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Quante volte si sente affermare: «Io non ho bisogno di andare in chiesa per essere cristiano. me la intendo direttamente con dio e con la mia coscienza». Questa ed altre espressioni sottintendono la convin-zione che la fede sia una questione privata e solamente interiore. Anche quando in occasioni particolari (matrimoni, battesimi, funerali) si può così presenziare ad un rito, gestendo privatamente le proprie emozioni religiose.

La celebrazione, invece, è piuttosto lo spazio dato all’esperienza di fede perché possa diventare ‘atto’ di fede, azione che coinvolge l’intera persona, non solo la sua capacità intellettiva, o solo quella emotiva. In altre parole, perché la fede consista, esista, è necessario che si esprima in un’azione rituale, in un sistema simbolico, in un’organizzazione di molti linguaggi atti a predisporre, a creare le condizioni perché l’incon-tro con il mistero avvenga, sia possibile.

Se la salvezza si gioca tutta sull’incontro tra dio e il suo popolo, il modo di incontrarsi più adatto e completo è quello liturgico, la parteci-pazione reale e attuale al mistero pasquale di cristo, offerta per ritus et preces3 o, in altre parole, nei luoghi di comunicazione e d’incontro che sono le celebrazioni ecclesiali.

Questi luoghi di comunicazione con il mistero, questi sistemi sim-bolici di esperienza della fede non sono strutture esterne contrapposte

3 cf ConCiLio eCuMeniCo vatiCano ii, Costituzione sulla Sacra Liturgia “Sacrosanctum Concilium” [Sc], 4 dicembre 1963, in Enchiridion Vaticanum 1. Documenti ufficiali del Concilio Vaticano II (1962-1965)[Ev], Bologna, dehoniane 1979, n. 48.

al mondo interiore, utili forse ad esprimerlo, ma considerate in qualche modo un peso, una zavorra dalla quale sgravarsi appena possibile, un sovrappiù di fatica per l’interiorità.

chauvet, un maestro contemporaneo in questo ambito, afferma che un rito non è l’esteriorizzazione di idee o di sentimenti interiori, ma è l’azione che ha come prodotto la propria manifestazione. Non viene prima la realtà interiore e poi la sua espressione rituale.4 La fede è quel-lo che è espresso, entra in scena, si identifica e si realizza in quelquel-lo che esprime. Non c’è quindi separazione tra interiorità ed esteriorità.

ma proprio qui sta il problema, oggi più che mai sentito, del divor-zio tra intimità e liturgia, separadivor-zione che compromette l’accompagna-mento fecondo della vita del cristiano. Sembra infatti impossibile poter conciliare preghiera interiore e culto liturgico. Si sente la liturgia spesso mortalmente noiosa e se ne attende la conclusione per poter pregare.

Sedotti dai movimenti spontanei dello spirito, si è convinti che nella libertà delle emozioni soggettive risiede l’autenticità dell’incontro con dio. Eppure tuttavia si è ugualmente attratti dalle forme composte, rassicuranti che la normativa oggettiva garantisce. E così si oscilla tra il pubblico oggettivo e il privato appagante.

Qualcosa qui appare non risolto. Non è compreso il rapporto tra interiorità ed esteriorità, perché corrispondente ad un paradigma an-tropologico bipolare, stigmatizzato nel binomio anima\corpo. L’anima si esprime nel corpo e lo domina, lo spirituale nel materiale, e di questo se ne serve maggiormente nella misura e finché quello ne ha bisogno.

La liturgia rimanda immediatamente all’esteriorità, a ciò che è visi-bile della fede e distrae gli spiriti più ‘raffinati’.

Ora, in una visione antropologica che comprende la persona come unità armonica di un corpo nelle sue singole componenti, mentale, emotiva ed attiva, senza prevaricazioni reciproche, il problema bipola-re del culto sembra risolversi.5

Il rito risponde al bisogno di senso (e ciò implica l’aspetto cognitivo) partendo dalla corporeità, presa nella sua totalità; essa infatti ricorre all’agire perché mossa dall’emozione e in dialettica con la sua ricer-ca di senso. Nell’azione poi è aperta all’intersoggettività e quindi alla

4 cf Chauvet Louis marie, Linguaggio e simbolo. Saggio sui sacramenti, Leumann (Torino), Elledici 1982, 180-187.

5 cf BonaCCorSo Giorgio, Il ‘corpo’ rituale, in Rivista di Pastorale Liturgica 272 (2009) 1, 27-33.

trascendenza, aperta agli altri e all’Altro. Perciò la celebrazione che si esprime soprattutto in azioni corporee non è estranea allo spirito, non

‘distrae’, ma coinvolge l’intera persona, mente, azione ed emozione.6 In essa la forma, l’agire liturgico, la sua struttura simbolica si identi-fica con il contenuto espresso: dire è fare, dire e fare è essere. celebrare la propria fede non è pensarla, ma identificarsi in essa.7

La fede in Gesù cristo non è pensare a lui, ma essere in lui e ciò implica anche il credergli, non come processo di oggettivazione (dio, oggetto dei miei pensieri), ma come processo di immedesimazione, di comunione con lui. Attraverso l’azione liturgica si entra in rapporto con il suo mistero pasquale, si fa esperienza con tutta la propria persona, per mezzo di linguaggi simbolici capaci di far percepire la sua Presenza.8

Tutto questo ha una ricaduta pratica molto problematica: si è pro-pensi ad incoraggiare la preghiera personale al di fuori ed oltre la pre-ghiera liturgica, favorendo quasi una schizofrenia tra intimità e liturgia.

A quest’ultima si attribuisce solo un carattere di esteriorità e di obbliga-torietà. Per liberarsi dal peso e dalla noia che procura, la si sovraccarica di ‘novità’, ‘abbellimenti’ e trucchi definiti eufemisticamente ‘creativi-tà’ liturgica.9

Il celebrare, invece, è fondamentale per l’identità della fede.

Già nel Iv secolo Prospero di Aquitania lo confermava: lex credendi legem statuat supplicandi.10 La fede che la chiesa crede è la fede che ce-lebra e viceversa. Anzi, essa crede in quanto cece-lebra e cece-lebra in quanto crede.11 È la fonte della sua fede, si alimenta e ricrea celebrando, si costituisce e trasforma nei suoi simboli e riti.

6 cf id., La dinamica della celebrazione, in Notiziario. Ufficio Liturgico Nazionale, 30 (maggio 2008), 19-26. L’Autore afferma: «Il dramma di oggi è quel neognosticismo, quell’angelismo che sottovaluta i limiti della terra, dell’essere terra, in una onnipotenza illusoria della mente. Oggi il vero problema non è ‘un corpo senz’anima’, ma un’anima senza corpo» (Ivi 22).

7 cf raPPaPort Roy, Rito e religione nella costruzione dell’umanità, Padova, Ed.

messaggero 2002, 71.

8 cf Guardini Romano, Fenomenologia e teoria della religione, in Scritti filosofici II, milano, Fabbri Ed. 1964, 202.

9 cf il numero unico su: La misa no me dice nada, in Misión Joven. Revista de Pasto-ral Juvenil 50 (2010)399.

10 cf CaPPuYnS maïeul, L’origine des Capitula pseudo-célestiens contre le semipela-gianisme, in Revue Bénedectine 41(1929)156-170.

11 «ciò non vuol dire che la celebrazione liturgico-sacramentale vada considerata come un compendio della fede cattolica, o una trasposizione del dogma, ma piuttosto

Né la chiesa, né il singolo possono vivere la loro fede senza celebra-re. Qui non si intendono soltanto le azioni sacramentali che nella storia della chiesa sono state identificate con i sette sacramenti, ma anche tutte le sane espressioni di religiosità che alimentano e manifestano il credere del cristiano.

Ogni ritualità cristiana è come il corpo simbolico della chiesa attra-verso il quale il mistero di dio incontra il corpo di ogni fedele, coinvol-gendolo nella sua capacità cognitiva, emotiva ed attiva e trasformando-lo nel corpo totale di cristo, capo e membra, la chiesa.12

La liturgia quindi accompagna il credente come l’aria e il cibo per la vita biologica, come la relazione per la sua vita psicologica e sociale: è infatti simbolicamente cibo e incontro.

Lo accompagna nel quotidiano e nelle situazioni fondamentali della vita, nei momenti di transito o di decisione davanti a se stesso (vocazio-ne, malattia, morte, ecc.) o davanti agli altri (responsabilità, decisioni, ecc.), in tutte quelle situazioni dove incontra il proprio mistero e quello dell’Altro.

La liturgia inoltre accompagna ed ha accompagnato la chiesa, ha permesso di esprimersi, di manifestarsi e di crescere (o di involvere) lungo tutte le epoche culturali, dentro al tessuto storico e con i linguag-gi di ogni cultura.

Ha saputo creare strutture rituali come veri e propri percorsi di cre-scita per aiutare singoli e comunità ad entrare nell’esperienza di cristo.

In questi percorsi ben testati dall’esperienza bimillenaria, l’elemento che più li accomuna è il tempo.