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Parte I – Quadro teorico di riferimento 8

CAPITOLO 1 La Corporate Social Responsability 8

1.2 Tendenze del dibattito moderno sulla responsabilità sociale 31

1.2.1   Fattori di successo e critiche alla CSR 32

La Corporate Social Responsibility è diventata, col tempo, un elemento molto importante nell’ambito del marketing organizzativo e della comunicazione aziendale, poiché rimanda all’obbligo che ciascuna impresa ha di proteggere e migliorare il benessere sociale (Staples, 2004), nonché di garantire benefici equi e sostenibili ai vari stakeholder (Turban and Greening, 1996; Sen and Bhattacharya, 2001). Alcuni studi condotti a livello accademico hanno evidenziato che il successo di una strategia di CSR si basa su sei fattori principali (Morimoto et al., 2004): una buona gestione dei rapporti con gli stakeholder, una forte leadership aziendale, l’attribuzione di uno specifico grado di priorità alle attività di CSR, l’integrazione di queste ultime con le politiche aziendali, il rispetto della normativa nazionale e internazionale, il coinvolgimento e il coordinamento tra le parti (es. governi, imprese, NGO e società civile). Concorrono al successo della CSR anche fattori specifici come la capacità di valutare i benefit derivanti dalle attività etco- sociali e il supporto a esse garantito dal top management (Sangle, 2010).

Il principale punto di forza della Corporate Social Responsibility è dato dalla capacità di contribuire all’acquisizione di un concreto vantaggio competitivo, favorendo l’integrazione delle problematiche legate alla sostenibilità (sociale, economica e ambientale) con le funzioni aziendali più tradizionali, come la supply chain, il marketing, la produzione, le risorse umane, la R&S, la logistica e l’assistenza post- vendita (Porter and Kramer, 2006). Perché ciò avvenga, è necessario che le aziende valutino attentamente i benefici effettivamente ottenibili dai programmi di CSR, così da favorire l’acquisizione o l’internalizzazione di questi ultimi, piuttosto che la semplice produzione di beni di natura collettiva condivisibili con altri membri della comunità industriale e/o con la società civile più in generale (Rumelt, 1980; Porter, 1985). Il buon esito delle strategie e delle pratiche di CSR è dovuto generalmente alla capacità di gestire e valorizzare il rapporto con i diversi gruppi di stakeholder, attività che ha bisogno di un coinvolgimento diretto del management, che deve essere in grado di fornire le giuste risposte agli stakeholder che controllano le risorse critiche, d’influenzare l’opinione pubblica e controllare l’accesso alle informazioni (Rowley, 1997; Frooman, 1999), al fine di ottenere un vantaggio competitivo in termini di fidelizzazione dei clienti, miglioramento delle relazioni con i fornitori, turnover del personale e rafforzamento della reputazione aziendale (Berman et al., 1999; Hillman and Keim, 2001). Il coinvolgimento dei manager nell’attuazione delle strategie di CSR rappresenta un importante fattore di successo, poiché in questo modo essi hanno la possibilità di valutare i benefici ottenibili nel lungo periodo dalle attività socialmente responsabili, a fronte di possibili costi da sostenere nel breve periodo (Davis, 1977; Steiner, 1980). Tra i rischi che affliggono le attività socialmente responsabili rientrano quelli legati alla possibile mancanza di coordinamento con le altre divisioni, che possono rendere l’area di CSR parallela all’organizzazione, in virtù del fatto che vi partecipano i soli specialisti.

A livello accademico, la Corporate Social Responsibility è stata oggetto di critiche e obiezioni, in base alle quali essa è considerata:

• Una sorta di “digressione” dai tradizionali obiettivi istituzionali (es. raggiungimento del profitto);

• Un’espressione dell’imperialismo culturale occidentale;

• Una forma d’ipocrisia attraverso cui nascondere i reali interessi aziendali; • Una forma di dumping verso le aziende dei paesi in via di sviluppo.

Un secondo filone di critiche guarda, invece, alla responsabilità sociale come a una delle tante mode che, periodicamente, costellano il mondo manageriale, ragion per cui la CSR non può essere considerata un orientamento o un approccio manageriale duraturo, quanto piuttosto una generica espressione filantropica, che non ha altre motivazioni se non quella di destinare una quota delle risorse aziendali ad una o più cause sociali. Quest’atteggiamento è considerato espressione del cosiddetto “greenwashing”15 Un fenomeno la cui definizione è spesso vaga e ridondante (Greer

and Bruno, 1996) e che si verifica quando le aziende scelgono di divulgare le sole informazioni positive riguardanti le proprie performance ambientali e sociali, in modo da creare un’immagine eccessivamente positiva (Deegan and Rankin, 1996), che genera sospetto e scetticismo nella controparte. Ne consegue, che tale l’impegno è considerato più che espressione sincera di una cultura aziendale orientata alla sostenibilità, un’operazione di facciata, attraverso cui ottenere, in modo tutt’altro che trasparente, il sostegno pubblico. Molti studiosi, nel fornire una valutazione critica delle attività socialmente responsabili, pongono l’accento sul fatto che lo scopo principale di qualsiasi azienda è e sempre sarà l’acquisizione di profitti crescenti. Questo filone critico si rifà a Friedman (1962), il quale considera la responsabilità sociale, una grave minaccia per il sistema capitalistico e ritiene che “poche tendenze possono minacciare le fondamenta della nostra libera società come l’accettazione da parte dei responsabili d’impresa di una responsabilità sociale che sia altro dall’ottenere quanto più denaro possibile per gli azionisti” (Friedman, 1962, p. 133). Questa tesi è stata ripresa dallo stesso autore nell’articolo apparso nel 1970 sulle colonne del New York Times dal titolo “La responsabilità sociale dell’impresa è di aumentare i suoi profitti”, le cui tesi sono state ampliate e discusse in un’opera successiva (Friedman, 1993), in cui è chiarito che: “Il vero dovere sociale dell’impresa è ottenere i profitti più elevati – ovviamente in un mercato aperto, corretto e competitivo, producendo così ricchezza e lavoro per tutti nel modo più efficiente possibile” (p. 254).

15 Il termine “greenwashing” è stato utilizzato per la prima volta nel 1986 dall’ambientalista newyorkese Westervelt in un articolo dedicato al rispetto ambientale in ambito alberghiero. Il neologismo è entrato a far parte del lessico anglosassone solo nel 1999, quando fu inserito nel “Concise Oxford English Dictionary” a indicare “la disinformazione divulgata dalle organizzazioni al fine di fornire un’immagine pubblica orientata alla responsabilità ambientale; un’immagine pubblica orientata alla responsabilità ambientale divulgata da o per conto di un’azienda, ma percepita come infondata o volutamente fuorviante”. In ambito economico- manageriale, il greenwashing rappresenta una strategia, risalente agli anni ’70 dello scorso secolo, utilizzata per nascondere o rimediare a eventuali errori o addirittura a disastri ambientali causati dall’irresponsabilità e dalla disattenzione di alcune aziende. Una delle prime denuncie pubbliche di questo fenomeno fu lanciata dalle colonne dell’Independent del 19 febbraio 2006. In questo articolo veniva evidenziato che fra le prime cento aziende quotate alla London Stock Exchange, una su cinque mostrava chiari segni di greenwashing.