L’antropologia si è diffusamente occupata dei riti di passaggio, come forma di protezione e di riproduzione delle società. I cambiamenti più significativi dell’esistenza individuale, attraverso i riti di passaggio, diventano un elemento inserito all’interno del sistema collettivo, che, attraverso la ritualizzazione, li scrive nella storia della società
131 stessa e ne “disattiva” la potenziale carica di pericolosità. La “pericolosità” di alcuni eventi della vita è data dalla loro vicinanza con alcune regioni simbolicamente cariche di significati, come quelle della morte e del sangue. L’antropologia è concorde nel ritenere che si siano costruiti dei rituali sociali per controllare quei momenti più rischiosi, come quelli legati alla nascita, alla morte e all’iniziazione sessuale. Inoltre, i riti di passaggio hanno una forte componente legata alla genderizzazione dei soggetti. Risulta quindi evidente come la fase della vita in cui si passa dall’infanzia all’età adulta sia simbolicamente molto “piena”, tanto da richiedere rituali di passaggio articolati e, spesso, connotati da tratti molto forti, anche violenti, come la scarificazione (Aime,2014). Aime, dopo una spiegazione sulle motivazioni di tali riti, rifacendosi ai grandi precursori come Van Gennep e Malinowski, cerca di trovare nelle nostre società dei comportamenti analoghi. Secondo l’Autore, soltanto l’esame di maturità può ricordare il rituale collettivo del passaggio di età, trascurando che non tutti i ragazzi e le ragazze giungono alla conclusione della scuola secondaria di secondo grado. Inoltre, nelle società in cui il passaggio dall’ infanzia alla maturità avviene in modo ritualizzato, la traiettoria esistenziale è sostanzialmente lineare, con tappe precise, e la formazione termina ad un’età che coincide con la pubertà. Nella nostra, prima della maggiore età, che senso avrebbe istituire dei passaggi? Considerando anche il solo aspetto legale, al di sotto dei 18 anni i soggetti non hanno piena responsabilità giuridica; data questa circostanza non è chiaro come mai l’Autore registri questo presunto “ritardo” dell’agire collettivo. Secondo l’Autore, le motivazioni dell’assenza di tali riti “sociali”, sono individuabili nelle condizioni sociali ed economiche in cui viviamo, ma l’Autore si concentra prevalentemente sulle peculiarità delle famiglie italiane, che si contraddistinguono per essere “famiglie allungate”, in cui i giovani permangono ben oltre la fine dell’adolescenza. Questo è dovuto, almeno in parte, alla precarietà nel mondo del lavoro e alla difficoltà di rendersi autonomi sul piano economico, ma, secondo l’Autore, c’è un motivo culturale se le giovani generazioni, invece che organizzarsi collettivamente per mutare le condizioni concrete, accettano di rimanere in casa con i genitori, pur vivendolo come un fallimento. Questo motivo è da ricercare
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nell’assenza di autorità delle famiglie, che non hanno agito il conflitto con i figli, e pertanto attraverso la complicità e la negoziazione non hanno incentivato la loro emancipazione. Anche Ammaniti (2015) sottolinea la mancanza di famiglie capaci di sostenere l’emancipazione dei figli e delle figlie perché i genitori sono ancora immaturi, e adolescenti essi stessi. Il passaggio dallo stile autoritario sembra abbia lasciato soltanto un vuoto educativo, per cui le famiglie non sono più competenti nel gestire e accompagnare la crescita dei soggetti. A partire dall’asilo d’infanzia, il problema dei bambini e delle bambine sono i genitori che “non sanno più dare delle regole e farle rispettare”. Questa nostalgia dell’autorità rischia di far perdere di vista quale sia la grande conquista di questo cambiamento, e di quanto sia, invece, una sfida da cogliere quella di costruire dei percorsi di alleanza per uno stile educativo democratico. I “riti di passaggio” della società complessa non possono essere paragonati a quelli delle società tradizionali, perché la linearità dei percorsi di vita non è più possibile, e se, da un lato, questo è un elemento di problematicità, non va dimenticato che rappresenta dall’altro più opportunità. Oggi, le famiglie hanno stili educativi e caratteristiche morfologiche che le rendono diverse l’una dall’altra e i soggetti che ne fanno parte non sono assimilabili: condividono sicuramente alcuni aspetti, come la maturazione fisiologica, ma molti altri aspetti della loro vita sono diversi. Anche gli stessi riti, quindi, sono molto più legati ai contesti individuali. Questo può rappresentare una criticità dove le famiglie si mostrano in difficoltà rispetto ad alcuni problemi che si pongono nell’educare i preadolescenti, a partire dalla grande questione del web. Ma anche in questo caso, la “nostalgia dell’autorità” non fornisce alcuna indicazione utile, sarebbe più efficace, probabilmente, progettare percorsi di sostegno alla genitorialità in un’ottica di empowerment delle famiglie. Il carico della famiglia nella società complessa è già piuttosto pesante, è un po' troppo semplicistico ridurre tutte le responsabilità educative a questa istituzione, considerando comunque che ogni contesto di vita contribuisce a formare i soggetti. Forse sarebbe importante porsi alcune domande, come ad esempio se in realtà non sia solo la famiglia ad avere rinunciato allo stile autoritario, e le altre istituzioni, come la scuola, non siano invece in grande difficoltà, perché incapaci di
133 attuare lo stesso cambiamento. Se fosse così, le capacità di negoziazione e le competenze dialogiche dei soggetti educativi, con ogni probabilità, in un contesto che non accetta la possibilità della negoziazione, sarebbero percepite principalmente come problemi.
Con questo non si vuole negare che le famiglie possano avere atteggiamenti di iperprotezione e di proiezione nei confronti dei figli e delle figlie, con l’inevitabile conseguenza di “bloccarne” la crescita e obbligare a scelte orientate dai desideri dell’adulto, trascurando il benessere dei bambini e delle bambine. Questi sono fenomeni diffusi e deleteri, per i minori innanzitutto, e per l’alleanza educativa tra i diversi attori. Si vuole solo sottolineare come alcuni autori non forniscano una “terza via” tra l’autorità e il lassismo educativo, una traiettoria ancora da definire ma che non può essere abbandonata a causa della paura e della semplificazione. La conclusione a cui giunge Aime è che la mancanza di un controllo autoritario si connota come un comportamento “assente”, e tale assenza delega, di fatto, tutta la portata dei “riti di passaggio non ritualizzati” al mondo del consumo, e “alle bande”, due attori che offrono degli strumenti per costruire la propria identità. Soprattutto per quanto riguarda il tema del consumismo, Aime probabilmente coglie un aspetto importante. Il conformismo è una caratteristica della preadolescenza e che permane per quasi tutta l’adolescenza perché è parte del processo di costruzione dell’identità. Ciò di cui non tiene conto è che il mercato mette “gli occhi” sui minori a partire da età ben più precoci, e le famiglie già da molto tempo hanno dovuto decidere il proprio stile educativo riguardo a questi aspetti. Il compito più difficile delle famiglie è proprio quello di stabilire i nuovi “riti di passaggio” in un contesto che complica moltissimo questa cruciale funzione educativa e che non fornisce direttive: per comprenderne la portata è sufficiente pensare alla discussione sull’acquisto dello smartphone che, nelle case degli italiani, avviene oggi
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quando i bambini e le bambine hanno 10 anni. E cercano di resistere fino al superamento dei 1211.