• Non ci sono risultati.

Formati pedagogici, routines e rituels

Il posizionamento dell’opera

5. I formati pedagogic

5.6. Formati pedagogici, routines e rituels

Quale portato di innovazione il concetto di formato pedagogico contiene rispetto ad altre forme di organizzazione o di ricorsività che è possibile os- servare sia nell’azione didattica del singolo docente, sia nelle prassi conso- lidate a livello di sistema scolastico e di comunità professionale?

Il primo elemento è quello della non intenzionalità del formato nella prassi dell’insegnante, cosa che lo distingue per esempio dalla routine. I formati pedagogici si innescano in maniera spontanea e anche quando si riscontrano nella progettazione, non ne emergono in quanto tali, ma vi sono descritti in forma di attività. Essi sono infatti incarnati, incorporati e non possono essere trasformati per esempio con la sola forza di un intervento di formazione o di istruzione (Leplat, 2004).

Al contrario la routine è un’intenzione messa in atto in quanto risponde alla necessità, analizzata dall’insegnante, di rendere ricorrenti alcuni aspetti dell’attività per consolidarla. I docenti hanno consapevolezza che la routine è funzionale, non solo perché permette un risparmio di energie all’insegnante, ma in termini ontologici: la ciclicità degli eventi è infatti un punto di riferimento per l’alunno, sia a livello di acquisizione delle abilità di base, sia per la comprensione di aspetti epistemici più complessi.

Secondo la definizione di Damiano, essa più che come organizzatore si prospetta come un semplificatore all’interno dei molteplici possibili che si susseguono nelle situazioni didattiche:

«pur confermandosi non di rado come cerimoniali che assicurano la stabilità dell’organizzazione della classe, possiedono comunque margini di variabilità che consentono adattamenti agli imprevisti allo scopo di mantenerli in qualche modo sotto controllo, come schemi o habitus che semplificano notevolmente il caleido- scopio delle situazioni didattiche possibili» (Damiano, 2013, p. 166).

Le routines inoltre non si realizzano soltanto nel corso dell’azione e non sempre si strutturano in attività finalizzate all’apprendimento: riguardano ogni aspetto dell’organizzazione della didattica, a partire dalla progettazio- ne, all’organizzazione della classe, agli aspetti relazionali, alla valutazione, alla documentazione e sia pur messe in campo, molto spesso, come proce- dura di facilitazione e consolidamento per gli alunni, in realtà sono diretti e regolati dall’insegnante e non riguardano aspetti di co-azione. Secondo Bruner (1992) gli insegnanti ricorrono alle routines in una prospettiva pragmatica e concettuale pianificando l’intervento didattico e partendo da una raccolta di informazioni più o meno esplicita e strutturata, che comun- que fa riferimento ai livelli di apprendimento degli alunni. Sono dunque strategie intenzionali, non organizzatori intrinseci all’azione. La routine è quindi un comportamento didattico ricorrente, che può essere stilizzato e modellizzato, non solo a fini di classificazione epistemologica o metodolo- gica, ma anche per fornire all’insegnante la sintesi di un approccio in cui egli possa riconoscersi e che, in un determinato contesto e in determinate condizioni, garantisce la decifrazione del contesto stesso e un risultato atte- so in termini di efficacia (Cardarello, 2014).

Il formato pedagogico dunque si discosta dalla routines perché non codi- ficato né pre-dotato di attese che non si risolvano altro che nell’azione. Viene messo in pratica a livello pre-riflessivo e pre-cosciente, il significato gli può essere conferito solo a posteriori, dall’attore stesso nel momento in cui riesce a prendere le distanze dall’azione e a cercare di comprendere i significati del suo agire. Il formato non è un modello, è una ricorsività priva di formalizzazione.

Non avendo una propria codifica, il formato pedagogico non deriva dall’esterno, da una trasmissione o da un apprendimento anche non forma- le. Pur essendo presente a livello di comunità professionale e condiviso tra docente e studente, esso non viene insegnato né appreso, ma viene diretta- mente incarnato attraverso l’agire didattico. Questo suo essere incarnato ed incorporato lo distingue da un’altra forma di ricorrenza presente nei sistemi scolastici: il rituel (Merieu, 2015). Nel momento della trasposizione didatti- ca infatti l’insegnante subisce l’influenza di una serie di impliciti che deri- vano tanto da opinioni comuni ormai assunte come apriori, quanto dalle consuetudini scolastiche interne alla sua mediazione e trasmissione, che si strutturano in forma di veri e propri rituali (Vannier & Merri, 2015) nel corso del curricolo.

I rituels sono definiti da Dartiguenave (2012) come atti convenzionali e solenni che creano nello stesso tempo identità ed unità e sono identificati in precisi momenti dell’attività didattica, come l’appello, ma anche in pratiche

più complesse e articolate di gestione della classe e di organizzazione del lavoro dell’anno scolastico, dotate di ricorsività e di ripetitività quasi litur- gica, per esempio l’attribuzione dei ruoli di capoclasse o similari, la regola dell’alzata di mano per stabilire il turno di parola.

Anche in questo caso le differenze con i formati pedagogici sono note- voli. Intanto perché i rituels si inquadrano in una dimensione più pedagogi- ca che didattica, legati alla sfera del comportamento e della disciplina di classe e quindi riguardano più la dimensione etica che non quella cognitiva del processo di insegnamento-apprendimento. Inoltre essi non sono condi- visi con gli studenti, ma anzi spesso vissuti in termini oppositivi, tanto che gli studenti reagiscono mettendo in atto contre-rituels (Vienne, 2005).

Un recente compendio della pratica del rituel nella scuola quebecoise (Recherche en éducation, n. 8, 2015) ha inoltre messo in evidenza la logica prettamente sociale ed istituzionale di cui essi sono portatori. Agiti a livello di alunni di scuola dell’infanzia essi sono una forma di iniziazione alla vita sociale per i bambini, in quanto permettono la condivisione ed il prendere parte a precise dinamiche di comportamento e di introiettare e condividere i valori fondativi della società di riferimento (Vannier & Merri, 2015). Essi quindi hanno un alto tasso di intenzionalità ed appartengono non tanto allo stile, ma al genere proprio della pratica. La loro funzione è multipla, ha prima di tutto un portato sociale che va dalla consacrazione ed accettazione dell’ordine costituito (il dare del lei al docente), all’adozione di posture fi- siche imposte dall’istituzione di riferimento (l’alzata di mano a cui si ac- cennava sopra), alla trasmissione di norme culturali (l’organizzazione del tempo lavorativo), la creazione di un quadro identitario rassicurante e signi- ficativo. I rituels hanno anche funzione di apprendimento e tendono a met- tere in primo piano la dimensione comunitaria, interattiva e personale del sistema dell’educazione e la centralità della funzione linguistica: l’attività rituale conduce l’alunno a costruire il pensiero attraverso il linguaggio e le interazioni, permette la distinzione delle diverse funzioni del linguaggio: indicare, evocare, domandare, descrivere e dialogare. Nonostante diventino procedure incarnate al punto da contribuire alla strutturazione dell’identità personale, essi sono distanti dai formati pedagogici perché sono atti di isti- tuzione, ovvero fanno parte di un processo guidato da finalità e obiettivi del tutto differenti da quelli del compiersi dell’azione didattica, che si riverbe- rano sull’esterno, in una dimensione socio-politica extrascolastica e collet- tiva.

6. Far emergere i formati per innescare il cam-