Nell’alveo della Rivoluzione sessuale, prende corpo la riflessione della seconda ondata del femminismo, con una elaborazione teorica e politica plurale sia per paradigmi che per strategie, ma che ha il suo primo e comune riferimento culturale in Sexual Politics di Kate Millett (Millett, 1971). L’autrice sostiene che la “rivoluzione sessuale” ha messo in discussione solo alcuni aspetti della tradizionale relazione tra i sessi ma non è riuscita a sconfiggere il patriarcato, inteso come il dominio dell’uomo sulla donna, poiché non ha abolito la famiglia come nucleo centrale del sessismo, da cui nasce e si riproduce il sessismo nella società. L’autrice, al contrario di una parte consistente dei fautori della “rivoluzione”, sostiene che il dominio sessuale non sia causato dal dominio di classe, per quanto ne sia una sovrastruttura importante, e che non sarebbe comunque abolito a fronte di un rovesciamento del potere politico ed economico. Per ottenere questo risultato è necessario un ulteriore cambiamento culturale.
In questo testo la Millett mette in luce il sessismo ampiamente presente in testi letterari e autori molto importanti e popolari del ventesimo secolo:
“… La cosiddetta libera e lieta sessualità che (D.H. Lawrence) proclama nasconde di
fatto una serie di sistemazioni autoritarie che concedono al maschio una licenza assoluta, in un quadro in cui la donna è relegata in una condizione esclusivamente sessuale, rozzamente biologica: all’uomo umano e animale, intellettuale e sessuale si contrappone la donna solo animale, solo sessuale” (Millett, 1971, p. 225)
Un altro degli elementi teorici centrali di Sexual Politics, che sarà molto ripreso dalle femministe antiporno, è proprio quello che Millett chiama “psicologia dell’oppresso”:
“L’oppressione crea una psicologia nell’oppresso. Il marxismo, per quanto sagace nell’analizzare la situazione economica e politica di questi individui, ha spesso trascurato, forse con inquieta costernazione, di rilevare come gli oppressi siano profondamente corrotti dalla loro situazione, come invidino e ammirino senza limiti i loro padroni, completamente inquinati dalle loro idee e dai loro valori, e come perfino il loro atteggiamento nei confronti di se stessi sia dettato da coloro che li posseggono.
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Genet è stato un servo… I suoi drammi maturi sono studi di quella che si potrebbe definire la mentalità coloniale o femminile dell’oppressione interiorizzata, la quale deve vincere se stessa prima di poter essere libera” (Millett, 1971, p 425).
Se queste sono le parole d’ordine della seconda ondata, le ulteriori elaborazioni e i dibattiti serrati portano a una evoluzione di tali concetti; nella maggioranza dei paesi europei e negli Stati Uniti prendono forma due principali filoni di pensiero che si possono distinguere proprio nella riflessione sui “risultati” della rivoluzione sessuale e sull’atteggiamento riguardo alla pornografia, pur nella consapevolezza che si tratti di un panorama variegato e correndo il rischio di semplificare un dibattito ampio e ricco di sfumature. Adamo (2004) distingue i gruppi in femministe radicali e femministe pro- sex. Le prime hanno le proprie esponenti nei collettivi di Boston e New York e si distinguono per la scelta e la proposta del separatismo, in cui l’amore omosessuale tra donne diventa una scelta politica e personale come reazione a quella che definiscono la “controrivoluzione sessuale”, in quanto non mette in discussione l’ideologia del dominio maschilista, ma si limita a liberalizzare le pratiche eterosessuali ai fini di una maggiore soddisfazione del maschio: anche la pillola contraccettiva e la legalizzazione dell’aborto sono considerati strumenti per l’esercizio di una sessualità maschile deresponsabilizzata. Per questi gruppi, negli anni ‘68/69, il ruolo della pornografia è marginale per quanto inserita tra gli elementi a favore delle loro tesi sulla continuità con il modello di relazioni tra generi precedente. Ma in questi anni, la proposta con maggiore seguito è quella del filone pro-sex, che vede la Greer (1972) come una delle attiviste e teoriche più accreditate con il suo libro “L’eunuco femmina”, in cui non lesina critiche alle permanenze del dominio patriarcale, ma propone di riprendere i fili della rivoluzione sessuale:
“Il rifiuto dei rapporti sessuali come tattica rivoluzionaria è estremamente pericoloso, perché non costituisce un atto autentico e perché conduce alla schiavitù nei termini in cui essa è ancora possibile, mentre invece il sesso è il terreno di confronto principale sul quale raggiungere un accordo sui nuovi valori” (p.309).
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Questa posizione diventa minoritaria nella seconda metà degli anni ’70, probabilmente a causa del proliferare della pornografia e del dibattito che essa suscita, e prendono maggiori forze e risonanza le posizioni contro il porno. La National Organization for Women, nata nel ‘69, con l’obiettivo di supportare le rivendicazioni femministe e in particolare di contrastare la violenza di genere, nel ’76 cambia nome in Women against Pornography.
La motivazione principale di questo cambiamento è che la pornografia è un prodotto che mostra la violenza sulle donne e, nel farlo, non solo la giustifica ma la incentiva. McKinnon e Dworkin pubblicano diversi libri, promuovono seminari e dibattiti pubblici per sostenere la necessità di proibire la pornografia, le loro tesi dividono in modo netto il movimento femminista e trovano alleanze, probabilmente indesiderate, ma utili, nella destra reazionaria. Il contributo di Lahure (2014) chiarisce quali siano le differenti posizioni di partenza tra movimento abolizionista e proibizionista riguardo alla pornografia, per quanto abbiano poi, strategicamente, trovato una convergenza. Il movimento abolizionista parte dalla necessità di difendere la morale pubblica e le istituzioni tradizionali come la famiglia dal rischio di offesa e di messa in discussione rappresentato dalla pornografia; il movimento proibizionista chiede la censura della pornografia perché considerata come veicolo di messaggi discriminatori e violenti, e, in nome del diritto all’uguaglianza, i suoi prodotti non dovrebbero essere sul mercato e i produttori dovrebbero essere multati.
Sono molti gli aspetti problematici di questa proposta che vede McKinnon e Dworkin in prima fila, sia negli aspetti teorici, sia nella loro divulgazione e ricaduta concreta.
L’assunto iniziale da cui partono è una lettura del rapporto sessuale che per la donna è inevitabilmente degradante ed è assimilabile alla violenza sessuale. Come nota Strossen:
“L’equivalenza di tutti i rapporti eterosessuali e della violenza carnale, che caratterizza l’analisi femminista contro la pornografia, è esposta in termini particolarmente drammatici nel libro della Dworkin: Intercourse. Dal libro: il rapporto sessuale esprime un significato o il significato di rendere la donna psicologicamente inferiore.
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La scrittrice vuole dimostrare che le invasioni fisiche del corpo di una donna, aspetto fisiologico essenziale del rapporto genitale eterosessuale, inevitabilmente implicano il medesimo tipo di soggiogamento e di perdita della libertà che avviene quando le Forze Armate di un Paese ne invadono e ne occupano un altro: il significato politico del rapporto sessuale per le donne è la fondamentale domanda del femminismo e della libertà: può un popolo occupato- fisicamente occupato-, internamente invaso- essere libero?” (2005, p. 13).
La teoria che ogni rapporto sessuale sia una violenza carnale, e che le donne che lo accettano/desiderano siano delle “collaborazioniste” che hanno introiettato la sottomissione e la denigrazione, porta alla considerazione che il sesso in quanto tale, se agito dalla donna in una relazione eterosessuale, è inevitabilmente degradante, perché non è frutto di una scelta e incarna il dominio politico maschile, che si perpetra attraverso “l’imposizione” del pene, che, per “sua natura”, è un’arma. Dworkin, in
Pornography: Men Possessing Women, scrive:
“La forza – la violenza del maschio che conferma la sua mascolinità - è vista come
l’essenziale intenzione del pene, ciò che principalmente lo anima per essere quel che è. (…) Questo pene deve incarnare la violenza del maschio perché egli possa essere maschio. La violenza è il maschio; il maschio è il pene (…). Quel che il pene può fare deve essere fatto per forza perché un maschio sia un maschio” (Dworkin, 2005, p.16).