versioni della degnità con la proposizione di Spinoza, si può notare come Vico non identifichi, a differenza del filosofo olandese, l'ordine delle idee con l'ordine delle cose. Le seconde devono procedere dalle prime.

17 Su ciò cfr. G. Carillo, Vico..., op. cit., pp. 141-149. 18 Ivi, p. 142.

Nella prospettiva spinoziana, invece, il concetto non va inteso in questo senso. Tale proposizione è, infatti, la presentazione conclusiva del rapporto mente-corpo, che viene sviluppato nelle sei proposizioni precedenti. Le conclusioni a cui arriva Spinoza sono inaccettabili per Vico, che, perciò, rielabora tale definizione dandole un significato più congeniale al suo pensiero.

Se si analizza nel dettaglio la proposizione di Spinoza, si coglie bene la differenza che c'è, tra l'una e l'altra filosofia, riguardo a tale principio. Il filosofo olandese dimostra il suo enunciato attraverso il quarto assioma della prima parte: «la conoscenza dell'effetto dipende dalla conoscenza della causa e la implica»19. Lo stesso vale per le idee di ogni causato, di ogni effetto: dipendono dalla conoscenza della loro causa. Quale sia la causa delle idee, Spinoza lo dice nella dimostrazione della proposizione 9: «l'ordine e la connessione delle idee si identifica con l'ordine e la connessione delle cause; dunque la causa di una singola idea è un'altra idea, cioè Dio»20. Quest'ultimo è la causa di ogni nostra idea, da lui deriva tutto. Bisogna, però, tenere presente una cosa, avverte Spinoza, e cioè che

se tutto quanto può essere percepito da un intelletto infinito come costitutivo dell'essenza di una sostanza, appartiene soltanto ad un'unica sostanza, e di conseguenza che la sostanza pensante e la sostanza estesa sono un'unica e medesima sostanza, che si comprende ora sotto questo, ora sotto quell'attributo. Così pure un modo dell'estensione e l'idea di quel modo sono un'unica e medesima cosa, ma espressa in due modi; […] e dunque, sia che concepiamo la natura sotto l'attributo dell'estensione, sia sotto quello del pensiero, sia sotto qualunque altro, troveremo lo stesso unico ordine, ossia la stessa unica connessione di cause, cioè le stesse cose derivanti reciprocamente l'una dall'altra21.

Spinoza elabora, qui, il principio metafisico della sua filosofia: l'identità tra sostanza estesa e sostanza pensante, cioè tra mente e corpo. Entrambi, res extensa e res cogitans, seguono lo stesso ordine basandosi su una relazione di causa effetto. Allo stesso tempo, bisogna tenere presente che l'idea di una cosa non si sviluppa nell'uomo a partire da qualcosa, da un corpo, che sta al suo esterno e la medesima circostanza vale per il caso contrario. Mente e corpo sono lo stesso, ma è come se fra loro non ci fossero rapporti. «È, infatti, logicamente e ontologicamente impossibile che un corpo sia causa di un'idea e che un'idea sia causa di un corpo. […] Sicché la causa di un'idea o percezione non può

19 E I, assioma 4, p. 25. 20 E II, prop. 9 dim., p. 87. 21 E II, prop. 7 sc., p. 83.

che essere un'altra idea o percezione, ovvero un altro modo dello stesso attributo, mai

l'oggetto che la rappresenta»22.

Detto ciò, si può riscontrare un'indubitabile differenza tra le conclusioni a cui giunge Spinoza con questa proposizione e il pensiero di Vico, il quale non considera sullo stesso piano la mente e il corpo. Ma, allo stesso tempo, Vico, pur non condividendo il sostrato su cui si fonda il principio spinoziano, accetta la proposizione presa nella sua generalità.

Il rapporto tra Vico e Spinoza non si ferma però qui. Anzi, sarebbe proprio il caso di partire da quest'ultimo punto per sviluppare un ulteriore confronto tra i due filosofi. Come si sa, nella seconda parte dell'Etica, nelle proposizioni successive a quella appena analizzata, Spinoza mostra la natura della mente a partire dalla natura del corpo per poi passare a illustrare, prima, la conoscenza inadeguata e poi, quella adeguata. È proprio riguardo alla conoscenza inadeguata, cioè all'immaginazione e al modo in cui questa si sviluppa rispetto al corpo, che si possono scorgere delle interessanti analogie tra il pensiero di Vico e di Spinoza23. Per capire ciò, è necessario quindi, analizzare come tali concetti vengano sviluppati nella filosofia spinoziana.

Nel documento Il rapporto tra mente e corpo in Vico (pagine 145-152)