Da questo punto di vista diventa molto interessante la discussione sulla oggettivizzazione del corpo delle donne nella pornografia, in cui si sostiene l’idea che la forma di sessualità che viene rappresentata ha come presupposto la considerazione della donna come di un oggetto sessuale la cui soggettività viene “soggiogata” per poi essere alienata.
Nussbaum (Nussbaum, 1995) coglie la rigidità con cui Dworkin e McKinnon parlano di oggettivizzazione della donna e affronta questo tema a partire proprio dall’ambiguità e dalla “scivolosità” del concetto, in modo complesso e senza mettere in dubbio la sua contestabilità etica, ma mettendo in luce quante siano le sfere in gioco e quanto, nel campo della sessualità, ci siano fattori che non consentono di dare per scontate alcune categorie.
49 Nell’ordinanza contro la pornografia, i privati cittadini potevano denunciare immagini ritenute pornografiche dove le donne fossero “presentate come oggetti sessuali, cose o
merci deumanizzate” (Adamo, 2005, p. 163), perché questo è il modo con cui il porno veicola la sottomissione delle donne, inibendo la loro capacità di agency. Come riporta Nussbaum:
«Per C. McKinnon “l’esperienza intima delle donne dell’oggettualizzazione sessuale (…) definisce ed è sinonimo della vita delle donne come genere femminile”. È ritenuta capace di causare un’esistenza in cui le donne “possono cogliere il sé soltanto come una cosa”. Inoltre, questa esperienza nociva è inevitabile. Con una metafora di grande impatto l’autrice afferma che “tutte le donne vivono nell’oggettualizzazione sessuale allo stesso modo in cui i pesci vivono nell’acqua” - intendendo con ciò, presumibilmente, non solo che l’oggettualizzazione circonda le donne, ma anche che esse ne sono state condizionate al punto che traggono dall’oggettualizzazione il loro stesso nutrimento» (Nussbaum, 1995, p. 15).
Nussbaum (1995) individua sette modi in cui si può trattare come oggetto qualcosa che non lo è, sottolineando come questi modi possano anche coesistere e come alcuni di essi non siano necessariamente condannabili, se contestualizzati. Il modo più legato al discorso della sessualità è quello della strumentalità, che consiste nel considerare un soggetto come un oggetto da usare, appunto, come strumento utile solo ai propri scopi. Riprendendo Kant, questa è una modalità che il filosofo trova imprescindibile dall’attività sessuale, in cui l’altro rappresenta solo un modo per soddisfare il proprio
appetito, e connotando così negativamente la sessualità come degradazione della natura
umana, per cui l’altro non è più un fine ma è solo un mezzo. Per riparare questo “danno morale” nasce l’istituzione del matrimonio, che crea una cornice, perlomeno formale, di rispetto e sostegno reciproci.
Per Dworkin e McKinnon, invece, l’istituzione matrimoniale va abolita, come tutte le strutture sociali che consentono all’uomo di erotizzare il potere avvalendosi della
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gerarchia sessuale creata dal suo stesso dominio sulla donna e che sono necessarie per il suo continuo esercizio.
Nussbaum (1995) suggerisce una lettura più complessa dell’oggettualizzazione della donna, a partire non dai modi in cui essa può essere rappresentata, ma dall’intenzione con cui si agisce. Se ciò che viene considerato eccitante da parte di un uomo è trattare la donna come un oggetto, come espressione del potere che ritiene di possedere, allora è un comportamento eticamente inaccettabile.
Ma ci sono situazioni in cui “rendersi oggetto” diventa un modo per vivere la sessualità pienamente e autonomamente, e Nussbaum riprende i romanzi di Lawrence per mostrare come alcuni modi che, apparentemente, possono sembrare oggettivizzanti, in realtà propongono una visione diversa:
“In effetti, Mellors, è l’unico personaggio del romanzo che vede Connie come un fine in sé e questa assenza di strumentalizzazione, e la promozione dell’autonomia di lei che vi è collegata, sono strettamente connesse all’interesse sessuale di lui” (Nussbaum, 1995, p. 81).
Se ciò che definisce pornografia è l’intenzione dello spettatore, ciò che definisce l’oggettivizzazione positiva o negativa nella sessualità è la relazione tra i soggetti, riportando la questione del potere non come espressione del dominio dell’uomo sulla donna, ma soprattutto come espressione dell’incapacità, consapevole o condizionata, di costruire relazioni tra i sessi simmetriche e libere (Nussbaum, 1995).
Uno scoglio importante che ostacola questa costruzione è il diffuso pregiudizio che il desiderio femminile “funzioni” all’interno di un rapporto stabile e duraturo, mentre per gli uomini sia indiscriminato e instabile. In questo caso è necessario specificare che per desiderio si intende l’eccitazione sessuale e non l’accezione più complessa che attiene anche alla sfera emotiva e razionale. La neuropsicologa Chivers (Bergner, 2014), allieva del sessuologo Freund, applicò al desiderio femminile lo stesso metodo di indagine in laboratorio che elaborò il suo maestro per quello maschile: il pletismografo, uno
51 strumento che rileva il flusso sanguigno agli organi genitali, i cui dati vengono elaborati considerando un maggiore afflusso come espressione dell’eccitazione. Questo strumento viene applicato alle volontarie, di cui si chiede l’orientamento sessuale, mentre devono osservare una sequenza di immagini e viene chiesto loro di esprimere il loro grado di eccitazione “consapevole”. I dati che emergono sono interessanti: le donne hanno un grado di risposta al pletismografo sostanzialmente “indiscriminato”, l’eccitazione risponde anche a stimoli che non sono considerati “tipici” per la categoria, persino ad immagini di un rapporto sessuale tra animali, e l’altro elemento è che il grado di eccitazione registrato non corrisponde quasi mai a quello esplicitato nel questionario. Purtroppo, da questo tipo di indagine non è possibile stabilire se la mancata sintonia deriva da una forma di inconsapevolezza della propria eccitazione, o da una forma di autocensura. Rimane il dato, per quanto poco consistente, che l’eccitazione femminile risponde a molti più stimoli che quella maschile, e non il contrario, come comunemente si sarebbe portati a pensare.
Anche in questo caso, il dato biologico non significa deterministicamente che l’eccitazione polimorfa della donna è indicatore di una sessualità indiscriminata, che è stata “sottomessa” all’uomo. Non è possibile ridurre la sessualità di un soggetto alla sola espressione dell’eccitazione o ai rapporti di forza della cultura in cui vive; per quanto sia importante esserne consapevoli e approfondire il loro intreccio, è centrale tenere conto della possibilità di scelta e della complessità della sessualità stessa, e delle relazioni che si instaurano tramite essa. Infatti, se il desiderio sessuale può essere slegato da una relazione intima, ciò non significa che non si possa scegliere in modo autodeterminato di costruire una relazione in cui sia presente la sessualità, così come deve essere superato il pregiudizio che l’intimità sia una condizione necessaria per l’espressione del desiderio femminile. Come propone Butler (1996), per avviare e compiere i cambiamenti necessari per la messa in discussione del dominio maschile, anche parte del femminismo deve fare uno sforzo:
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“…le femministe devono abbracciare una politica di dis-identificazione femminile a livello dell’essenza femminile” (p.98)
Come possibilità di riconoscere i diversi modi dell’essere donna e di agire la sessualità, uscendo dal labirinto dell’essenzialismo/naturalismo che, da posizione femministe, condanna ogni donna a un destino biologico su cui non può agire.
Le diverse correnti del dibattito femminista hanno spesso posto questo problema, cercando anche nel canale della comunicazione pornografica un modo di evidenziarlo e superarlo, rendendo impossibile una definizione univoca della pornografia in sé, come l’espressione monolitica di un desiderio maschile violento e alienante, pur non sottraendosi alla ambiguità e negatività di alcune sue rappresentazioni.
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