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il femminismo radicale statunitense

Questa “dichiarazione di guerra” alla sessualità maschile come inevitabile strumento di dominio sulla donna sfocia in una critica serrata e totale della pornografia, che diventa oggetto di una proposta di ordinanze locali, come strumento di contrasto alla discriminazione e subordinazione del genere femminile. Inoltre, secondo le due autrici dell’ordinanza, la pornografia ha un ruolo preponderante riguardo al problema della violenza sulle donne, a vari livelli:

- nel mondo della pornografia le donne fanno le attrici perché costrette con la violenza e subiscono atti sessuali non voluti. Nel caso in cui le donne dicano di

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avere scelto di fare le attrici in questi film, sono state spinte da condizioni economiche o psicologiche svantaggiate;

- le scene pornografiche sono riconducibili allo schema sadiano della “fanciulla traviata”, per cui anche a partire dal linguaggio questi film impongono la violenza e giustificano lo stupro;

- veicolando un messaggio sessista e discriminatorio nei confronti delle donne, il porno è uno strumento di propaganda politica e di costruzione sociale del dominio maschile.

A sostegno della loro prima tesi, le autrici utilizzano come caso emblematico la vicenda di Linda Marchiano, che recitò con il nome d’arte di Linda Lovelace nel film di Damiano Gola profonda. La Marchiano scrisse diverse biografie in cui denunciò di essere stata costretta a girare quel film, e subì abusi e violenze a causa della sua professione. Le femministe anti-porno accolsero queste sue dichiarazioni in modo acritico e le utilizzarono per confermare la loro tesi per cui le donne nella pornografia sono oggetto di costrizione. Purtroppo, Marchiano subì effettivamente abusi e violenze nel periodo in cui recitava nel film, ma queste violenze erano usate su di lei a casa da suo marito, che non aveva alcun ruolo nella produzione. Questo non significa che non esistano contesti di abuso e di violenza nei film porno, ma la posizione di Dworkin e McKinnon non tiene conto del fatto che in tali casi sono sufficienti una legislazione e un sistema penale capaci di punire i colpevoli e supportare la vittima, e che purtroppo tali abusi e tali violenze non sono più numerose nella pornografia che in altre attività, come ad esempio, la prostituzione. Il paradosso dell’ordinanza di Minneapolis, che porta alla proibizione della pornografia, è che rendere illegale la produzione di tali film renderebbe pericoloso il lavoro delle attrici porno, nella misura in cui nel “sommerso” il ricatto e la violenza diventano più facili da perpetrare perché ancora più difficili da denunciare. Questo è uno degli aspetti più problematici della proibizione di attività che hanno la sessualità come oggetto di scambio: anche la prostituzione è un terreno su cui, ancora oggi, i femminismi non riescono a trovare una posizione comune.

37 L’aspetto più difficoltoso della tesi dell’ordinanza è la convinzione che nessuna donna possa decidere consapevolmente e autonomamente di vendere servizi sessuali, con una logica di infantilizzazione evidente. Le femministe che non concordano con l’ordinanza mettono fortemente in discussione questa posizione, a partire da alcuni aspetti centrali. Il primo è una visione della sessualità delle donne normativa e normalizzante, riconducibile a un desiderio di intimità e all’interno di una cornice sentimentale, per cui non è possibile che alcune donne possano decidere di includere nella loro sessualità anche la vendita di servizi sessuali senza per questo essere disagiate o deviate. Da una lettera scritta da una giovane studentessa che ballava in un locale notturno:

“La loro retorica è fondata su di una falsa e repressiva dicotomia tra la sessualità maschile perversa e predatoria e il richiamo pulito e politicamente corretto del desiderio di intimità delle donne. Alla generazione di mia nonna durante la giovinezza fu insegnato che il desiderio carnale era qualcosa che sentivano solo gli uomini. Sembrava che gli anni Sessanta avessero cambiato tutto ciò” (Strossen, 2005, p. 83).

Il secondo aspetto, conseguente, è che non è accettabile un atteggiamento “maternalistico” di alcune donne su altre donne, convinte di poter decidere al loro posto. Sostanzialmente, significa considerare le donne come perennemente vittime, in cui da un lato l’uomo le rende tali, e dall’altro le “donne madri” le salvano, confermando così lo statuto di vittima, poiché non mettono in discussione la possibilità di una decisione autonoma. Se ci sono donne dalla condizione economica sfavorevole che “sono costrette” a diventare sex workers, la richiesta di superare tali svantaggi potrebbe essere una istanza più complessa ma capace di riconoscere il diritto all’autodeterminazione.

Scriveva Robin Morgan “Theory and practice: pornography and rape”, sostenendo insieme alle femministe radicali che il consumo di pornografia incentiva e giustifica lo stupro delle donne per diverse ragioni: la sessualità del maschio è deterministicamente predatoria a partire dalla considerazione che il pene è un’arma che l’uomo sa di potere utilizzare contro la donna e su cui basa il dominio, e la pornografia rappresenta pedissequamente questo tipo di relazione; il linguaggio usato è volgare contro le donne

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e spesso mette in scena una donna che prima “resiste” alla relazione sessuale e dopo “il NO diventa Sì”, oppure inscena un vero e proprio stupro; la relazione sessuale pornografica rende la donna un oggetto nelle mani dell’uomo e un oggetto dell’eccitazione del consumatore, in una forma di de-umanizzazione che Dworkin e McKinnon paragonano a quelle subite da altre minoranze da parte di razzisti e nazisti. Per sostenere queste tesi durante i dibattiti riportano alcune scene di film pornografici che mostrano questo tipo di sex numbers. Adamo (2004, pp.172-173) contesta questa supposta violenza dei film porno, perché le scene effettivamente violente dei film degli anni ‘70/’80 sono estremamente ridotte e, quando presenti, fanno parte di quella “logica dell’estremo” che non aveva un intento di apologia della violenza, ma che la inscenava come meccanismo di liberazione dalla repressione della morale sessuale tradizionale. Se la risposta di Adamo può risultare comprensibile riguardo ai feature, probabilmente è meno condivisibile riguardo alla produzione attuale dei gonzo, in cui la sottomissione, quando non la violenza, sono presenti se non maggioritari nella loro espressione, a partire dai titoli delle “categorie” dei siti porno, come ad esempio Youporn.

A mettere in discussioni le tesi di Mckinnon e Dworkin sul nesso tra visione di pornografia e stupro sono anche ricerche di psicologia che, proprio in quegli anni, cercano di sondare la conseguenza dell’una sull’altro. La conclusione della maggioranza degli studi è che non ci sia un nesso, come scrive R. Ogier:

“Lo scetticismo riguardo l’esistenza di una relazione causale diretta tra consumo della pornografia e violenza sessuale è divenuto più o meno la regola in tutte le presentazioni sufficientemente oneste dei risultati della ricerca, vale a dire, di fatto, nella stragrande maggioranza dei casi” (Ogier cit. in Adamo, 2004, p.157).

La tesi secondo cui la pornografia influisca sul clima culturale e, indirettamente ma prepotentemente, abbia un ruolo nella disparità di genere e nella discriminazione delle donne, è tra le più condivisibili, se “sfrondata” da facili determinismi e, soprattutto, dall’illusione che eliminare la pornografia sia un modo per eliminare queste prevaricazioni. Molto probabilmente, tuttavia, come sottolinea Staderini (2005), la

39 pornografia offre una sessualità prevalentemente maschilista non causandola, ma rispondendo al target del consumatore, che rappresenta l’ideologia dominante. Si potrebbe dire, quindi, che la pornografia è una conseguenza, più che una causa.